Un futuro per Gaza. La lezione dello scrittore e della ragazza

28 Luglio 2024

«Al mattino ho letto le notizie. Le notizie parlano di noi. Ma sono confezionate per gente che legge lontano da qui, che non può minimamente immaginare di conoscere qualcuno che abbia passato quello che abbiamo passato noi. Sono notizie per chi legge solo per darsi conforto, per dire a se stessi: è ancora lontano, molto lontano. Io leggo le notizie per ragioni diverse, le leggo per sapere che non sono morto. Presumibilmente i morti non leggono le notizie, ma potrei sbagliarmi» (Atef Abu Saif)

Per i tempi feroci e violenti che viviamo una conoscenza necessaria è quella del pensiero di uno dei più grandi psicologi del nostro tempo: Albert Bandura [1].

A lui si deve un’analisi serrata e molto documentata del cosiddetto “disimpegno morale”: Bandura sostiene che le persone possono agire in modo umano o inumano. Il comportamento inumano diventa possibile quando una persona può giustificarlo. Questa giustificazione comporta una sorta di ristrutturazione cognitiva, che segue uno schema specifico e al cui servizio è posto un certo uso strumentale di parole e racconti. 

L’analisi del linguaggio volto a giustificare il massacro di Gaza è un caso paradigmatico.

Lo svela con il suo libro [2] il giornalista Raffaele Oriani, un ex collaboratore de il Venerdì di Repubblica. Di fronte alla “reticenza” del quotidiano nel raccontare il massacro dei palestinesi, ridimensionandolo attraverso l’uso di un linguaggio semplificato per nascondere la violenza, non nominandola, depotenziandone la carica di colpevolezza, il 5 gennaio scorso ha inviato al direttore una lettera di dimissioni. “Magari fra decenni – scrive Oriani – in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti”.

Oriani spiega che il racconto della guerra in Ucraina e in quella in corso a Gaza sulla stampa mainstream ha una parzialità evidente: la tragedia delle vittime ucraine e israeliane viene raccontata attraverso la narrazione delle storie delle persone, mettendosi dal loro punto di vista, suscitando emozioni di vicinanza e compassione; nel caso delle vittime palestinesi c’è, al massimo, la fredda contabilità della morte senza nome, crescente di giorno in giorno, della quale quasi mai, inoltre, è indicato direttamente il soggetto responsabile. Una documentazione che implementa la correttezza dell’analisi di Bandura: una gigantesca deumanizzazione di fatto volta ad anestetizzare l’empatia e l’indignazione dei destinatari delle notizie.

«Dalla spersonalizzazione alla deumanizzazione il passo è breve» (Bandura).

Gideon Levy (citato da Oriani), giornalista israeliano, ha osservato: “Parlare dei palestinesi come esseri umani in Israele è diventato un tabù”. La deumanizzazione del “nemico” – diffusa per omissione anche sui media italiani – è il meccanismo grazie al quale si annullano gli scrupoli sia nel compiere che nell’accettare la violenza, negando l’umanità di chi la subisce.

«La chiamano pulizia etnica. Ma di pulito non c’è niente. Non le mani degli assassini. Non le coscienze di chi ha taciuto» (Srebrenica 1995).

Il 21 luglio scorso il triste bilancio dei giornalisti morti a Gaza ha avuto questo bollettino: con l’uccisione del giornalista palestinese Mutasim Mahmoud Gharab da parte dell’esercito israeliano, il numero di operatori nei media uccisi da Israele a Gaza a partire dal 7 ottobre, è arrivato a quota 162.

Una bellissima lettura per umanizzare il massacro di Gaza che viene brutalmente silenziato dalla violenza dell’esercito israeliano e dalla propaganda dei suoi complici, è offerta in questi giorni dal racconto dello scrittore palestinese Atef Abu Saif [3].

Scrittore e politico, dal 2019 ministro della Cultura dell’Autorità nazionale palestinese, il 7 ottobre 2023 si trovava a Gaza per un evento dedicato alla Giornata internazionale del patrimonio con il figlio quindicenne Yasser.

Il suo è il diario di 60 giorni trascorsi sotto le bombe cercando di sopravvivere cercando cibo e acqua, luoghi per dormire, rimuovendo macerie per dare sepoltura alle vittime, offrendo parole di consolazione ai sopravvissuti.

Un vero e proprio resoconto dal profondo di un inferno di sofferenza e di morte senza confronti.

Ma con squarci di speranza lucida e appassionata per dare voce alla resistenza di un popolo, da cui possiamo anche noi imparare di quanta ostinazione è capace l’essere umano che vuole un futuro.

«Mentre penso al futuro che questa città dovrà affrontare, ammesso che ne abbia uno, mi sento obbligato a continuare a scrivere. Attraverso la scrittura possiamo mantenere vivi i luoghi, possiamo conservare i nostri ricordi delle strade che ora sono macerie, delle case che sono state rase al suolo. Non solo possiamo impedire che vengano dimenticate, ma possiamo anche creare una mappa di come dovrebbero essere ricostruite. Proprio come erano, ovunque ci ritroveremo.

Tutta la famiglia a casa di mio cugino Hatem è morta quando la bomba è esplosa. Solo Wissam, mia nipote di 23 anni e una sorella Widdad sono sopravvissute per portare avanti la loro storia, per raccontarci gli ultimi momenti, le ultime risate e gli ultimi abbracci. Qualcuno deve dimostrarci che nessuno ha il diritto di porre fine alla vita. La vita è un dono, e qualunque cosa ce l’abbia data la proteggerà. Questa non è una preghiera, poiché nessuna preghiera può cambiare il corso del destino, è un sentimento che provo, e che, di tanto in tanto mi travolge. L’ho capito ieri sera, mentre visitavo Wissam in ospedale, quando ho intravisto una ragazza in un corridoio dell’ospedale che, in mezzo al caos estremo e alla folla, faceva tranquillamente i compiti di scuola». 

[1] Albert Bandura, Disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene, Erickson 2017
[2] Raffaele Oriani, Gaza, la scorta mediatica. Come la grande stampa ha accompagnato il massacro. E perché me ne sono chiamato fuori, People 2024
[3] Atef Abu Saif, Diario di un genocidio 60 giorni sotto le bombe a Gaza, Fuori scena

TAG: Albert Bandura, Atef Abu Said, disimpegno morale, Raffaele Oriani, Striscia di Gaza
CAT: Medio Oriente

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