Il segretario del PD, Enrico Letta, nei giorni scorsi, ha proposto, a soglia di franchigia invariata, un incremento – nell’ottica della maggiore progressività – del numero e dei livelli delle aliquote da applicare sulle eredità (20% aliquota marginale più alta in corrispondenza di un valore superiore ai 5 milioni di euro), con l’obiettivo di destinarne gli introiti ad una dote giovani (target: 13 – 17 anni, importo una tantum: 10 mila euro, platea stimata: 280 mila ragazzi).
Tale intervento, seppur motivato dal confronto con le aliquote di altri Paesi “comparable” e con il livello delle entrate relative derivanti dall’imposta di successione, sconta certamente il limite di non essere stato inserito all’interno di una dichiarazione di riforma complessiva del sistema fiscale, che deve mantenere la sua organicità, la sua relativa neutralità rispetto alle scelte di produzione e consumo nonché garantire equità orizzontale e verticale.
Appare altresì discutibile anche la destinazione individuata delle entrate incrementali relative, che risulta certamente una soluzione maggiormente tangibile, ma non incide sulle infrastrutture immateriali e sul rafforzamento dell’universalità dei servizi, strumenti principe per favorire la mobilità sociale.
La proposta del segretario del PD, al di là degli aspetti puntuali, presenta, tuttavia, il grande pregio di riportare nel dibattito politico pubblico, progressivamente svuotato da argomentazioni sostanziali e controverse dal punto di vista ideologico (approccio tecnocratico al bene pubblico, come spiega Michael Sandel ne la Tirannia del Merito), i conflitti distributivi e allocativi della ricchezza e delle risorse.
Di fianco a questo aspetto, si legge, in filigrana, anche il tentativo – per dirla con le parole di un articolo del Prof. Nicola Lacetera pubblicato sul quotidiano Domani di sabato 22 maggio – “(…) di dotarsi della creatività e del coraggio di andare oltre le proposte politiche del Novecento ed essere più ricettivi verso le idee che provengono sia dagli studi accademici (ndr: quelli redatti dagli economisti che Keynes chiamerebbe “uccelli rari”) sia dalla pratica politica recente (…)”.
Il suggerimento dell’adozione di un’elevata imposta di successione, in realtà, oltre ad essere stato ripreso dagli economisti Piketty e Milanovic (rispettivamente ne il Capitale nel XXI secolo e Capitalism alone), trova riscontro teorico in importanti studiosi liberali precedenti: J. S. Mill, J. Rawls, J.M. Keynes e L. Einaudi.
J. S. Mill, in modo più esteso rispetto a Bentham, sostiene che le fortune non guadagnate debbano, per il bene pubblico, essere sottoposte a limiti, in quanto “ottenute senza nessuno sforzo”, ossia in virtù di “un privilegio dovuto all’esistenza della legge e della società, al quale lo stato aveva il diritto di apporre condizioni”; proponendo pertanto una tassazione progressiva delle eredità superiori ad un certo ammontare.
J. Rawls, nel suo Una Teoria della Giustizia, nella ricostruzione della tassonomia delle varie uguaglianze, introduce l’imposta sulle eredità come “primo (e più basso) complemento all’uguaglianza davanti alla legge”. Nel più basso stato di uguaglianza di Rawls, “non esistono vincoli legali tali per cui le persone non possono raggiungere la stessa posizione nella vita”. Questo livello di uguaglianza soddisfa il primo principio di giustizia di Rawls, ovvero che “tutti hanno la stessa libertà politica, a prescindere dalla classe economica o sociale di appartenenza”. Questo è il sistema della libertà naturale di Rawls, o “capitalismo meritocratico”.
J.M. Keynes e Luigi Einaudi, entrambi economisti di stampo liberale (il primo era solito affermare che nella lotta di classe si sarebbe schierato dalla parte dell’educated bourgeoisie e il secondo divergeva dall’economista inglese e lo definiva un bolscevico), seppur con toni diversi, convergono sull’introduzione di un’imposta di successione, legandola sia al perseguimento dell’equità nella distribuzione dei redditi che alla necessità di sostenere i capitali pubblici. Nello specifico, Einaudi sostiene che l’imposta di successione sia sostenibile laddove “il provento non sia consumato, ma prenda la forma di capitali pubblici” e – aggiunge – “(…) con l’obiettivo che i giovani partano da situazioni non troppo disuguali”, mentre invece Keynes – che tratta il tema nel XXIV capitolo della Teoria Generale – ritiene che: “la confusione esistente in materia nella mente del pubblico è bene illustrata dall’opinione assai comune che le imposte sulle successioni provochino una riduzione della ricchezza capitale del Paese. Se si suppone che lo Stato destini il gettito di queste imposte alle sue uscite ordinarie, in modo da ridurre o evitare corrispondentemente le imposte sui redditi e sul consumo, è vero, naturalmente, che una politica fiscale di alte imposte di successione ha l’effetto di accrescere la propensione a consumare della collettività”.
Ricostruito il quadro teorico principale di riferimento, appare dirimente chiedersi perché strumenti utili per mitigare le distorsioni dell’economia neoclassica, tornino ad essere il sottostante del dibattito politico – economico e di alcune ricette di policy. Per rispondere al quesito è fondamentale osservare la tendenza dei dati relativi: alla distribuzione della ricchezza, all’andamento dei redditi medi, dei livelli delle aliquote fiscali, del rapporto fra ricchezza e reddito, della mobilità sociale etc., a partire dal 1980 ad oggi.
Nel libro “Una Buona Economia per Tempi Difficili”, gli autori A. V. Banerjee ed Esther Duflo (premi Nobel per l’economia nel 2019) ripercorrono, servendosi anche del prezioso lavoro di Thomas Piketty ed Emmanuel Saez sulla ricostruzione della serie storica delle disuguaglianze, alcune scelte deliberate, negli USA e nel Regno Unito, con i governi rispettivamente Reagan e Thatcher, che hanno segnato il punto di inversione di tendenza rispetto ai “trenta gloriosi” precedenti.
Nel tentativo di uscire dalla stagnazione della fine degli anni 70, individuate le cause di questa nei sindacati troppo forti, nel salario minimo e nelle tasse troppo alte nonché nella regolazione soverchiante, si decise che fosse necessario ridurre le aliquote per i più ricchi (negli USA, sotto Reagan e poi Bush padre, l’aliquota massima scese dal 70% a meno del 30%, mentre in UK calò dall’83% al 40%), iniettando così, nelle società americana e britannica, un eccesso di disuguaglianza, considerata un fattore di dinamismo nonché il prezzo al quale sarebbero arrivati i benefici della crescita. L’effetto atteso dal drastico taglio delle tasse ai più ricchi era legato al meccanismo teorico che va sotto il nome di “trickle-down economy” o “teoria del cavallo e del passerotto” (scriveva il Prof. Galbraith: “se dai da mangiare al cavallo abbastanza avena, una parte si spargerà per strada a beneficio dei passerotti”), e simboleggia l’inizio di una drammatica trasformazione del contratto sociale negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
La serie storica fino al 2017 ci restituisce, negli USA e in modo simile anche in UK, l’istantanea di un Paese in cui la distribuzione del reddito è sempre più concentrata (l’1 per cento più ricco, nel 1979, guadagnava l’8% del reddito, nel 2017 il 24% ca.) e, all’aumento della disuguaglianza di reddito si accompagna un incremento di quella di ricchezza (omoplutia). Si registra altresì, nel 2014, un salario medio reale che è il medesimo del 1979 e finanche più basso per i lavoratori meno istruiti.
Ciò che, in particolare negli USA, ha spinto anche la classe media e comunque i non ricchi ad accettare chiare politiche di vantaggio a favore di pochi, come scrive Sandel, è stata la fede nella possibilità di una mobilità sociale verso l’alto, cuore del sogno americano. Tuttavia, negli ultimi decenni, della possibilità di ascesa indipendentemente dalle condizioni di partenze è rimasta solo la retorica. Sempre Sandel, nel suo “la Tirannia del Merito”, riporta due dati autoesplicativi: “degli americani che nascono nell’ultimo quintile della scala reddituale, solo uno su venti salirà nel primo quintile e solo il quattro per cento degli studenti della Ivy League proviene dall’ultimo quintile”; chiosa l’autore: “la meritocrazia moderna si è rafforzata come un’aristocrazia ereditaria”.
Questo fenomeno (maggiore trasmissione del reddito e della ricchezza attraverso le generazioni), rappresentato come una delle principali forme di disuguaglianza, è ben analizzato da Milanovic in Capitalism alone, con il supporto di alcuni studi (il principale è di Miles Corak del 2013) che dimostrano una correlazione positiva (denominata anche “curva del Grande Gatsby”) fra un’elevata disuguaglianza in un qualsiasi anno e una forte correlazione fra i redditi dei genitori e dei figli (cioè, la bassa mobilità di reddito). Si evidenzia che, non solo tra Paesi, ma anche nel tempo, le maggiori disuguaglianze di reddito e la minore mobilità intergenerazionale (relativa e assoluta) tendono ad andare di pari passo.
A valle di queste evidenze, si potrebbe essere indotti a pensare che si tratti di tendenze che abbiano riguardato soltanto l’anglosfera, ma ci viene incontro Laura Pennacchi, nel suo “Democrazia Economica: dalla pandemia a un nuovo umanesimo”, con il richiamo all’analisi di Wolfgang Streeck che descrive il neoliberismo come un fenomeno di “convergenza” delle economie sviluppate verso il capitalismo anglosassone, impostosi come un modello unico, “il che ha portato i paralleli e le intersezioni reciproche tra i Paesi capitalistici” a prevalere “sulle differenze istituzionali ed economiche”, al punto che perfino per Paesi come la Svezia e gli Stati Uniti si può ritenere “che la dinamica soggiacente sia la stessa”.
La convergenza indotta dal neoliberismo è riscontrabile anche in Italia negli esiti del paper degli economisti Morelli, Acciari e Alvaredo, dal quale si evince come il nostro Paese sia stato investito da una vera e propria inversione delle fortune a partire dalla metà degli anni 90 e fino al 2016: “lo 0,1 per cento più ricco ha visto raddoppiare la sua ricchezza netta media reale (da 7,6 milioni di euro a 15,8 milioni di euro ai prezzi del 2016), facendo raddoppiare la sua quota dal 5,5 al 9,3 per cento. Al contrario, il 50 per cento più povero controllava l’11,7 per cento della ricchezza totale nel 1995, e il 3,5 nel 2016, ciò corrisponde a un calo dell’80 per cento della sua ricchezza netta media (da 27 mila a 7 mila euro a prezzi 2016). Nel 1995, la quota del 40 per cento medio era molto simile a quella del 10 per cento superiore, ma è invece diminuita nel tempo di quasi 5 punti percentuali. La quota spettante al top 0,01 per cento (i 5 mila adulti più ricchi) è quasi triplicata, passando dall’1,8 al 5 per cento”.
Per svolgere una lettura compiuta è necessario soffermarsi sull’analisi tendenziale, dalla quale si può desumere che: “in confronto con altri paesi, il livello della ricchezza osservato in Italia sembra essere oggi in linea con altri paesi europei come Germania, Francia e Spagna. Tuttavia, la sua evoluzione temporale è più vicina a quella riscontrata negli Stati Uniti”.
Siamo di fronte a quella che Daron Acemoglu chiamerebbe “la strettoia” (con la dovuta modifica delle parti oggetto della sua analisi: politica e capitalismo anziché potere della politica e potere della società), davanti alla quale credo che il compianto Prof. Giorgio Lunghini (come nel suo Conflitto, Crisi, Incertezza) si sarebbe chiesto, attingendo da Lewis Carrol: “Vuoi dirmi che strada dovrei prendere per uscire di qui?” chiede Alice al gatto acquattato sull’albero. “Dipende molto da dove vuoi andare è la risposta”.
La pandemia ha accelerato le tendenze sopra rappresentate e costituisce, secondo Tooze, la prima crisi dell’Antropocene che ci spinge all’inevitabilità di tornare ad agire il conflitto, con la consapevolezza che non è più ammesso – almeno nel campo dei progressisti – attardarsi nella celebrazione del saggio in cui Milton Friedman sosteneva che il capitalismo non ha alcuna responsabilità sociale, ma occorre recuperare una critica del capitalismo non solo come modello economico, ma in quanto ordine sociale istituzionalizzato e accompagnarlo ad una riforma. Le domande guida sono quelle che scrive Laura Pennacchi in “Democrazia Economica: dalla pandemia a un nuovo umanesimo”, ossia: “quali sono le politiche veramente adeguate a rilanciare le economie globali e nazionali? Quali sono gli equivalenti del New Deal, degli accordi di Bretton Woods, del welfare state, idonei a provocare uno slittamento del potere dalla finanza alla produzione, a trasferire il focus dagli indici azionari all’espansione dell’economia reale, ad accrescere il benessere sociale?”.
Ci si augura che un futuro testo equivalente a “La Grande Trasformazione” di Polanyi, fra qualche decennio, possa raccontare che negli anni ‘20 del 2000 si scelse – per dirla con Esther Duflo – una nuova bussola come guida della buona economia e dell’agire politico e non poté che essere la dignità umana.
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