Due discorsi, unica narrazione
La sera dell’ultimo dell’anno dagli schermi televisivi abbiamo ascoltato due discorsi: il Papa nell’omelia in S. Pietro e il Presidente Mattarella nel messaggio a reti unificate dal Quirinale. Le due massime autorità istituzionali che vivono nel nostro Paese dai due luoghi in assoluto più “alti” che in esso possano essere abitati. Apparentemente lontani dalla nostra vita.
Sembrava che scorressero su un unico binario, come su due rotaie parallele: la stessa priorità, il lavoro, lo stesso target di riferimento progettuale, i giovani, la stessa lucida analisi delle criticità, senza edulcorazioni buoniste, lo stesso orizzonte finale, il sogno, il sogno dei bambini terremotati per il Presidente, il sogno dei giovani «capaci di sognare e di lottare per i loro sogni» per il Papa.
Niente di più lontano dalla retorica mediatica dello sloganismo ad effetto, a cui dall’era berlusconiana fino a Renzi il popolo televisivo sembrava ormai assuefatto, ma l’agenda politica e l’orizzonte morale e civile per la società del nostro Paese: netta, essenziale, inequivocabile.
«Abbiamo vissuto insieme momenti dolorosi», e il Presidente scandisce, senza omissioni consolatorie, una sequenza di morte che iscrive il nostro Paese nel contesto mondiale della «guerra mondiale a pezzi»: da Regeni alle stragi del terrorismo, passando per il terremoto. «Insieme» è una parola chiave per Mattarella. È stata la cifra del suo percorso di accreditamento, silenzioso e penetrante, nel cuore degli Italiani quando è andato a condividerne il dolore guardando negli occhi le persone che piangevano sulla sua spalla, prendendo impegni senza proclami.
Ma dice anche i successi di quell’Italia che è capace di esprimere un «senso diffuso di comunità» come la sua forza principale, senza dimenticare che «la comunità, peraltro, va costruita, giorno per giorno, nella realtà».
La Costituzione rimane il testo identificativo di questa comunità, con il suo art. 1 ancora disatteso, che fa dire al Presidente «Il problema numero uno del Paese resta il lavoro», aggiungendo subito dopo: «Non potremo sentirci appagati finché il lavoro, con la sua giusta retribuzione, non consentirà a tutti di sentirsi pienamente cittadini».
La disoccupazione e la povertà da combattere, come «primo orizzonte del bene comune».
Mette questo al primo posto Mattarella, non le riforme costituzionali, né la governabilità, non la competitività delle aziende né il ridimensionamento dei sindacati. Le slides di Renzi sono ormai nel cestino.
E rincara la dose, con la sua prosa piana e il tono monocorde, senza scatti: «Abbiamo, tra di noi, fratture da prevenire o da ricomporre. Tra il Nord del Paese e un Sud che è in affanno. Tra città e aree interne. Tra centri e periferie. Tra occupati e disoccupati. Barriere e difficoltà dividono anche il lavoro maschile da quello femminile, penalizzando, tuttora, le donne». Donne ricordate anche per la violenza e i femminicidi, «fenomeno insopportabile che va combattuto e sradicato».
Indica le disuguaglianze, le marginalità, le insicurezze come i fattori che minacciano lo sviluppo. E da questa analisi l’indicazione di metodo politico: «Le difficoltà, le sofferenze di tante persone vanno ascoltate, e condivise. Vi sono domande sociali, vecchie e nuove, decisive per la vita di tante persone».
È al cuore del discorso: «Non ci devono essere cittadini di serie B. Sarebbe un grave errore sottovalutare le ansie diffuse nella società».
È il controcanto politico alla «cultura dello scarto», l’espressione con cui Papa Francesco stigmatizza l’antropologia della globalizzazione e che sta al centro della sua omelia di fine anno:
«Dio viene Egli stesso a rompere la catena del privilegio che genera sempre esclusione».
I giovani al centro della conclusione dei due messaggi. I giovani che, per Mattarella, se sono costretti a lasciare l’Italia per mancanza di lavoro, manifestano «una patologia, cui bisogna porre rimedio», e che, sempre, «meritano rispetto e sostegno». I giovani che «comprendono, ancor di più, il valore della pacifica integrazione europea di fronte alla tragedia dei bambini di Aleppo, alle migliaia di persone annegate nel Mediterraneo e alle tante guerre in atto nel mondo. E non accettano che l’Europa, contraddicendosi, si mostri divisa e inerte, come avviene per l’immigrazione».
Per il Papa «Non si può parlare di futuro senza contemplare questi volti giovani e assumere la responsabilità che abbiamo verso i nostri giovani; più che responsabilità, la parola giusta è debito, sì, il debito che abbiamo con loro. (…) Abbiamo condannato i nostri giovani a non avere uno spazio di reale inserimento, perché lentamente li abbiamo emarginati dalla vita pubblica obbligandoli a emigrare o a mendicare occupazioni che non esistono o che non permettono loro di proiettarsi in un domani. Abbiamo privilegiato la speculazione invece di lavori dignitosi e genuini che permettano loro di essere protagonisti attivi nella vita della nostra società».
È l’indicazione di un nuovo asse per un modello di sviluppo di respiro europeo diverso dalla speculazione sterile del presente, quello che emerge da queste due analisi parallele. È una agenda politica nuova, sintonizzata con la vita quotidiana delle persone in carne ed ossa, quel «popolo» che va ascoltato e messo al centro delle priorità di governo se davvero si vuole contrastare il populismo irrazionale che incombe.
Badando, come ha sottolineato il Presidente, a disinnescare «l’odio come strumento di lotta politica. L’odio e la violenza verbale, che intossicano la società».
Il magistero democratico di Mattarella si dispiega con pazienza quando affronta il tema del post-referendum.
«Ho ricevuto nei giorni scorsi numerose lettere, alcune di consenso, altre di critica per le mie decisioni. Ho letto con attenzione queste ultime: è sempre bene ascoltare, e rispettare, le opinioni diverse». E ribadisce l’indispensabilità di regole elettorali «chiare e adeguate», per rendere efficace l’esercizio della sovranità popolare, per rispettare veramente la volontà dei cittadini, senza concessioni demagogiche alla democrazia facile del web.
Non è un caso se alla fine del suo messaggio il Presidente rivolge un saluto augurale proprio a Papa Francesco, al senso del suo Giubileo, la misericordia dell’accoglienza, della speranza, e ai suoi appelli per la pace.
Il filo dei due messaggi manifesta il suo intreccio, la trama del suo tessuto di intelligenza politica e di coerenza morale. Rimettere questo filo nel telaio della politica italiana non è impresa da poco, significherebbe capovolgere le tendenze, le pratiche e la stessa impostazione culturale della classe dirigente in quasi tutte le sue espressioni.
Perché questo magistero democratico e morale non è storytelling scintillante e suggestivo, né di facile consenso, ma è l’indicazione di una possibilità di ricostruire pazientemente un percorso che tenga insieme governanti e governati, istituzioni e cittadini, poteri e società, facendoli agire reciprocamente, non con il senso unico della comunicazione mediatica sganciata dalla responsabilità nell’azione politica che finora ha logorato la nostra democrazia. Senza il backstage dei poteri invisibili che decidono e determinano, dietro le quinte della politica.
È la consegna per chi vuole governare questo Paese senza farlo affondare ancora. Penso sia l’unica possibile.
Un commento
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Non è story telling, non è demagogia: si tratta di riflessioni oneste su un orizzonte la cui gravità è stata fino ad ora minimizzata, ma è scelleratamente demagogico il modo un cui questa verità così palese possa finalmente apparire come reale proprio ora, ora che finalmente la saturazione dei livelli massimi di tolleranza ha portato i cittadini a dire no, a dire basta. Non cambiano le regole del gioco, ma solo le parole con cui imbonire gli spettatori. E sono solo parole, che ripetono l’ ovvio senza presentare proposte o soluzioni possibili. E poi si sa, a Natale si è tutti più buoni… È il periodo migliore – Natale come questa crisi di governo – per ammansire gli animi parlando di umanità.