Letteratura
Elogio della blasfemia, simbolo scalfito dell’autentica libertà di espressione
«Jeans Jesus»: «Non avrai altri jeans all’infuori di me»
Era il 1973. E mentre gli italiani scioccati e penitenti recitavano compulsivamente il Mea Culpa di fronte a questo slogan pubblicitario, sgranando rosari e cospargendosi il capo di cenere, il 17 maggio di quell’anno Pier Paolo Pasolini scriveva sul Corriere della Sera:
“Si veda la reazione dell’«Osservatore romano» a questo slogan: con il suo italianuccio antiquato, spiritualistico e un po’ fatuo, l’articolista dell’«Osservatore» intona un treno, non certo biblico, per fare del vittimismo da povero, indifeso innocente. È lo stesso tono con cui sono redatte, per esempio, le lamentazioni contro la dilagante immoralità della letteratura o del cinema. Ma in tal caso quel tono piagnucoloso e perbenistico nasconde la volontà minacciosa del potere: mentre l’articolista, infatti, facendo l’agnello, si lamenta nel suo ben compitato italiano, alle sue spalle il potere lavora per sopprimere, cancellare, schiacciare i reprobi che di quel patimento son causa. I magistrati e i poliziotti sono all’erta; l’apparato statale si mette subito diligentemente al servizio dello spirito. Alla geremiade dell’«Osservatore» seguono i procedimenti legali del potere: il letterato o cineasta blasfemo è subito colpito e messo a tacere.”
Pasolini continuava poi il suo articolo descrivendo il “patto col diavolo” tra Chiesa Romana e Stato Borghese post-fascista, un matrimonio forzato che di fatto, secondo la sua analisi come sempre lucida e profetica, avrebbe condannato la Chiesa alla marginalizzazione e alla sua “dissoluzione naturale”; ad avere la meglio, invece, sarebbe stata negli anni a venire la nuova società dei consumi all’interno della quale lo spirito religioso e umanista del passato sarebbe stato costretto a lasciare spazio ad una laicità cinica e pragmatica, figlia bastarda di una nuova rivoluzione industriale.
Ma non tutto era perso e Pasolini alla fine del suo articolo chiosava così:
“L’interesse di questo slogan non è solo negativo, non rappresenta solo il modo nuovo in cui la Chiesa viene ridimensionata brutalmente a ciò che essa realmente ormai rappresenta (…) lo slogan di questi jeans non si limita a comunicarne la necessità del consumo, ma si presenta addirittura come la nemesi — sia pur incosciente — che punisce la Chiesa per il suo patto col diavolo. ”
E se lo slogan dei ‘Jeans Jesus’ risultava scandaloso per sintesi e sfrontatezza nell’Italia degli anni ’70, al giorno d’oggi non possiamo che constatare quanto quello stesso motto risuoni antiquato e mediocre nella sua innocenza e semplicità: questo perché il brusio continuo provocato dagli altisonanti sberleffi e rumorose pernacchie a cui la Chiesa di Roma si è ormai abituata, e così i suoi fedeli, rende le nostre orecchie sorde alla blasfemia, al linguaggio sacrilego e alle immagini profanatrici. Simpson, Charlie Hebdo o Il Caso Spotlight, giusto per tirare fuori un paio di nomi tra i più noti, rappresentano solo l’aspetto commerciale e mercificato di una processo più ampio e radicale di laicizzazione e secolarizzazione della società Occidentale. Storicamente, fu già l’ermeneutica e l’esegesi biblica di fine ‘700, di matrice razionalista ed illuministica che, a partire dai testi di Baruch Spinoza e Richard Simon, gettò le basi teologiche e filosofiche che ci permettono oggi di passare con disinvoltura dalla nietzschiana de-sacralizzazione di Cristo all’irriverente dissacrazione mass-mediatica del Papa e delle gerarchie ecclesiastiche contemporanea.
Sotto questa luce, la blasfemia si rivela come la figlia più irrispettosa, maleducata e triviale di quella che i Greci chiamavano ‘empietà’, ovvero trascuratezza o avversità nei confronti di ciò che è sacro, e della sua compagna ‘eresia’, altra deviazione pericolosa dall’ortodossia e insubordinazione nei confronti dell’autorità.
Empietà ed eresia sono concetti che a noi suonano fortunatamente come lontani e primitivi. Tuttavia è solo attraverso la loro lenta, estenuante e, alle volte, sanguinosa messa in discussione da parte di un piccolo e circoscritto gruppo di coraggiosi dissidenti che filosofia, arti e scienze si sono potuti emancipare dall’oppressivo condizionamento delle deità e dei loro predicatori in terra nel corso dei secoli.
Se dovessimo narrare la storia di questi diavoli come fosse una raccolta di novelle à la Boccaccio, potremmo dire che tutto ebbe inizio con un decreto d’epoca periclea: fu Socrate, padre della filosofia occidentale condannato nel 399 a.C. a morte per empietà e ‘corruzione dei giovani’, che ispirò Platone nell’elaborazione del suo primo dialogo (L’Apologia di Socrate) – primo di un corpus che ne conterrà 24 – all’interno del quale il filosofo greco porrà i fondamenti dialettici alla gnoseologia occidentale; potremmo poi proseguire con Galileo Galileo, uno dei padri della scienza moderna, condannato nel 1633 per eresia per aver sostenuto la teoria eliocentrica sul moto dei corpi celesti di Copernico nel suo ‘Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo’; ma questa storia si spinge al di là dei confini occidentali e viene incarnata da figure come Shibli Shumayyil a cavallo tra ‘800 e ‘900, condannato a morte dal sultano Abdelhamid (condanna mai eseguita) per aver introdotto e diffuso per primo le teorie evoluzionistiche darwiniane in Egitto o da Muhammad Ahmad, altro intellettuale egiziano, accusato nel 1947 di ‘ateismo ‘ a causa della sua lettura allegorica del Corano, contenuta nella sua tesi di laurea.
Nelle costituzioni occidentali, di empietà ed eresia non vi è più traccia. Questi termini hanno perso il loro senso anche nel linguaggio quotidiano.
Tuttavia, quel che resiste e che sempre più difficilmente viene sradicato è quel sotto-prodotto logoro e abusato che chiamiamo, semplificando: blasfemia. Questa sì resistente al tempo, alle variazioni climatiche e indifferente alle latitudini e longitudini.
La blasfemia è un termine che in Occidente ricorda solo il turpiloquio volgare e la bestemmia ma che, in verità, se ci spingessimo a guardare al di là dei nostri santi locali ci accorgeremmo rappresentare ancora uno dei simboli più attuali, anche se scalfito, della debole ed incerta libertà di critica ed espressione nel resto del mondo.
Per cominciare a capire cosa si cela dietro questa parola, ormai privata di qualsiasi virtù e dignità, bisognerebbe rileggere i coraggiosi Versi Satanici, di Salman Rushdie, messi all’ indice nel 1989 dai microfoni di Radio Teheran dall’ayatollah Komheini: una fatwā contro lo scrittore indiano naturalizzato britannico e i suoi traduttori ed editori, destinata a fare eco in tutto il mondo.
Nel 1991 – 18 anni dopo i «Jeans Jesus» di cui sopra, a maturità raggiunta diremo – un iraniano tra i venticinque e trent’anni anch’egli “vestito di jeans” – come riporta meticolosamente Repubblica in suo articolo di cronaca- si recava nell’abitazione privata del drammaturgo italiano Ettore Capriolo in Via Curtatone a Milano, con l’intento di ottenere l’indirizzo di Rushdie. Lo colpiva ripetutamente al torace, al collo, al volto, alle labbra e agli avambracci con un’arma da taglio. Il movente? Capriolo si era macchiato del reato di tradurre dall’inglese all’italiano questo romanzo. Qualche giorno dopo, il 12 Luglio a Tokio in Giappone, stessa sorte per il traduttore giapponese del medesimo testo, Hitoshi Igarashi che, al contrario dell’italiano Capriolo, perse la vita. Due anni dopo nel 1993, l’editore norvegese William Nygaard veniva ferito a colpi d’arma da fuoco nell’ottobre di quell’anno per aver pubblicato lo stesso libro blasfemo.
In secondo luogo, per smuovere dalla propria indifferenza ed ipocrisia multiculturalista gli occidentali che misurano i confini della libertà di espressione con il corto metro della cautela e moderazione del linguaggio nei confronti delle sensibilità religiose altrui, bisognerebbe ricordare la storia di Waleed Al-Husseini, saggista, scrittore e blogger palestinese catturato ed incarcerato dalle autorità palestinesi nel 2010 per i suoi post sui social considerati blasfemi. Ne ha scritto un’autobiografia nel 2015 intitolata Blasfemo! Le prigioni di Allah (2015) recentemente tradotta in italiano e pubblicata da Nessun Dogma, nel settembre di quest’anno. O invitare alla lettura di The Atheist Muslim (2016) dello scrittore pakistano naturalizzato canadese Ali A. Rizvi. Alternativamente, c’è Eretica. Cambiare l’Islam si può (2015) della scrittrice somala naturalizzata olandese Ayaan Hirsi Ali. E ancora Sfida laica all’Islam. La religione contro la vita di Hamid Zanaz, giornalista e scrittore algerino o Fascismo Islamico di Hamed Abdel-Samad, un’illuminata critica all’islamismo dilagante in Occidente.
Perché a chi credeva che la luce venisse da Occidente, bisognerà oggi ricordare che il coraggio autentico, laico e radicale è interpretato anche e soprattutto da queste voci che parlano la lingua di Maometto.
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