Milano
Fare politica in una città di successo: un vaso pieno circondato da molti vuoti
Ieri sono intervenuto come “relatore esterno” a un incontro organizzato dal Pd di Milano sul futuro della città e della Città Metropolitana. Magari a qualcuno può interessare quel che avevo pensato di dire perchè, almeno nelle mie intenzioni, travalicava sicuramente i confini del Pd, ma anche quelli della città. Ecco il testo.
Quando Alessandro Capelli, che ringrazio molto assieme a voi che siete qui, mi ha chiesto di intervenire, ho pensato di fare un esercizio professionale, culturale e umano che tento di fare sempre, invero non solo a proposito della nostra città. Mi sono sforzato, infatti, di guardare Milano dall’alto, come da un satellite, o almeno da una mongolfiera. Mentre salivo ho provato però a non lasciare a terra dolori, entusiasmi, fatiche, ritagli di vite e di notizie, voci, lamentele, narrazioni prive di equilibrio in un senso e in quello opposto. L’obiettivo virtuoso di storici e geografi, e più modestamente anche quello di chi prova a raccontare il suo tempo, è in fondo mescolare quello che sappiamo o crediamo di sapere per studio ed esperienza di quaggiù, in questo caso della nostra città, con quello che si vede dall’alto, da lontano. È una sintesi non facile, una fotografia grandangolare con qualche zoom e tanti buchi, sia di dettaglio che, forse anche, di senso, che lascerà infine più domande e questioni che risposte e orizzonti. Ma proprio per questo provo a restituirvela, perchè a chi fa e vuole fare le immagini dal satellite sono preziose.
Guardata dall’alto, senza perderne la durezza, Milano è una metropoli tascabile di buon successo, piantata nel mezzo di una delle aree più industrializzate del mondo. Quest’area sente però, probabilmente a ragione, che gli anni migliori sono alle spalle. Tutto attorno a noi c’è un luogo mitologico, tutti la sanno e nessuno la stana: la Città Metropolitana. È una delle tante idee frutto di un tempo strano, nel quale si è creduto che cambiare gli assetti istituzionali, amministrativi e infine costituzionali di un paese potesse essere principalmente, se non esclusivamente, uno strumento di propaganda e consenso di breve periodo. È andata così, e non è solo colpa di non meglio precisati altri. La Città Metropolitana serve però almeno a ricordare che Milano insiste su un territorio vario e variabile: la Stalingrado d’Italia, al nostro Nord, può diventare una roccaforte della destra; l’agricoltura che comincia alle sue porte, al nostro sud, può diventare una perfetta sconosciuta dopo che, per secoli, ha costruito la fortuna di questa terra di mezzo. Poi, certo, resta la cruda realtà che bussa in casa e in tasca ai cittadini: perché la città metropolitana, vista da Milano, si divide tra i posti nei quali arriva la metropolitana e quelli nei quali invece no.
Al nostro Occidente c’era un triangolo industriale che si chiudeva con Torino e Genova, che ha retto la grande industria italiana per tutto il Novecento. Un mondo intero che, semplicemente, non esiste più, e la cui fine si specchia con precisione nella crisi dei valori immobiliari e nella lenta, costante, implacabile decadenza demografica di due città con passati gloriosi, e non così remoti.
Al nostro Est c’è il Nordest: che in poche generazioni è passato dalla pellagra e dalle emigrazioni di massa, a un arricchimento rapidissimo, violento, fondato su un modello di sviluppo fatto di lavoro, sacrificio, svalutazioni competitive quando c’era la lira, alcune vere eccellenze, un rapporto dialettico con lo stato centrale e le sue articolazioni, a cominciare da quelle fiscali, e l’utilizzo del territorio come se fosse una risorsa infinita. Cosa che evidentemente non era, e dovevamo saperlo anche prima della coscienza ambientale di questi anni. Oggi, di quel passato, restano appunto alcune eccellenze produttive e industriali, e menomale, un patrimonio di lavoro e spesso di autosfruttamento che a sinistra si è troppo a lungo e colpevolmente faticato a capire e rispettare, molta ricchezza privata che fa fatica a pensare un destino diverso dalla rendita, ma anche una lunga fila di capannoni e case vuote, pensate come rivincita sulla povertà di ieri e come promessa per il benessere di figli e nipoti di domani. Come a volte capita, nel nostro paese, i regolamenti di conti per i torti subiti nel passato sono stati più efficaci dei progetti di futuro. Resta che, di quei lunghi decenni che vanno dal boom degli anni 50 agli anni 80, nei quali Milano era l’avamposto e il terminale di un grande Nord che correva tutto spedito sulla strada di un progresso e di uno sviluppo tutto sommato omogenei, non resta niente. Se non Milano. Ogni tanto, se vi capita di incontrare un muratore o un elettricista bergamasco, uno che si alza alle 5 e mezza per mandare avanti i cantieri della città, e se ci parlate un attimo, vi racconterà che quando “son cambiate le regole delle macchine” in un mese ha preso 1500 euro di multa. Per questi lavoratori Milano è l’unica fonte di guadagno decente, che però contiene in sè un’extratassa, che nessuno ha voluto provare a spiegargli per davvero. Non c’è una ribellione, solo un rancore sobbollente, non c’è negazionismo climatico. Mi chiedo, ci chiedo, se è giusto far finta di niente perchè lui, loro, dopo tutto, 1500 euro li hanno.
Pensiamo al nostro ricchissimo nord lombardo, a una regione che in oltre trent’anni di Seconda Repubblica, ha costruito un’idendità fondativa originaria che abbiamo pensato sempre come contrapposta a Roma Ladrona, ma cosa c’era di più milanese del vero nemico di quella stagione, del vero emblema ambulante dell’unico leader nazionale che la politica milanese abbia mai dato al paese, cioè Bettino Craxi? Eppure, proprio quella storia, che nasceva da una provincia che sognava la Svizzera, il suo fisco, il suo modello confederale, oggi si tiene strettissima Milano capitale, e anzi ne invidia la capacità di attrarre capitali, manco fossimo diventato noi un paradiso fiscale. Guarda a Milano perfino per pescare la propria leadership, la storia leghista. Lasciando perdere i risultati, ma pure questo, a ben pensarci, è simbolico e significativo.
Nel resto del nostro paese, di provincia e provinciale, la situazione non è migliore, lo sappiamo. Con l’eccezione felice del modello emiliano, della città diffusa lungo la via Emilia, e ovviamente senza dimenticare che ogni discorso generale perde il dettaglio, l’Italia assomiglia sempre di più a un grande vuoto: di persone, di investimenti, di opportunità. Capita spesso, per tanto fattori che travalicano perfino l’ambizione delle mie divagazioni, che però le famiglie siano ricche. Abbiano cumulato e infine distribuito rendite giù per i rami delle generazioni, e le ultime sono più scarne e quindi più fortunate di chi li ha precedute. Quanto basta per mandare gli ultimi nati a cercare sapere, studio e fortuna a Milano. I più fortunati, magari, con l’eredità dei nonni, finiscono col radicarsi in una casina, magari ina ina, di proprietà. Per loro, lo stipendio basso smette di essere un elemento di conflitto, perchè il costo principale del vivere a Milano, cioè, l’abitare, non esiste. E così, entrare a fare parte del 75% di residenti cittadini, cioè elettori milanesi, che stanno materialmente – al di là delle sensibilità di ciascuno – dalla parte di chi goda o beneficia della crescita della rendita fondiaria. In una città nella quale quasi il 50% delle case sono abitate da singoli, mentre erano circa il 30% nel 90. Le unità abitative non sono abitate proporzionalmente, e della demografia non teniamo mai abbastanza conto. E involontariamente, inconsapevolmente entrano, questi “ultimi arrivati” della proprietà milanese, in una saldatura di interessi che sembra folle, ma è così solo le la guardiamo distrattamente. È un unico grande partito che, almeno nel breve periodo – ma il breve periodo è l’unica dimensione che esiste nella politica di oggi – tiene insieme i grandi fondi immobiliari e la piccola proprietà, quella di chi ha Milano è nato, cresciuto, ha ereditato, e di chi ha comprato come dicevamo sopra. O di chi l’ha fatto perché, dopo la Brexit, e lavorando per istituzioni finanziarie o comunitarie, ha beneficiato di una città europea ma italiana, piacevole ma efficiente, costosa per gli stipendi italiani ma veramente mediterranea per chi atterra da Londra, con mezzi pubblici di ottimo livello, con ospedali che mediamente funzionano e connessioni con Italia e mondo da capitale globale. Tutto frutto di investimenti pubblici sedimentati lungo i decenni, che diventano vantaggio per tutti, e a lento rilascio. E con comunità civiche e associazioni diffuse che spingono per avere servizi, scuole che funzionano. E menomale che ci sono.
Tutti questi fattori, sostanzialmente virtuosi, sono essenzialmente frutto di una diseguaglianza, macroscopica, che divide Milano dal resto dell’Italia. Milano, per fortuna e merito, è l’ultima cosa che funziona, e per questo attrae capitali, investimenti, attenzione. Succede, in quest’epoca più che mai, ma in fondo è sempre successo, alle città che funzionano. Che sono sopravvissuto con successo, appunto, a guerre, pestilenze e pandemie. Questa diseguaglianza che separa sempre di più e nettamente Milano dal resto d’Italia, è nel nostro paese molto accentuata, ma sta dentro a un tendenza globale, e genera molte cose. Genera, principalmente, e per quel che qui ci interessa una diseguaglianza tra molti diversamente rentier, che sono la maggioranza dei cittadini/elettori milanesi. E una minoranza di loser, che non hanno una rendita cui attingere: che non l’avranno mai, oppure che sperano di averla. Nell’intersezione tra due categorie che sembrano incompatibili, in realtà, ci sono domande comuni. Chi ancora sta fuori dall’area geografica/economica di quella rendita, chi pur in città si sente ancora nel cono d’ombra, chiede in ordine sparso servizi che funzionano, sicurezza, spesso confusa col decoro, riqualificazioni che aumentino la qualità del proprio essere, e il valore del proprio avere.
Una città di successo, Milano, insomma, che rende più chiare le diseguaglianze fuori e dentro di sé ma anche fa percepire come meno necessaria la politica: perché nell’ultimo trentennio, da quando la politica si è ritirata progressivamente dal suo diritto e dovere della pianificazione, ha progressivamente soddisfatto, sempre di più, i criteri di benessere del tempo che viviamo. Ha attratto capitali, ha attratto umani: ha fatto sentire che qui dentro, nel nostro recinto, basta il mercato. È per questo, in fondo, che mentre voi che provate da sinistra, qualunque cosa significhi, a fare politica a Milano, dovete confrontarvi con una grande questione: una gran parte di questa città non chiede meno gentrificazione, ma di più. Una delle ragioni del successo del centrosinistra a Milano è proprio dovuta alla sua attrattività per le èlite, come capita del resto a tutte le città di successo del mondo.
Infine, e proprio per tutto quanto detto finora, mi prendo la libertà di una domanda che risulterà forse fuori tema, a qualcuno suonerà scostante, impertinente. La rivolgo a chi tra voi mi è legato da lunga confidenza, e ugualmente a chi non ho mai conosciuto. Perché fate politica? Perché fate questo lavoro bellissimo, sfiancante, poco remunerativo, che gira attorno a dinamiche che il mondo considera – spesso non a torto – cervellotiche, incomprensibili, irrilevanti? Perché la fate a Milano, la capitale dell’Italia del mercato, cioè la capitale dell’Italia del Capitale, il luogo in cui si è dimostrato che – lo dicevamo prima – senza i correttivi del pubblico la maggioranza di chi prende voce si dice soddisfatta, in fondo, di quel che succede in questa città? E voi, che fate quello che fate, perché lo fate? E per chi? Con quale idea di società e città, al vostro orizzonte? Sembrano domande eccentriche, nel loro carattere personale. E invece, proprio perché fate politica in una città che sembra non averne davvero bisogno, e che ha fondato il suo successo sul pieno del mercato mentre tutt’attorno le si faceva il vuoto, mi paiono fondamentali per testare il grado di pazienza, disponibilità al lavoro lungo e al conflitto che servono, oggi più che mai, alla politica.
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