Medio Oriente
Tutte le strade portano a Roma
From: Fiammetta Martegani
To: Susan Dabbous
Carissima Susan,
oggi ti scrivo dalla tua città, la nostra Capitale, mentre tu sei immersa nella tua vita quotidiana nella capitale europea.
La ragione per cui sono qua è per inaugurare la mostra che avevo già portato a Milano in occasione di Yom ha Shoah.
Questa volta però a Roma sarà un percorso speciale e del tutto sconosciuto, persino ai romani.
Questa volta infatti parleremo di come uno dei luoghi più celebri di Roma, ovvero la Cinecittà di Fellini, abbia avuto un ruolo centrale nella storia dell’Aliya Bet.
Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, infatti, tra i vari campi profughi allestiti in tutta Italia per ospitare i rifugiati sopravvissuti alla guerra, proprio i teatri di posa della Hollywood sul Trastevere divennero le unità abitative in cui alloggiarono per settimane, mesi, talvolta anni, i sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti.
Tra questi i genitori di Israel Levi, che si sono conosciuti proprio durante la lunga odissea che li ha portati, non avendo altro luogo in cui poter tornare, in Israele e che, in attesa di arrivarci, si sono sposati proprio a Roma, nella Sinagoga Grande del Ghetto, il 24 Novembre 1945.
A distanza di 73 anni, nella stessa data abbiamo inaugurato al Museo della Shoah di Roma la versione romana della mostra sulla Aliya Bet, in un percorso che non parla di morte e di dolore ma di vita e di speranza: del grande coraggio di chi ha affrontato questa odissea dai campi di sterminio verso le Terra Promessa, e nel corso della quale sono anche venuti al mondo dei bambini, che oggi sono testimoni di questa storia incredibile. Come Israel Levi, nato a Roma negli ospedali vaticani, cresciuto tra i set di Cinecittà e alla fine giunto in Israele, in cui ha passato il resto della sua vita e di cui porta il nome.
Ti scrivo a qualche ora dall’inizio dell’inaugurazione della mostra, da un piccolo bar di Trastevere, dove, come per miracolo, sembra non essere ancora arrivato il turismo di massa e la musica è ancora quella anni Novanta che mi ricorda gli anni più belli e spensierati della mia vita, ovvero il liceo.
Tuttavia proprio qui, sul marciapiede davanti al bar, ho trovato le pietre della Memoria che ricordano come due cittadini italiani, durante la seconda guerra mondiale, persero la propria vita, semplicemente in quanto ebrei.
Le due facce della stessa medaglia di questa incredibile città in cui la storia si legge a strati: dalle rovine archeologiche in cui si puó ricostruire anche la storia del popolo ebraico, che a Roma vive dai tempi di Tito, come si può osservare dalla Menorah incisa nell’Arco del grande Imperatore, alle Fosse Ardeatine in cui, il 24 marzo 1944 vennero spezzate la vite di 335 civili tra militari, prigionieri politici ed ebrei, tutti italiani.
Per me Roma è tutto questo ma è, soprattutto, uno specchio della Memoria in cui mi ci rifletto ogni volta che ci rimetto piede.
Forse anche per questo, anche dopo 37 anni in cui ci bazzico, per me ogni volta è come la prima volta.
Me invece per te che ci sei cresciuta ma che da anni ormai la vivi quasi più da turista che da romana, come è vivere lontano dall Dolcevita?
From: Susan Dabbous
To: Fiammetta Martegani
Cara Fiammetta,
mi chiedi cos’è Roma per me e mi viene da scrivere una lettera d’amore piena di risentimento e di rassegnazione.
Roma è una città che mi ha accolto e inglobato nel lontano 1985 quando arrivai piccolina che parlavo a malapena l’italiano, in quegli anni, fammelo dire, dorati.
La mia famiglia multietnica e multireligiosa non ha mai subito un episodio di razzismo.
In quegli anni, gli anni 80’, sono cresciuta tra Campo di Fiori e piazza Navona perché mio padre aveva aperto una piccola pizzeria al taglio in via dei Baullari.
Credo che proprio in quegli anni tra banchetti e mercatini magici ho costruito il mio amore incondizionato per la città e il suo centro.
Trastevere era, ovviamente, la naturale appendice del nostro quartiere, perché in tempi in cui le macellerie halal non esistevano ancora mio padre andava a comprare la carne kosher al Ghetto.
Così abbiamo iniziato i nostri sconfinamenti, sempre gastronomici: pane, biscotti, carciofi, tutto al Ghetto era più buono.
Solo da grande ho capito perché si chiamasse Ghetto. Solo a vent’anni ho preso coscienza di quel che fosse realmente accaduto nel 1943.
Una notte, del 2002, con un insolito freddo, spinta dall’amore verso Luca Zingaretti e il suo personaggio Montalbano, sono andata a sentire una sua lettura ai Portici d’Ottavia.
Ho ancora i brividi se ripenso alle emozioni provate quella sera del 16 ottobre. Non ti nascondo che fu proprio in quel momento che dentro di me si schiarirono tutti quei pregiudizi “insiti” che hanno gli arabi nei confronti degli ebrei.
Ho imparato a distinguere nettamente la storia, le storie, l’antisionismo e l’antisemitismo. Tutto quel che è accaduto in Israele dopo il 1948 è politica.
Ma quel è accaduto prima è una storia di profughi che va rispettata sempre, comunque, e ovunque. Anche a Cinecittà.
Ho visto che la tua mostra a Roma è stata visitata dal Ministro degli Esteri Enzo Moavero e prima ancora a Tel Aviv era stata visitata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Come è stato per te vedere il riconoscimento delle alte istituzioni di tanto lavoro che sono sicura avrai fatto a qualsiasi ora del giorno è della notte, con Enrico che piangeva o che ti tirava per le mani perché voleva giocare?
From: Fiammetta Martegani
To: Susan Dabbous
Carissima Susan,
in effetti, assieme all’altra curatrice, Rachel Bonfil, abbiamo lavorato a questa mostra giorno e notte dal 2015 e nel frattempo è successo di tutto, inclusa la nascita di Enrico, che porta questo nome in omaggio, oltre che al nonno, anche al Capitano Enrico Levi, il primo capitano a portare in salvo la prima barca di 35 profughi, salpata clandestinamente da Monopoli il 21 agosto 1945.
Nel corso di questi tre anni una delle cose più belle che mi sono capitate, aldilà degli incontri con le varie istituzioni, ambasciate, sindaci e ministri, è stato incontrare i superstiti e i loro figli: i veri protagonisti della mostra.
Come Israel Levi, di cui ti ho parlato prima, ma anche i cosiddetti “Bambini di Selvino”: un gruppo di orfani della Shoah, arrivati in Italia senza né madre né padre, la cui unica famiglia era quella degli altri bambini conosciuti all’orfanotrofio di Sciesopoli, a Selvino, nel bergamasco.
Da allora, come una vera famiglia, le loro strade non si sono mai più lasciate. Molti di loro sono giunti assieme in Israele, spesso cresciendo nello stesso kibbutz. Alcuni di loro si sono sposati e hanno avuto dei figli, e ancora oggi festeggiano tutti insieme la Pasqua e il Capodanno ebraico.
Non ti dico la loro emozione quando sono stati ricevuti, presso il nostro Museo di Tel Aviv, dal Presidente Mattarella. E non ti dico la mia, di emozione.
A volte penso che solo per momenti come questi sia valsa la pena di tre lunghi anni di lavoro, inclusa l’estenuante ricerca negli archivi con il pancione, Enrico nel marsupio durante la fase di allestimento al Museo di Tel Aviv, ed infine Enrico che corre tra i corridoi del Binario 21, il binario della Stazione Centrale da cui partirono i deportati ebrei per i campi di concentramento durante la Seconda Guerra mOndiale.
Mi è dispiaciuto non averlo avuto tra i piedi anche Roma ma, al tempo stesso, camminare da sola per i vicoli romani sotto la pioggia mi ha riportato agli anni dell’università quando scappavo da Milano nel weekend per evadere a Roma sentendomi come Audrey Hepburn in Vacanze Romane.
Ma invece tu con Milano che rapporto hai? Sentiti libera di essere onesta, tanto sappiamo che anche per me quello con Milano è un rapporto odi et amo…
From: Susan Dabbous
To: Fiammetta Martegani
Cara Fiammetta,
io in realtà con Milano ho un rapporto solo di amore, perché tutte le volte che ci vado incontro amici storici o faccio nuovi incontri professionali, sempre molto interessanti.
Mi rendo conto che viverci tutti i giorni è probabilmente molto diverso, ma per me è stato amore fin dalla prima volta.
I dibattiti in Statale, gli aperitivi sui Navigli, le cene surreali con amici giornalisti più idealisti di me. Le passeggiate tra le vetrine lussuose del centro per poi finire in qualche catena alimentare super economica a prendere un caffè con i miei amici siriani che vivono lì. Le interviste ai migranti in transito, le chiacchierate con la mia agente che mi hanno portato a scrivere “La ragazza di Homs”: un libro concepito a Milano e in parte ambientato lì. Una città che, più di molte altre città, nasconde al suo interno le storie, spesso sconosciute, di chi vuole cambiare e chiede una nuova chance che Milano, più di qualunque altro luogo in Italia, riesce a dare.
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