Al mio hashtag scatenate l’inferno
La vicenda di Roma, del suo (ormai ex) Sindaco Ignazio Marino, non può essere analizzata senza dare peso, insomma quantomeno accennare, al valore assunto dalla comunicazione, intesa non solo come ruolo dei media nella storia, ma come paradigma che investe le relazioni, sia politiche che tra i cittadini e le cittadine della Capitale e di tutta Italia. Un valore sempre maggiore, non solo per i tempi che corrono, ma perché è indicativo di come si sia radicalmente trasformato il rapporto tra potere e cittadinanza, sistematizzando e legittimando un uso e costume della politica e della società che pone seri interrogativi. Ai media è stata attribuita la colpa del linciaggio di Marino, sempre più grave e forte, ogni volta che faceva una delle sue “gaffe”, dalle vacanze estive alla vicenda degli scontrini; gli avversari, la Mafia Capitale a cui lui avrebbe voluto tagliare le gambe, hanno messo sul piatto la loro forza di cui la rappresentazione del funerale dei Casamonica, quasi in diretta, ne ha rappresentato il simbolo; il silenzio del premier Renzi, fino alla caduta definitiva del sindaco, è esso stesso un gesto simbolico, un’azione comunicativa, quasi da dettare l’agenda politica, il futuro di Roma e sul quale ogni approfondimento mediale si è interrogato. Marino e il suo popolo hanno così affrontato con lo stesso strumento l’avversario: con le conferenze stampa, le interviste e gli articoli – per nulla in silenzio – Marino diceva le sue ragioni, mentre il suo popolo si riuniva in gruppi, sui social, in rete, all’hashtag di #movemose. Una petizione online aveva dato il coraggio al “marziano” di continuare e di ritirare le sue dimissioni, alle truppe quello di radunarsi in rete ed in piazza. Tutto questo in un “cancelletto”.
Ma qual è la vera forza di un hashtag? Cosa cambia nei rapporti di potere? Perché la piazza del Campidoglio, per due domeniche, piena per chiedere di resistere contro i poteri forti, nonostante abbia palesato il disastro di un “partito pericoloso” (secondo la definizione di Barca), non è riuscita con il suo leader a compiere la rivoluzione? Tante sicuramente sono le ragioni, ma se dobbiamo considerare il peso, il valore, della sfera comunicativa, è questo che ci rivela la debolezza di quella piazza e di tutto l’affeaire Marino, che è poi oggi la debolezza della democrazia. Quella piazza è stata la vetrina di una rete, sono stati tanti cinguettii, centinaia di hashtag messi insieme, con ragioni “giuste” sul piano dei valori, contro mafia e malaffare, ma senza, se vogliamo continuare ad avere un po’ di onestà intellettuale, un pensiero dominante e costruttivo su Roma, se non quello, semplificando, di “ridateci il nostro Sindaco contro Mafia Capitale”. Così come questa è stata esattamente tutta la narrazione del Marino accoltellato “contro la parentopoli”. Un pensiero debole, non per i contenuti, ma perché debole è oggi la rivendicazione sociale permeata dai e sui media, social network compresi. Non sfugge a nessuno che sarebbe stato certamente diverso se in quella piazza ci fossero stati interi circoli del Pd romano pronti a sciogliersi in massa, se ci fossero stati altri partiti, associazioni, movimenti organizzati secondo una prospettiva, un pensiero lungo su Roma, che Marino si sarebbe dovuto fare carico di rappresentare. Ma la democrazia, ce l’ha insegnato in questi giorni Renzi, non sta nei circoli, nelle sezioni di partito, così come dimostrava quella piazza, e non sta neanche nell’Aula Giulio Cesare, dove proprio Marino sarebbe voluto andare. D’altronde quell’Aula, e il dibattito ad essa connesso, erano già stati da tempo sostituiti da dichiarazioni a mezzo stampa, talk show, post su facebook, tweet, di cui sono esemplari gli ultimi di Orfini. Ognuno in questa vicenda ha detto la sua senza avere bisogno di un luogo “della politica”. Perché i luoghi della politica (e della democrazia) sono stati banalmente svuotati, l’Aula come le assemblee, dai media e dal mainstraem. In una frase: tutto e tutti sono connessi, senza che a questa connessione corrisponda un’altrettanta socializzazione. Senza che le pratiche di riscatto e rivendicazione possano assurgere a qualcosa di più di una vetrina priva di una qualche forza simbolica.
Per tutto questo, e molto altro, la vicenda capitolina ci dice tanto sul vuoto democratico creato con e dai media. Molto di più rispetto all’entusiasmo con cui in molti pensavamo che “la rete” riuscisse invece ad essere terreno di democrazia e riscatto sociale. Non si tratta, ovviamente, di demonizzarla, perché ognuno ha trovato in essa il modo di “vetrinizzare” le proprie istanze, di rendere pubblico il proprio “io” e dire la propria opinione. Si tratta di analizzare piuttosto come la politica, e in questo caso il nostro premier e il Governo, utilizzi a suo vantaggio quel vuoto democratico – causa di astensionismo e antipolitica – che l’euforia della comunicazione porta con sé e stimola, e capire invece il modo di rovesciare il tavolo, e rendere semmai l’informazione e la comunicazione moltiplicatori di partecipazione e socializzazione. Se non si fa questo, si resta al massimo con l’amara consapevolezza che soli, mainstream e con un hashtag non si scatena l’inferno.
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