Tra le tante innovazioni linguistiche della sconcertante narrativa macroeconomica italiana diffusa da testate un tempo credibili, da telegiornali ridotti ad amplificatori dei social networks e da quella specie di perversione mediatica che risponde al nome di “talk show”, dopo la ridicola accusa rivolta ad alcuni paesi europei di essere “paradisi fiscali” – come se fosse una colpa e non un evidente merito, evitare di massacrare di tasse cittadini e aziende in cambio di nulla – l’ultima trovata del circo mediatico consiste nella paradossale critica rivolta a quelli stati, parlamenti e leader politici europei che stanno tentando di limitare, se non di evitare, di finanziare – a fondo perduto – i paesi che peggio si sono distinti per incompetenza gestionale nel lungo periodo: si è inventata un’accusa inverosimile, quella di essere, niente-di-meno-che, “frugali”, come se la frugalità fosse una colpa in sé e non una virtù.
Vale quindi la pena di provare a spendere qualche parola, che non potrà essere contenuta in un solo articolo, per ricostruire correttamente la situazione, provare a dare qualche cenno di realtà e verità economica, e provare ad evitare di essere, non si sa se più ridicoli o più sprovveduti, nel seguire il mainstream dell’informazione italiana sull’ argomento.
Partiamo dall’elenco e dal commento di alcuni fondamentali dati macroeconomici, aggiornati al 31.12.2019, approfittando della periodica, semplicissima e corretta analisi che la BCE Eurosistema, e quindi Banca d’Italia, pubblica almeno due volte l’anno denominata “Statistiche di finanza pubblica nei paesi dell’Unione Europea”, ultima release del 22.06.2020, e dei dati ufficiali di Eurostat che definiscono le dimensioni del PIL (GDP “at market prices”), raggiunto nel 2019 negli stessi paesi.
Si vedano in proposito: www.bancaditalia.it/pubblicazioni/finanza.pubblica.ue/index.html. www.ec.europe.eu/eurostat/data/database.
Cominciamo dai dati dei quattro più grandi paesi europei nel 2019 in sintesi:
In GERMANIA: nel 2019, già anno di crisi industriale, soprattutto nel fondamentale comparto automotive, il PIL dei tedeschi cresce solo del 1,5% (peggiore dato degli ultimi 10 anni) a 3.435 miliardi di euro, mentre la gestione dello stato tedesco chiude il 2019 con un “avanzo” di 13,7 miliardi di euro (cioè non in deficit, del 1,4% sul PIL) che “riduce” il Debito Pubblico tedesco da 2.062 a 2.054 miliardi di euro, pari al 59,8% del PIL, perfettamente allineato ai criteri, forse antiquati, ma ancora validi stabiliti con il Trattato di Maastricht; ciò significa che nel 2019 lo sforzo dei cittadini e delle aziende tedesche porta a produrre un incremento del PIL di circa 50 miliardi di euro e la buona gestione dello stato tedesco ne approfitta per ridurre il debito pubblico di -7,8 miliardi di euro. Tale fotografia va approfondita e meglio apprezzata per il fatto che la Germania ha colto per tempo i segnali di una crisi economica in arrivo, con una manovra espansiva di tipo keynesiano, nel 2019 incrementa la spesa pubblica di ben 107 miliardi di euro, mentre le entrate crescono solo di 63,6 miliardi di euro, ma grazie alla solidità dell’impianto del bilancio pubblico tedesco dalla riunificazione, riduce addirittura il debito e accetta l’incremento di quasi 1 punto della Pressione Fiscale complessiva dal 40,7% al 41,6% del PIL, spalmato equamente su Imposte Dirette, Indirette e Contributi Previdenziali. Sarà interessante vedere come riclassificando questi dati in termini di gestione economica e mettendoli a confronto con quelle delle altre maggiori economie europee, emerga la maggiore competenza e prudenza gestionale tedesca. Per il momento non si può che applaudire: “chapeau!”. Coerentemente con una impostazione di lungo periodo, l’unico appunto che si può fare alla gestione tedesca è di aver incrementato in proporzione maggiormente la spesa corrente, rispetto alla spesa per investimenti che comunque aumentano di 8 miliardi di euro dal 2,3 al 2,5% del PIL.
In FRANCIA: nel 2019, il PIL dei francesi cresce del 3,1 % (miglior dato dal 2011) a 2.425 miliardi di euro, mentre la gestione dello stato francese chiude il 2019 con un disavanzo di ben 72,7 miliardi di euro (in deficit del -3,0% sul PIL) che incrementa il Debito Pubblico francese da 2.315 a 2.379 miliardi di euro, pari al 98,1% del PIL, pessimo trend in corso da almeno un decennio, disallineato rispetto ai criteri stabiliti con il Trattato di Maastricht; ciò significa che nel 2019 lo sforzo dei cittadini e delle aziende francesi porta a produrre un incremento del PIL di circa 72 miliardi di euro e la gestione dello stato francese ne approfitta per incrementare il debito pubblico di 64,1 miliardi di euro, confermando la forte e immutabile statalizzazione della Francia e la dipendenza del suo PIL dalla spesa pubblica. Tale fotografia va approfondita notando il fatto che la Francia non ha colto per tempo i segnali di una crisi economica in arrivo, ma ha semplicemente perpetuato l’andazzo di una costante crescita della spesa pubblica corrente che incrementa di 30,9 euro, in crescita ma in linea con gli anni precedenti, mentre le entrate crescono solo di 17 miliardi di euro, scavando un altro buco di bilancio e incrementando la velocità di accumulazione del debito pubblico (+2,8% su anno precedente) grazie anche ad una non piccola riduzione della pressione fiscale (dal 48,5 al 47,4% del PIL) che resta comunque la più alta d’Europa, se non del mondo. Sarà interessante notare come, riclassificando questi dati in termini di gestione economica, e mettendoli a confronto con quelle delle altre maggiori economia europee, emerga la costante erosione della passata solidità del bilancio pubblico francese, il costante incremento del debito, e il fatto, in parte inspiegabile, che lo stato francese continui a godere della fiducia dei mercati – in termini di costi per interessi – che si accontentano di una bassa remunerazione per un rischio paese ormai del tutto evidente. Peraltro i francesi mantengono una caratteristica positiva per quanto riguarda gli investimenti pubblici, sempre robusti che crescono di oltre 12 miliardi di euro, passando dal 3,4 al 3,8% del PIL.
In SPAGNA: nel 2019, anche il PIL degli spagnoli cresce del 3,1 % (in flessione rispetto agli anni precedenti, più brillanti) a 1.245 miliardi di euro, mentre la gestione dello stato spagnolo chiude il 2019 con un disavanzo di 34,8 miliardi di euro (in deficit del -2,8% sul PIL) che incrementa il Debito Pubblico spagnolo da 1.173 a 1.189 miliardi di euro, pari al 95,5% del PIL, buon trend in costante miglioramento dal 2012/2013 quando lo stato spagnolo decise di compromettere la sua eccellente precedente situazione di bilancio per salvare tutto il comparto bancario spagnolo – e insieme i risparmi e gli immobili dei cittadini spagnoli – che si era lasciato intrappolare nella bolla immobiliare che esplose nel 2008/09 grazie alla truffa dei sub-primes americani; è un dato ancora disallineato rispetto ai criteri stabiliti con il Trattato di Maastricht ma in netto miglioramento; ciò significa che nel 2019 lo sforzo dei cittadini e delle aziende spagnole porta a produrre un incremento del PIL di circa 37 miliardi di euro e la tradizionale buona gestione dello stato spagnolo ricambia lo sforzo nel limitare l’incremento del debito pubblico di solo 16 miliardi di euro, confermando il percorso di risanamento dello stato spagnolo, iniziato ricorrendo alla protezione dell’Unione Europea e della Bce, sottoscrivendo un preciso percorso di rientro con precise condizionalità (come hanno fatto anche Irlanda, Portogallo e Grecia), che stanno rispettando. Hanno fatto quindi ciò che terrorizza talmente i politicanti italiani da portarli a rifiutare anche il MES sanitario, per quanto incondizionato. L’istantanea spagnola va approfondita notando il fatto che anche la Spagna ha colto per tempo i segnali di una crisi economica in arrivo, ha incrementato notevolmente la spesa pubblica rispetto alla media dei 10 anni precedenti, in crescita di oltre 22,7 miliardi di euro, mentre le entrate crescono solo di 17 miliardi di euro, decidendo quindi per un ulteriore incremento del debito pubblico, ma solo del +1,4% su anno precedente) grazie al mantenimento di una ragionevole pressione fiscale (dal 35,3 al 35,2% del PIL). Sarà interessante notare come, riclassificando questi dati in termini di gestione economica, e mettendoli a confronto con quelle delle altre maggiori economia europee, emerga il costante miglioramento della solidità del bilancio pubblico spagnolo, la buona gestione del debito, ed il fatto evidente che lo stato spagnolo continui a godere giustamente di una maggiore fiducia dei mercati rispetto all’Italia: in termini di costi per interessi infatti i mercati internazionali si accontentano di una minor remunerazione per un rischio paese accettabile che permette alla Spagna di pagare un costo di oltre 1,1% di PIL inferiore rispetto all’Italia, senza che i governanti italiani pro-tempore, si chiedano il perché dal 1991, cioè da 28 anni consecutivi, il debito spagnolo possa remunerare gli investitori molto meno del debito italiano, in assoluto ed in percentuale. Si deve infine notare, negativamente, che il contenimento della spesa pubblica spagnola, danneggia particolarmente la spesa per investimenti che resta intorno al 2% del PIL.
E veniamo all’ineffabile ITALIA, la pecora nera del gruppo, gestita da una banda di incompetenti alle prime armi, che peraltro non riescono più di tanto a peggiorare il disastro precedentemente già compiuto da populisti di destra e sinistra che li hanno preceduti negli anni recenti e meno recenti; nel 2019, anno di già evidente crisi industriale, soprattutto nel fondamentale comparto automotive, di cui gli italiani sono ormai soprattutto subfornitori dei tedeschi, per tutto ciò che non rientra nella galassia FCA e che per fortuna è moltissimo, il PIL degli italiani cresce, apparentemente, del 1,7% (in linea con il precedente pessimo 2018, dove già si era affacciato il primo governo Conte), fermandosi apparentemente a 1.787 miliardi di euro, mentre la gestione dello stato italiano chiude il 2019 con un disavanzo di 28,6 miliardi di euro (in deficit, del 1,6% sul PIL) con un miglioramento di quasi 10 miliardi rispetto al primo esercizio targato Conte 1, che incrementa il Debito Pubblico italiano da 2.322 a 2.409 miliardi di euro, pari al 134,8% del PIL, (rispetto al 132,2% del 2018) completamente disallineato, di oltre il doppio, rispetto ai criteri antiquati, ma sempre operativi, stabiliti con il Trattato di Maastricht; ciò significa che, nel 2019, lo sforzo dei cittadini e delle aziende italiane porta a produrre un incremento del PIL di circa 30,6 miliardi di euro e viene ricambiato con la consueta pessima gestione dello stato che ne approfitta per incrementare il debito pubblico di altri 87 miliardi di euro, praticamente il triplo dell’incremento annuale del PIL. Tale fotografia va approfondita e meglio apprezzata per il fatto che l’Italia, che non solo non ha colto per tempo i segnali di una crisi economica in arrivo, ma grazie all’inconsapevolezza di populisti allo sbaraglio come Movimento 5 stelle e Lega di salvini, ha messo a punto un paio di misure, note come “reddito di cittadinanza” e “quota100” che hanno ulteriormente sfondato i già disastrati, da oltre 40 anni, conti italiani, azzerandone la eventuale residua credibilità. Non si è trattato quindi di una preventiva manovra anticiclica espansiva di tipo keynesiano, ma soltanto del consueto sfondamento di un irraggiungibile equilibrio di bilancio, aborrito dai furbi italiani, che incrementa la spesa pubblica di soli 16,7 miliardi di euro, mentre le entrate crescono di ben 26,7 miliardi di euro, e grazie alla fragilità ed alla inconsistenza, prima di tutto culturale, della politica economica pubblica italiana, incrementa il debito pubblico di ben 87 miliardi mentre contemporaneamente porta la pressione fiscale dal 42,1 al 42,4% del PIL, derivante da incrementi di entrate per Imposte Dirette, Indirette e Contributi Previdenziali, come sempre mai sufficienti a coprire la sproporzionata ed infondata spesa previdenziale e assistenziale italiana, responsabile della genesi di oltre il 90% del debito pubblico cumulato italiano. Sarà interessante vedere come riclassificando questi dati in termini di gestione economica e mettendoli a confronto con quelle delle altre maggiori economia europee, emerga l’assoluta mancanza di prudenza gestionale italica. Va peraltro notato che gli Investimenti Pubblici, aumentano di meno di 5 miliardi, restando di poco sopra al 2% del PIL impastoiati dalle leggi assurde che gli italiani si sono date per impedirli e soprattutto dalla più prosaica mancanza di denaro tutto impegnato in stipendi pubblici, spese della pubblica amministrazione e pensioni. Infine non si può non ricordare che il PIL italiano è da sempre infestato da una quota di “economia non osservabile” che l’Istat riesce però magicamente a quantificare esattamente e che negli ultimi anni ammonta al 12% del PIL: dato di cui ovviamente i nostri partners diffidano e che è però estremamente utile per mostrare una foto apparentemente sostenibile del sistema Italia – cui le agenzie di rating non credono più – ma ha soprattutto l’effetto perverso di trasformare un popolo tartassato dalle tasse in un popolo di evasori. (Senza il PIL sommerso, la Pressione Fiscale ufficiale sarebbe misurabile in quell’oltre 50% che da sempre chi paga le tasse in Italia constata come minimo annualmente).
Quanto fin qui per riepilogare i principali dati dei bilanci pubblici 2019 delle 4 maggiori economie europee nel 2019, avendo nel frattempo gli inglesi fatto il favore a tutti gli europeisti convinti di seguire un gruppo di folli che ha portato un paese di sprovveduti a convincersi che la brexit fosse vantaggiosa ed opportuna… il destino cinico e baro ha immediatamente provveduto con una piccola epidemia di nome Covid-19, che sta facendo giustizia, in tutti i sensi, delle scemenze dei brexiters e del superiority complex inglese, anche se con loro se ne è andato dall’Unione Europea un residuo spirito liberale di cui sentiremo la mancanza.
Covid-19, che come “a livella” di eduardiana memoria, ha colpito tutti e quattro i maggiori paesi europei nelle stesse proporzioni: al 05.07.20 si contano 250.545 casi in Spagna, 241.611 in Italia, 197.558 in Germania e 166.960 casi in Francia, dopo una dubbia revisione di dati che fino alla settimana prima denunciavano oltre 205.000 casi, anche se il “chiagn’e’fotti” italiano amplificato dai media, rilancia costantemente l’idea che l’Italia sia la vittima principale dell’epidemia, quando in realtà è solo il 13°paese per casi cumulati nel mondo, mentre si è distinto per un tasso di letalità tra i peggiori e più alti del mondo, mostrando tutta l’inefficienza di un sistema sanitario costoso e irrimediabilmente mal gestito a livello regionale, tra l’altro nemmeno capace di proteggere adeguatamente i propri dipendenti migliori, medici e infermieri, ampiamente sacrificati, sul terreno della disorganizzazione incompetente.
Solo per inciso: se il Regno Unito fosse ancora nell’Unione sarebbero il paese europeo con il più grande numero di contagi, il più alto numero di morti, il più basso numero di guariti ed una assoluta incapacità e confusione nel definire il numero dei positivi e contagiosi: la stessa tradizione cultural/sanitaria di tipo anglosassone sta facendo danni inenarrabili in Usa, Svezia, Olanda.
Ma veniamo agli sciaguratamente mitizzati “paesi frugali” dipinti come nemici dell’Italia da commentatori insensati, solo perché vogliono capire bene come e perché andrebbero spesi i soldi dei loro contribuenti in un momento di evidente e crescente difficoltà economica, incrementando l’indebitamento complessivo e cominciando a indebitare l’Europa direttamente, dopo averne superindebitato molti dei principali paesi.
I paesi colpevoli di “frugalità” che in alcuni casi commettono anche il crimine imperdonabile di avere una gestione fiscale sopportabile e non punitiva, sarebbero per la stampa italiana, l’Olanda, la Svezia, l’Austria, la Danimarca e la Finlandia, che si esporrebbero per coprire il vero mandante… ovviamente i tedeschi. Limitiamoci a loro, anche se a parte viene catalogata l’Irlanda, che è accusata di essere un paradiso fiscale (ma chi l’ha detto?), ma che se ne guarda bene dall’intralciare e scombinare i piani degli italiani a caccia di soldi, come per altro fa anche il grande e minaccioso Lussemburgo.
Proviamo a fare mente locale: Olanda, Svezia, Austria, Danimarca e Finlandia intanto rappresentano circa 48 milioni di abitanti, quindi più della Spagna e rappresentano un PIL cumulato di 2.232 miliardi di euro, quindi una dimensione economica simile a quella della Francia e decisamente maggiore di Spagna e Italia, infine, come non bastasse, hanno ovviamente complessivamente 5 voti, così come l’Italia ne ha solo 1.
L’Olanda, con un PIL pari a 810 miliardi di euro ha un Debito Pubblico pari a 393,7 miliardi, cioè al 48,6% del PIL, nel 2019 ha chiuso con un avanzo di bilancio pari all’1,7% del PIL, la sua Pressione Fiscale è al 39,3% del PIL; la Svezia, con un PIL pari a 474 miliardi di euro ha un Debito Pubblico di 171,1 miliardi, cioè al 36,1% del PIL, nel 2019 ha chiuso con un avanzo di bilancio pari allo 0,5% del PIL, la sua Pressione Fiscale è al 43,5% del PIL; l’Austria, con un PIL pari a 398 miliardi di euro ha un Debito Pubblico di 280,2 miliardi, cioè al 70,4% del PIL, nel 2019 ha chiuso con un avanzo di bilancio pari allo 0,7% del PIL, la sua Pressione Fiscale è al 42,9% del PIL; la Danimarca, con un PIL pari a 310 miliardi di euro ha un Debito Pubblico di 102,9 miliardi, cioè al 33,2% del PIL, nel 2019 ha chiuso con un avanzo di bilancio pari al 3,7% del PIL, la sua Pressione Fiscale è al 47,6% del PIL; la Finlandia, con un PIL pari a 240 miliardi di euro ha un Debito Pubblico di 142,6 miliardi, cioè al 42,1% del PIL, nel 2019 ha chiuso con un disavanzo di bilancio pari all’1,1% del PIL, la sua Pressione Fiscale è al 42,1% del PIL.
Nulla di ciò che viene strombazzato dai media italiani risponde a verità: questi 5 paesi cumulati producono grossomodo un PIL del 25% maggiore di quello italiano, ma hanno un Debito Pubblico cumulato pari a molto meno della metà del debito Pubblico italiano (il 45,2%) , hanno una pressione fiscale in linea con la media dell’area euro, che è 41,5% e sono semplicemente ben gestiti, con una burocrazia pubblica ridotta ed efficiente, con una spesa previdenziale equilibrata rispetto alle entrate del sistema previdenziale, senza sperperi, e follie redistributive che non vogliono permettersi, pur applicando politiche di inclusione sociale e di assistenza ai giovani e disoccupati che in Italia non sono rintracciabili.
Per tacer del fatto che se fossero paradisi fiscali, a fronte dell’altissimo ed efficiente livello dei servizi pubblici che offrono ai loro concittadini dovrebbero avere un debito pubblico fuori controllo, invece è perfettamente sostenibile e corretto; infatti rappresentano destinazioni privilegiate per i giovani italiani più o meno colti e preparati che in Italia non trovano nulla da fare, se non sottopagati, e quindi appena possono se ne vanno ad apprezzare la frugalità e i paradisi fiscali di Olanda, Svezia, Danimarca, Austria e Finlandia… (risate del pubblico).
Che dire allora della favola dei paesi frugali e dei paradisi fiscali? Niente, se non che è una colossale minchiata.
Meglio stendere un pietoso velo sull’informazione italiana, che abitualmente partecipa al saccheggio della spesa pubblica con provvedimenti di favore per un’editoria ampiamente assistita e meglio preoccuparsi di come provare a ridare un futuro liberale, liberista, libertario ad un paese, l’Italia, che si è perso in quarant’anni di populismo cattolico-solidarista, pseudosocialista corrotto, ciellino, xenofobo, italoforzuto, pseudofederalista ed infine è piombato in un populismo propriamente detto, straccione ed incompetente.
Dai dati riportati nella tabellina emerge che i paesi “frugali”, i pericolosissimi estremisti di Austria, Olanda, Danimarca Svezia, Finlandia, cioè la culla del welfare state di tipo scandinavo, che è stato per decenni il miraggio e l’obbiettivo di tutte le sinistre socialdemocratiche europee, non sono diventati fautori di un terrificante neo-ordoliberismo estremista, accusa, peraltro infondata, da sempre riservata al paese, la Germania, che ha praticato l’unica politica keynesiana effettivamente anticiclica negli ultimi 15 anni, potendoselo permettere per l’oculata tradizione di gestione macroeconomica e per non aver dissipato tutto il proprio attivo e tutta la propria capacita di indebitamento nella gestione di una spesa corrente inconsulta, improduttiva e scandalosa come ha fatto da sempre l’Italia, e da almeno 20 anni la Francia.
Dopo aver criticato, in modo assolutamente immotivato, l’Europa matrigna, ora, grazie all’epidemia di covid-19, gli italiani si trovano di fronte ad una potenziale spesa comunitaria senza precedenti organizzata, intorno ad un colossale complesso di misure che prevedono:
– 1.350 miliardi di euro di acquisto di titoli pubblici da parte della BCE, con la continuazione di un quantitative easing senza precedenti;
– un piano di finanziamenti a sostegno di appropriati, effettivi e soprattutto realizzati investimenti approntato dalla BEI per 250 miliardi;
– un intervento di emergenza della Commissione per 100 miliardi per finanziare il SURE ed il MES sanitario;
– la bozza del piano EU Next Generation della Von der Leyen, promosso e sostenuto dalla Merkel con grande ed intelligente generosità e da Macron con evidente interesse, per un potenziale di 750 miliardi di euro comprensivo di 500 miliardi a fondo perduto e 250 miliardi di prestiti.
Di fronte a questo imponente intervento europeo, forse addirittura eccessivo, i politicanti italiani pensano e sperano di appropriarsene per circa il 25%: per quale motivo? per fare cosa? con quali garanzie?
Stanno pensando a come spenderlo con un ridicolo e evanescente numero di commissioni, esperti e stati generali, ma nessuno predispone un credibile piano di razionalizzazione e rientro che permetta di illuminarci su quale siano gli obbiettivi di finanza pubblica per un riequilibrio non più rimandabile. Un piano generale di ristrutturazione della spesa pubblica e della struttura dello stato che deve portare l’Italia a rientrare nel novero dei paesi normali e non superindebitati, non in grado di reagire, non si dice ad una imprevedibile epidemia, ma nemmeno ad un terremoto o ad una normale crisi ciclica, far ripartire lo sviluppo industriale, dare un possibile futuro al ridottissimo numero di giovani che quarant’anni di “malagestio” hanno sempre più assottigliato, strutturando una crisi demografica di cui si cominceranno a vedere gli effetti nei prossimi 10 anni.
La prima cosa da fare in un paese normale sarebbe un recovery plan che indichi a 5 – 10 anni gli obbiettivi di riduzione di spesa e di indebitamento e gli incrementi di investimenti sostenibili con condizionalità e obbiettivi autoimposti per dignità e ricerca di efficienza/efficacia, tali da riportare l’Italia all’onore del mondo: sembra ovviamente una sfida impari per una classe politica come quella che gli italiani hanno sciaguratamente selezionato negli ultimi anni e che sembrano pronti al massimo per un nuovo assalto alla diligenza, al pari dei loro predecessori.
Ma di questo parleremo nei prossimi articoli, dove non trascureremo di ricordare alcuni punti fondamentali degli squilibri macroeconomici italiani e delle loro cause,in parole semplici e comprensibili da chiunque.
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In copertina, il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel con il primo ministro olandese Mark Rutte (foto tratta da https://newsroom.consilium.europa.eu)
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