Macroeconomia
Lo Stato paghi gli stipendi e i costi fissi delle piccole e medie imprese
Con la globalizzazione dell’emergenza Coronavirus ed i tonfi dei mercati globali si sta scatenando una ricerca di proposte di intervento per fronteggiare la crisi sociale ed economica che ormai è chiaro ci troveremo ad affrontare.
Il Governo italiano ha fornito un primo importante segnale con decreto Cura Italia, stanziando 25 miliardi di euro per famiglie ed imprese ma è evidente che – trattandosi di misure temporanee, incomplete rispetto alla platea dei beneficiari e imprecise rispetto agli obiettivi di medio periodo – servirà ora un ulteriore sforzo economico e di immaginazione per fornire una vera risposta al Paese. Per dare un ordine di grandezza, in Germania si parla di un intervento da 550 miliardi, in Spagna di 200. Sarà necessario un raccordo europeo, oltre che risorse fresche da parte della Commissione.
La domanda principale però resta sempre una: cosa occorre fare? Come ha senso spendere queste risorse?
Per rispondere a questa domanda bisogna rispondere ad almeno due considerazioni.
Per prima cosa, dobbiamo chiederci quanto durerà questo periodo di crisi ed incertezza. Solo così potremo tararci rispetto alla portata della sfida da affrontare. Abbiamo di fronte una crisi di 3 o 4 mesi? O qualche cosa di più lungo? Gli scenari che si stanno delineando in questi giorni (si veda questo studio dell‘Imperial College di Londra) ci raccontano di un periodo di incertezza che va dai 12 ai 18 mesi. Tanto serve per fermare il virus. L’ipotesi di alternare brevi periodi di “normalità” a periodi di chiusura di scuole e minimizzazione delle relazioni sociali, in relazione al numero di persone che entrano in terapia intensiva e alla tenuta dei sistemi sanitari nazionali, non sembra così peregrina (per quanto faccia venire i brividi). Se questi scenari saranno confermati, avremo bisogno di strumenti di sostegno all’economia ben diversi da contributi una tantum.
Veniamo dunque al secondo ordine di considerazioni. Quali interessi dovremo tutelare, in uno scenario di crisi prolungata? Questa è l’aspetto più delicato della faccenda, perchè qui si giocherà tutto lo scontro politico. Le grandi imprese e gli interessi consolidati tenderanno a difendere sè stessi e chiedere un sollievo alle perdite a cui andranno probabilmente incontro (il ricorso alla cassa integrazione e la proroga o cancellazione di alcune tasse, per semplificare, vanno in questa direzione). Gli interessi delle fasce più deboli della popolazione (disoccupati, lavoratori a basso reddito ma anche precari, partite IVA e piccolissime imprese) sono i meno rappresentati. Chi sostiene che occorra proteggere innanzi tutto loro per evitare che la crisi generi ulteriori disuguaglianze, propone di estendere a tutti, in via straordinaria le protezioni sociali che lo Stato può offrire. Le proposte in questo campo vanno da una articolata ipotesi del Forum Disuguaglianze e Diversità di estensione degli strumenti esistenti (a partire da reddito di cittadinanza e Naspi, oltre alla cassa integrazione) sino all’introduzione, in via straordinaria di un reddito garantito universale (universal basic income).
All’interno di questo secondo filone di pensiero, che postula un maggiore protagonismo dello Stato, sino ad arrivare a considerarlo un datore di lavoro di ultima istanza (come discusso in questo articolo), emerge poi con forza una altra proposta che mi pare, nel breve periodo, particolarmente degna di nota.
Considerando che nei prossimi mesi il bisogno immediato a cui dovremo dare risposta non sarà solo il sostegno al reddito (contributi una tantum o ampliamento degli strumenti di protezione sociale) o la creazione di posti di lavoro aggiuntivi (schemi di lavoro garantito) ma la protezione dei posti di lavoro esistenti, soprattutto quelli legati alle piccole e medie imprese più fragili, che rischiano di saltare per via della loro scarsa solidità finanziaria), gli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman dell’Università della California (Berkeley) propongono che lo Stato si faccia garante, in ultima istanza, rispetto al pagamento degli stipendi e dei costi fissi di mantenimento (affitti, utenze e simili) per quelle imprese più fragili che rischiano di fallire non perchè poco produttive o incapaci di stare sul mercato, ma perchè non finanziariamente preparare a far fronte ad una diminuzione improvvisa della domanda dei loro prodotti e servizi (che, per alcuni settori, non possono nemmeno più essere erogati in questa fase). Ovviamente sarebbero necessari degli approfondimenti per arrivare a definire meglio i beneficiari di una misura di questo tipo (importante proteggere le imprese che hanno chances di sopravvivenza, poco utile sussidiare chi poi finirà quasi sicuramente fuori mercato), ma mi pare che una ipotesi di questo tipo possa andare a braccetto con una estensione degli strumenti di assicurazione sociale per proteggere quella fascia di lavoratori ed imprenditori più esposti alla crisi, garantendo una continuità operativa ad una platea di piccole e medie imprese che si rivelano strategiche per la tenuta della nostra economia.
Come scrivono i due economisti americani, chi si trova a fronteggiare l’incertezza determinata al coronavirus non si chiede soltanto quanto reddito perderà a causa di questa crisi (dando per scontato che ci sarà una probabile flessione di entrate) ma si domanda se il suo posto di lavoro e la sua impresa esisteranno ancora, quando torneremo alla normalità. Ed è a questa esigenza che dobbiamo prepararci a fornire una risposta. Solo uno Stato consapevole e presente può farlo.
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