Medio Oriente
Israele, la legge sulla nazionalità e il malessere delle democrazie
Ogni tanto conviene affrontare la prova delle Lettere persiane di Montesquieu: vedere la propria nazione, la propria cultura, la propria ideologia con gli occhi dell’altro; giudicare i propri costumi come se fossero costumi estranei. Molto spesso è una procedura da cui si «torna a casa malconci», ma è utile.
Ho provato a tradurre in altra lingua la nuova «Legge sulla nazionalità» dalla Knesset giovedì scorso ovvero a vederla dentro un lungo processo storico. Ne è venuto fuori un profilo interessante. Provo a riassumerlo.
Quando si ragiona in termini di diritto e di sistema costituzionale israeliano occorrerebbe considerare il modo in cui questo si è definito, ciò che è stato incluso (e soprattutto come) e ciò che è stato escluso (e soprattutto perché). È una discussione che nasce nel periodo del Mandato e si risolve nei primi anni ’50 con la non inclusione del diritto ebraico (ovvero diritto del popolo ebraico, dall’epoca biblica fino ai nostri giorni) nel diritto israeliano (al diritto dello Stato di Israele, come è stato stabilito dai suoi organi democratici, molto spesso indipendentemente, o addirittura in contrasto con la tradizione giuridica ebraica).
Chi vota per l’inclusione non necessariamente ha un’idea teocratica della società che intende costruire. Samuel N. Eisenstadt, per esempio, era tra i favorevoli a patto che rispetto al diritto si ragionasse nello stesso modo in cui si era lavorato sulla ricostruzione e sulla “rinascita” della lingua ebraica moderna. Ovvero non come riproduzione di una lingua sacra, ma come processo di desacralizzazione e secolarizzazione del diritto ebraico. In breve, in nome di una sua laicizzazione.
Viceversa chi era contrario, lo era spesso per motivi che destoricizzavano il diritto ebraico e gli riconoscevano uno status di diritto divino, per cui erano per la non inclusione perché ciò poteva avvenire solo in conseguenza di una magistratura e di un corpo di giudici interno e sottoposto a quel diritto. Ovvero riconoscendo implicitamente la sua non secolarizzazione, pena la sua dissoluzione.
La decisione fu così di respingere l’idea dei ricezione del diritto ebraico nel diritto israeliano.
La sintesi di quel processo è la discussione che intorno al 1958 è promossa da Ben Gurion intorno alla questione del «chi è ebreo?» in mezzo a quella discussione c’erano molte delle questioni che sono tornate nei giorni scorsi.
Vorrei iniziare dal testo di quella lettera perché credo dica molto di che cosa stiamo (e soprattutto di che cosa non stiamo) discutendo.
Dunque scrive Ben Gurion in quella lettera, a premessa delle 4 questioni su cui chiede un parere:
«Il governo ha deciso che si registrerà come «ebraica» la religione e la nazione di ogni persona adulta che dichiara in buona fede di essere ebrea e di non appartenere a nessun’altra religione. Per la legge sull’uguaglianza dei diritti della donna in vigore in Israele, entrambi i genitori sono i tutori del figlio; se uno dei due muore, quello che gli sopravvive diventa il tutore. In generale, si accetterà perciò la dichiarazione dei due genitori nel caso in cui sia necessaria la dichiarazione di un minorenne. Ma per l’iscrizione allo stato civile di figli nati da matrimoni misti si pone un problema quando la madre non è ebrea e non si è convertita ma è d’accordo con il padre che il figlio sia ebreo: si deve allora registrarlo come ebreo, basandosi sull’espressione della volontà dei genitori e sulla loro dichiarazione in buona fede secondo la quale il figlio non ha nessun’altra religione, oppure, perché il figlio possa essere iscritto come ebreo, si deve esigere, oltre all’accordo dei genitori e alla dichiarazione una qualsiasi cerimonia? Una commissione di tre persone è stata incaricata di presentare le proprie conclusioni al governo dopo aver ricevuto i pareri dei Saggi di Israele, come si è già detto».
E poi precisa i quattro punti all’interno dei quali acquista significato la questione del «chi è ebreo?»:
Per la precisione:
1. Lo Stato di Israele – nella dichiarazione di Indipendenza come pure in tutte le direttive dei governi che si sono succeduti fino a ora, cui hanno partecipato partiti religiosi e laici – garantisce il principio della libertà di coscienza e di religione. Qualsiasi coercizione religiosa o antireligiosa è proibita, ogni ebreo può essere religioso o non religioso.
2. Israele è oggi un centro di riunione degli esiliati. Gli immigranti arrivano dall’Oriente e dall’Occidente, da paesi sviluppati e da paesi sottosviluppati. La fusione degli esili e la loro trasformazione in un modello nazionale costituisce uno dei compiti più importanti e più difficili che Israele deve affrontare. Dobbiamo perciò fare grandi sforzi per moltiplicare ciò che ci unisce ed eliminare per quanto possibile tutto ciò che divide.
3. La popolazione ebraica in Israele è diversa da quella della diaspora. Non siamo qui una minoranza sottoposta alla pressione di una cultura straniera e non temiamo l’assimilazione degli ebrei da parte dei non ebrei, come nei paesi prosperi e liberi. Al contrario, possiamo qui osservare la tendenza a una assimilazione dei non ebrei al popolo ebraico, in particolare tra le famiglie di persone provenienti da matrimoni misti che immigrano in Israele.
Mentre nella diaspora i matrimoni misti rappresentano uno dei fattori più importanti di assimilazione e di abbandono dell’ebraismo, le famiglie miste che arrivano in Israele, soprattutto dai paesi dell’Europa orientale, riescono a fondersi completamente con il popolo ebraico.
4. La popolazione di Israele non si considera tuttavia una nazione distinta dall’ebraismo della diaspora, al contrario. Nessun gruppo ebraico nel mondo nutre, come quello di Israele, un sentimento così profondo di unione e di identità con tutti gli ebrei del mondo. Non è un caso se le direttive esigono dal governo che esso cerchi di «approfondire la coscienza ebraica della gioventù israeliana, di unirla al passato del popolo ebraico e al suo patrimonio storico e di ampliare le sue relazioni spirituali con l’ebraismo mondiale, a partire dalla conoscenza del destino comune e della continuità storica che unisce gli ebrei del mondo intero, di tutti i tempi e di tutti i paesi».
Da quel dossier di risposte è significativo che non discese una deliberazione. La questione rimase cioè sospesa. La questione si riapre nel momento in cui il tema di che fare dei territori occupati del ’67 entra a far parte della partita identitaria e non più esclusivamente geografico-politica.
La svolta avviene lentamente ma lo stacco è nel 1974 e significativamente avviene in due tempi e riguarda tanto il mondo dei laici come il mondo religioso. Per i laici la questione è se considerare o meno i territori acquisiti con la guerra come il ripetersi del processo di colonizzazione avviato con il primo sionismo. E dunque modernizzazione, industrializzazione, «redenzione della terra attraverso il lavoro»; per il mondo ortodosso il tema è il ritorno e la ricomposizione territoriale dell’Israele antico. Nelle rispettive aree politico-culturali queste due ali rappresentano una minoranza in quel momento, ma la loro rilevanza non è espressa dal dato numerico, ma da quello della convinzione politica. Alla radice della loro posizione sta l’idea che il progetto politico non è mai la realizzazione di ciò che c’è ma la proiezione utopica, fantastica e radicale del progetto che si persegue. In questo senso per entrambi vale la convinzione politica l’idea di pensarsi in missione.
L’unica voce profonda che infatti sarà come tale accolta tanto da una porzione rilevante dei laici che meditano non solo sulla loro identità politica laica, ma soprattutto su una identità ebraica, come di una porzione sempre più ristretta minoranza del mondo ebraico ortodosso sarà rappresentata dalla voce, e dalla riflessione di Yeshajahu Leibowitz (1903-1994) la figura certamente più problematica e inquieta del mondo ebraico contemporaneo. Problematica:perché in forza di una forte convinzione ortodossa, ma anche di una competenza di studioso di scienza, Leibowitz rappresenta contemporaneamente il punto estremo di un percorso di fermezza nella convinzione religiosa, ma anche di estrema liberalità nelle ricadute politiche che da quella convinzione egli propone; e allo stesso tempo in forza della sua convinzione filosofica radicalmente e profondamente kantiana, ciò che discute non è il principio di fede, ma le logiche di deliberazione politica e le categorie culturali che da quella convinzione definiscono il senso comune. Uno dei temi che gli è più caro riguarda che cosa si intende per popolo ebraico, per Stato ebraico.
È un costante esercizio di riflessione in pubblico che Leibowitz fa a partire dal 1967 fino alla morte con lui per certi aspetti, ancor più radicalmente di lui, sua sorella Nechama, cui si deve un commento dei primi cinque libri del testo biblico tra i più creativi che si propone come un testa a testa con la costruzione della filosofia teologico-politica del mondo ebraico degli insediamenti che ha al centro la natura, la definizione e la fisionomia di ciò che si deve chiamare Stato ebraico, popolo ebraico.
Ma è una partita che lo vede in gran parte solo, e a cui con lentezza si sviluppano, accanto a lui e lontano da lui altri percorsi di riflessione ma che politicamente sono non rilevanti. Dalla parte del mondo laico e secolarizzato la riflessione sull’identità ebraica è invece incerta.
La votazione di giovedì scorso è anche l’effetto nella lunga durata di questa solitudine , da una parte e di questa assenza dall’altra. Fatte le debite differenze e specificità, a Gerusalemme si è venuta svolgendo l’ennesima puntata di un conflitto identitario che attraversa tutte le convinzioni politiche contemporanee. Anche lì chi ha vinto, almeno per ora, è chi sostiene una forte politica dell’identità, a dimostrazione, comunque, a sostegno dell’ipotesi sostenuta da Mark Lilla nel suo L’identità non è di sinistra: e cioè che perseguire politiche identitarie non porta consenso alle forze della democrazia politica, ma le rende dipendenti, e alla fine irrilevanti rispetto a una destra che in quel campo «esercita il suo mestiere» efficientemente.
In breve il voto di giovedì se parla alla società laica, democratica di Israele e la interroga sulle sue debolezze, non è meno marginale a chi ha a cuore la possibilità e il disegno di una società aperta, qui.
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