Media

Ora partite con l’ipocrisia del “Je suis Mali”

20 Novembre 2015

Si è sollevata da più parti, la questione dell’innegabile doppiopesismo riservato della eco mediatica alle tragedie nostrane, rispetto a quelle extra-nazionali (1).

Ora, il discorso è delicato e lo diciamo subito, così non si agita nessuno: le morti (come le vite) hanno pari dignità, indipendentemente da dove accadono le tragedie o dal numero di vittime che fanno.

Le morti però (come le vite), non hanno affatto tutte lo stesso peso: è un dato con cui bisogna fare i conti, come convitato di pietra alla vita quotidiana di qualsiasi organizzazione sociale. Ovunque, cari amici. La questione è certamente spinosa, ma comunque indagabile se decidiamo di voler superare la retorica, aprendoci ad un po’ di comprensione di noi stessi (3).

Prendiamo il paragone tra la tragedia in corso in Mali (4) e quello dell’attentato parigino. La grande macchina mediatica –che le notizie le forma, costruisce e distribuisce– è cosa dell’Occidente (libera interpretazione lasciata al lettore), e come tale soffre di un principio inevitabile di localizzazione geografica: si parla di più delle cose vicine, o se ne parla quantomeno con maggior coinvolgimento. Non c’è niente da fare, né qualcosa di sbagliato: è un processo in realtà molto umano. C’è del tragicomico e del paradossale nel presunto imbarazzo del rendersene conto, così come c’è dell’ipocrita nell’ostentarlo con contrizione, questo imbarazzo.

A tutto ciò si aggiunge la questione della percezione: quanto sono destabilizzanti le cose che succedono? Una strage in un luogo percepito come estremamente organizzato, stabile e ordinato, produce naturalmente un impatto più caotico rispetto alla strage del luogo di guerra.

Ogni giorno avvengono attacchi terroristici in Medio Oriente che hanno semplicemente smesso di fare notizia. Siamo cattivi e senza cuore per questo? È il solito Occidente perfido e disumanizzato? No, è una questione di percezione, ed è la risultante di una condotta profondamente umana, in effetti. Sentirsi colpiti nel cuore della propria omogeneità geografica e culturale provoca reazioni nettamente più sconvolgenti che in assenza della percezione di qualcosa di proprio. C’è qualcosa di strano? Ci credo poco: le reazioni sono proporzionali al grado di vicinanza. Se un conoscente fosse stato coinvolto nell’attacco parigino, o in quello malese (o chissà dove altro), il vostro (nostro) registro sentimentale sarebbe già tutt’altra cosa.

L’empatia forzata è, allora, ridicolmente ipocrita, tanto più per la chiarezza della sua forzatura. Il solo processo collettivo di autoflaggelarsi dicendosi che no, non dovremmo provare più coinvolgimento per un fatto piuttosto che un altro, già denatura completamente il coinvolgimento stesso, che non può che essere un processo naturale. Direi che possiamo lasciar stare l’egoismo, la corruzione morale, la fine dei valori e altre ciance simili, e cercare di ritrovare un po’ di comprensione, oltre che verso gli altri, anche verso noi stessi.

E ora partite pure con la vostra catena ipocrita del “Je suis Mali” io “Io sono Maliano” (alcuni scrivono che i cittadini del Mali si chiamano malesi). Ma prima di farlo, andate su Wikipedia, guardate geograficamente dov’è, memorizzate la bandiera di questa nazione (l’ennesima) martoriata. Che non è di serie B.

Comunicazione di servizio: per gli “esperti” di terrorismo, ecco la bandiera del Mali con la quale fra non molto potrete aggiornare l’immagine di copertina delle vostre bacheche.
Vi ho risparmiato l’affanno di una ricerca all’ultimo minuto su wikipedia.

Flag_of_Mali.svg

Fonte testo: “Empatia al comando”, Libernazione 9 Aprile 2015 (2)

 

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