L’abito non fa il monaco, ma la moda fa politica
di Giulia Rossi Oggi in politica trionfa l’informale sofisticato, anche grazie alla rappresentazione sui social network. Un dress code, un codice di abbigliamento fluido, variabile, […]
Nel 67 d.C., in un giorno di luglio, Yosef ben Matityahu inganna e tradisce i compagni con cui ha resistito ai Romani nella fortezza di Iotapata, in Galilea, e si consegna a Vespasiano, futuro imperatore. Lo fa, scrive poi in un’autobiografia famosa, La guerra giudaica, perché così ha voluto dio e perché i ribelli sostengono una causa sbagliata, per di più in modo sbagliato. A lui, diventato poco dopo cittadino di Roma con il nome di Titus Flavius Iosephus, 19 secoli più tardi Pierre Vidal-Naquet dedica un libro dal titolo anch’esso famoso, Il buon uso del tradimento.
«Per la mia famiglia, per la mia nazione, per il mio Dio, io sono un traditore». Così sostiene oggi il palestinese Mosab Hassan Yousef in The Son of Hamas, autobiografia scritta e pubblicata negli Usa. E però aggiunge che lo ha fatto per un’ottima causa, e in fondo anche per dio. Non più per il dio dell’islam, ma per quello cristiano, alla cui fede s’è convertito. Al suo libro del 2010 – e ad alcune interviste a lui e a Gonen Ben Itzhak, agente dello Shin Bet, i servizi di sicurezza israeliani –, a quel libro, dunque, si è rifatto Nadav Schirman per scrivere e girare Il figlio di Hamas (2014).
Nato nel 1978, Mosab intende seguire le orme del padre Sheikh Hassan Yousef, imam moderato e però cofondatore di Hamas. Arrestato più volte, nel 1986 accetta di collaborare con lo Shin Bet rimanendo all’interno di Hamas, come gli propone Gonen. A convincerlo, racconta, sono le violenze e la crudeltà con cui, in carcere, i dirigenti palestinesi trattano i loro uomini. La sua carriera di spia dura fino al 2006, quando si trasferisce al di là dell’Atlantico. Nel frattempo, si converte al cristianesimo, il cui dio gli appare più misericordioso di quello islamico. Se questo è stato il mio tradimento – sostiene nel libro e nel film –, a giustificarlo ci sono le vite palestinesi e israeliane salvate in vent’anni di collaborazione.
Prendiamo sul serio quello che Mosab racconta, i fatti e ancor più i giudizi sui fatti. Lo facciamo non perché corrispondano alla verità, o magari non le corrispondano. Come il libro, il film ci dà un punto di vista, una testimonianza angolata, prospettica. Se restiamo a questa testimonianza, se la prendiamo sul serio, riusciamo e vedere il parallelo con la vicenda di Flavio Giuseppe, e con il suo tradimento.
Da queste altezze, torniamo ora più in basso, di nuovo alla vicenda di Mosab, e al suo desiderio evidente di giustificare il proprio tradimento invocandone appunto il buon uso. Lo vediamo così alle prese non con Vespasiano, ma con Gonen e con la tecnica di convincimento elaborata dallo Shin Bet: un alternarsi di paura e di speranza, di minacce e di seduzione. Non ancora ventenne, Mosab se ne lascia impaniare. In parte convinto di potersene poi liberare, accetta l’accordo che gli viene offerto: la libertà in cambio della collaborazione. Questo suo primo sì ne prepara tanti altri, fino al tradimento completo e convinto. E noi sappiamo da una ricerca psicologica famosa sull’obbedienza – quella di Stanley Milgram –, che dopo la prima volta che non si è detto no, i sì diventano sempre più facili. E che sempre più difficile diventa ritrovare il rispetto di sé, e della propria autonomia morale.
Mosab è solo, dunque. Lo è come sempre chi tradisce: alla lettera, chi consegna se stesso al nemico. Lasciata la vecchia appartenenza, lasciati la sua famiglia, la sua nazione, il suo dio, per lui non ce ne sono dei nuovi. Mosab non è più quel che era, un figlio di Hamas, e non può essere “figlio” d’altro. Il suo solo punto fermo, il solo tramite con il mondo, è Gonen, il suo seduttore. Finché il loro rapporto resiste, finché lo Shin Bet lo consente, su di esso può fondare ed elaborare la propria strategia di autogiustificazione.
Ho evitato che Hamas uccidesse, rivelandone allo Shin Bet le trame. E ho anche evitato che lo Shin Bet uccidesse, dal momento che davo le mie informazioni a questa condizione. Così suona l’autogiustificazione. Che sia o non sia questa la realtà dei fatti, in ogni caso conta il giudizio che ne dà Mosab. La certezza di avere “usato bene” il tradimento è per lui la sola difesa di fronte alla propria coscienza. Non vale il merito della questione – che Hamas sia o non sia crudele e omicida, che lo Shin Bet sia o non sia al servizio del bene –, quanto il suo ruolo, la moralità del suo ruolo. A questo serve un’autobiografia. E a questo serve un film.
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