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Caro Mentana, magari lo studio è una coglionata, ma bisogna dimostrarlo
Lo scorso 24 novembre Enrico Mentana, noto giornalista italiano e attuale direttore del TG di La7, ha pubblicato un post su Facebook a commento di un articolo di giornale apparso su El País. L’articolo, firmato dallo scrittore venezuelano Moisés Naím, divulgava i risultati di uno studio scientifico pubblicato dall’American Economic Reviewsull’associazione tra il consumo dei programmi televisivi di Mediaset e la propensione a supportare idee politiche cosiddette populiste. Con lo stile tagliente che lo contraddistingue, Mentana ha aspramente criticato la fondatezza di tale associazione, definendola una “coglionata”, anche se “d’autore”. Sebbene Mentana sembrasse avercela con Naím (reo di aver scritto un articolo “cretino”, pur considerandolo uno “stimato intellettuale”) piuttosto che con gli autori dello studio (identificati con il generico appellativo di “professori italiani”), resta il fatto che abbia esplicitamente smentito, senza alcuna argomentazione o controprova a supporto, i risultati di una ricerca empirica condotta e pubblicata in base ai criteri su cui si regge l’impianto delle scienze moderne (sociali e non). Come ricercatori, questo episodio ci sembra sintomatico di un atteggiamento piuttosto discutibile che buona parte del giornalismo italiano ha spesso riservato alle notizie scientifiche, ulteriormente peggiorato dagli ormai noti meccanismi dei social media e dell’informazione online. Pertanto, vorremmo prendere il caso di Mentana a pretesto per una riflessione su quel che riteniamo essere un grave difetto nel modo in cui si fa informazione scientifica nel nostro paese.
Il caso in questione
Lo studio citato da Naím nell’articolo apparso su El País si intitola “The Political Legacy of Entertainment TV” (consultabile qui in inglese) e si occupa del rapporto tra televisioni commerciali e preferenze politiche in Italia. In termini generali, lo studio si inserisce nel contesto di una lunga serie di ricerche nazionali e internazionali tese a verificare l’esistenza e l’intensità di relazioni di causa ed effetto tra l’esposizione a determinati modelli culturali e le intenzioni di voto degli individui. Nel caso di specie, gli autori dello studio si sono chiesti se, e in che misura, i contenuti delle televisioni commerciali abbiano influenzato l’orientamento degli elettori italiani, una domanda di ricerca particolarmente rilevante in considerazione del controverso e dibattuto legame tra la diffusione delle reti Mediaset e il successo politico del loro proprietario, Silvio Berlusconi. Già nel 1996, uno studio condotto da Angelo De Lucia e pubblicato da Sociologia e Ricerca Sociale (diventato successivamente un vero e proprio “caso da manuale”) aveva provato a rispondere a questa domanda sfruttando la peculiare situazione di un comune della provincia di Caserta, San Felice a Cancello, dove solo metà della popolazione era raggiunta dal segnale televisivo delle reti Mediaset: un ostacolo montagnoso, infatti, ne impediva la ricezione alla restante metà. Durante le elezioni del 1994, in occasione di quello che si trasformò involontariamente in un piccolo esperimento sociale, l’autore dello studio osservò come la percentuale di voti raccolti dal partito di Berlusconi, Forza Italia, si fosse rivelata significativamente maggiore tra coloro i quali erano stati esposti sia ai contenuti televisivi di Mediaset che a quelli della RAI (22%) rispetto a coloro i quali erano stati esposti esclusivamente a quelli della RAI (16%).
Cosa sostiene lo studio pubblicato dall’American Economic Review
A distanza di più di vent’anni, altri studi si sono cimentati con la stessa domanda di ricerca, avvalendosi di dati e strumenti analitici sempre più dettagliati e affidabili. Lo studio pubblicato dall’American Economic Review è il più recente e, sostanzialmente, conferma e amplia i risultati di quelli precedenti, spiegando in modo approfondito perché, e in che misura, “coloro che in Italia sono cresciuti guardando i programmi di Mediaset oggi sono più vulnerabili degli altri alle idee populiste”, per usare l’ottima sintesi proposta da Mentana medesimo. Rispetto allo studio del 1996, gli autori di “The Political Legacy of Entertainment TV” prendono in considerazione il territorio dell’intera penisola, concentrandosi specificamente sui programmi d’intrattenimento e disinteressandosi di quelli d’informazione allo scopo di collocare la loro analisi sul piano dei modelli culturali piuttosto che sul piano della distorsione – vera o presunta – delle notizie. Ci riescono grazie all’impiego dei dati disponibili sulla variazione della copertura territoriale del segnale televisivo delle reti Mediaset nel periodo compreso tra il 1980 e il 1990 (durante il quale i palinsesti non includevano programmi d’informazione nazionali, introdotti solo a partire dal 1991), elaborando un sofisticato “indice di esposizione” dei comuni italiani ai programmi d’intrattenimento delle televisioni commerciali e confrontandolo con i risultati delle elezioni politiche del 1994, 1996, 2001, 2006, 2008 e 2013. Dai risultati di questo confronto, debitamente sottoposti a una serie di controlli tecnici e analitici che non abbiamo la possibilità di approfondire in questa sede (ma che in estrema sintesi mirano a escludere l’influenza di altri fattori) emerge con chiarezza un nesso persistente di causa ed effetto tra l’esposizione ai programmi d’intrattenimento trasmessi da Mediaset negli anni ottanta e i voti ottenuti dai partiti di Berlusconi (Forza Italia prima, Popolo della Libertà poi) nelle decadi successive. Si tratta di un dato estremamente interessante dal punto di vista sociologico proprio perché corrobora l’esistenza di un legame tra certi modelli culturali (veicolati da Mediaset ben prima dell’ingresso di Berlusconi nell’arena politica) e determinate idee politiche (“sopravvissute” al declino politico di Berlusconi stesso), a prescindere da qualsiasi “uso politico” del mezzo televisivo che in più occasioni è stato attribuito all’ex Presidente del Consiglio.
Come è stata verificata l’attendibilità scientifica dei risultati
Tutti e tre gli autori dello studio – Ruben Durante, Paolo Pinotti e Andrea Tesei – hanno conseguito un dottorato in economia e sono attualmente affiliati presso università e centri di ricerca di riconosciuto prestigio internazionale. Non stupisce, quindi, che padroneggino strumenti econometrici sofisticati come quelli impiegati per la realizzazione della loro ricerca, di cui abbiamo fornito soltanto una descrizione sommaria. Tuttavia, non è il pedigree accademico ad aver consentito loro di pubblicare questo studio, né a certificarne l’attendibilità (se non indirettamente): come la maggior parte delle riviste scientifiche più autorevoli, l’American Economic Review sottopone tutti gli articoli che riceve (e che superano una prima scrematura operata dalla redazione) al vaglio esterno di ricercatori e professori specificamente selezionati in base alla pertinenza della loro preparazione. Questi, in qualità di revisori, valutano gli articoli in base all’affidabilità dei dati, alla correttezza delle analisi e all’interpretazione dei risultati, dando vita a un processo di revisione paritaria (spesso condotto in forma anonima, nel tentativo di evitare condizionamenti di altra natura) noto come peer-review. Solo al termine della peer-review, che può facilmente risultare in una bocciatura e che molto frequentemente comporta una lunga iterazione di correzioni e contro-correzioni, l’articolo viene ritenuto attendibile e può essere finalmente pubblicato. Ovviamente, più una rivista è rigorosa nella selezione dei revisori, più garanzie offre sulla qualità degli articoli che pubblica. Questo è esattamente il caso dell’American Economic Review, fondata nel 1911 dall’Associazione Americana degli Economisti, che gode di un’ottima reputazione tra gli addetti ai lavori, come dimostrano anche gli indicatori bibliometrici sul suo impatto in termini di readership e citazioni.
Di cosa parliamo quando parliamo di “scienza”
A proposito di impatto, l’ultimo aspetto degli studi pubblicati da riviste come l’American Economic Review su cui vorremmo soffermarci è probabilmente il più importante. Infatti, al netto del pur sempre fondamentale processo di revisione paritaria con cui si valuta l’attendibilità di un articolo all’interno della singola rivista, è la reazione collettiva della comunità accademica a determinare, in ultima istanza, cosa è “scienza” e cosa no, in un processo ancor più essenziale di confronto tra molteplici voci indipendenti l’una dall’altra. Per esempio, il numero di volte in cui un articolo viene citato in altre riviste scientifiche, magari edite in diversi paesi, può essere inteso come un indicatore, anche se grossolano, della sua attendibilità. Da questo punto di vista, le 50 e più citazioni ottenute in meno di un anno dallo studio di Durante, Pinotti e Tesei farebbero invidia alla grande maggioranza dei loro colleghi (inclusi noi). La scienza, insomma, non è infusa nell’inchiostro digitale degli autori appena menzionati e men che meno in quello di Mentana, ma è il risultato di uno sforzo collettivo di accumulazione della conoscenza. Dal momento che questa accumulazione avviene gradualmente, per tentativi, non sempre fila tutta liscio. Esiste più di uno studio che contraddice l’esistenza del riscaldamento globale, soprattutto tra quelli maggiormente datati; ma se il 97% degli articoli scientifici di settore, ad oggi, sostiene che il pianeta si stia surriscaldando per effetto dell’attività dell’uomo (non è una percentuale a caso: è stato eseguito un calcolo in un articolo scientifico, per l’appunto, consultabile qui), è giusto – anzi, è doveroso – affermare che il riscaldamento globale sia un fatto scientifico. Quando ciò non avviene, come nel caso che abbiamo preso a pretesto per la nostra riflessione, proviamo un desolante senso di straniamento, come presumibilmente succede anche ai nostri colleghi di altri settori e discipline. Spesso TV e giornali si prefiggono di ascoltare “entrambe le campane”, ma molto raramente queste campane hanno lo stesso peso scientifico e sarebbe compito di un buon giornalista saper riconoscere la differenza per non rischiare di fuorviare il suo pubblico.
In conclusione
Naturalmente, il riferimento al consenso scientifico sulle cause del riscaldamento globale ha uno scopo meramente esplicativo. Non si tratta solo di un argomento molto diverso da quello che abbiamo trattato finora, ma anche di un tipo differente di scienza. Le scienze sociali sono notoriamente meno attendibili di quelle naturali. Il punto, tuttavia, non è stabilire qui l’attendibilità dello studio di Durante, Pinotti e Tesei: non ci interessa entrare nel merito della loro ricerca (compito che hanno già svolto dei revisori sicuramente più competenti di noi, oltre che di Mentana, sulla materia in questione). Ciò che ci interessa, piuttosto, è farne una questione di metodo, chiarendo come e perché uno studio pubblicato dall’American Economic Review debba essere trattato con molta più accortezza da un giornalista che ha l’onere e l’onore di informare un numero tanto vasto di persone. A questo scopo, abbiamo fatto una descrizione molto semplificata di come funziona la conoscenza scientifica: come ricercatori, siamo ben consapevoli che la realtà delle cose è molto diversa da come l’abbiamo rappresentata. A “fare la scienza” sono esseri umani fallibili. Esiste una branca della sociologia interamente dedita allo studio del lato umano, troppo umano, che si cela dietro alla presunta oggettività della scienza, spesso viziata non solo da semplici errori ma anche da pregiudizi e interessi di varia natura. D’altronde, anche tra di noi che firmiamo questo intervento esistono sensibilità diverse in termini di filosofia e metodologia della ricerca scientifica. Ciononostante, ci sembra che la maggior parte dei giornalisti, in Italia più che altrove, sia ben lontana dalla sofisticazione di queste sfumature e che, più semplicemente, si relazioni all’informazione scientifica in modo terribilmente superficiale, oltre che potenzialmente dannoso (basti pensare agli effetti che ne possono derivare per la formazione del consenso intorno a determinate scelte di policy, come nel già citato caso del riscaldamento globale). Pertanto, ci auguriamo che il caso che abbiamo sollevato possa incoraggiare, in futuro, un uso più consapevole dei mezzi d’informazione – a cominciare dai social media, sulla cui importanza nel mondo di oggi non siamo noi a dover dare lezioni ai giornalisti – quando si parla di materie scientifiche.
Mario Trifuoggi, Goldsmiths University of London
Sara Giunti, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Filippo Oncini, University of Manchester
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Mario Trifuoggi è nato a Napoli nel 1986. Si è laureato in sociologia alla London School of Economics and Political Science e attualmente è dottorando presso il Goldsmiths College, University of London, dove si occupa di trasformazioni urbane.
Sara Giunti, classe 1987 è assegnista di ricerca presso l’Università Milano-Bicocca dove si occupa di economia dello sviluppo e di migrazioni internazionali.
Filippo Oncini è nato a Macerata nel 1989. Ha conseguito un dottorato in sociologia all’Università di Trento e attualmente è ricercatore all’Università di Manchester, dove si occupa di disuguaglianze sociali, alimentazione e povertà urbana.
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