Letteratura
Scrivere di frodo un Taccuino D’ombre
Una premessa è doverosa: per chi, come me, vive la vicinanza al lago di Como e alle sue storie, Davide è qualcosa di intoccabile, una voce e una penna a cui tutti noi ci sentiamo un po’ debitori e molto riconoscenti per aver saputo intrappolare, senza morsa, luoghi, ricordi, odori e personaggi che il susseguirsi dei tempi e dei linguaggi avrebbero altrimenti fatto inesorabilmente sbiadire.
Nelle sue canzoni e nei suoi racconti Davide dona e si dona, anteponendo il vivere di una comunità al proprio ego, che si fa funzionale alle narrazioni scritte e cantate, dimostrando un amore, come tutti gli amori veri, folle e tremendo, a un connubio di spazi e dimensioni cronologiche, vite ed esperienze che dalla loro piccola unicità diventano rappresentazioni iconografiche potentissime ed eterne. Ritrovare le proprie radici, insieme a una visione ancestrale del mondo non scelta ma toccata in sorte, sedimenta un senso di appartenenza e di connotazione identitaria insostituibile e introvabile altrove; e chi di questa realtà non fa parte, non solo attraverso la produzione di Davide può conoscerla nella sua dimensione più genuina e autentica ma, fuoriuscendo dalle logiche territoriali, può scoprire una voce autorale unica e rara in grado di restituire, con le parole, vere e proprie visioni e viste di scenari interiori ed esteriori.
Artista prima ancora che cantastorie, ma cantastorie senz’altro, Davide Van De Sfroos (è lui il Davide di cui si sta parlando) affida a La Nave di Teseo il suo Taccuino D’ombre, ultima produzione di prose poetiche in cui, una polaroid testuale dietro l’altra, si viene accompagnati in un viaggio sospeso tra reale e onirico, tra dentro e fuori, tra rimpianto e godimento, nostalgia e gioia: un percorso, cioè, nel vivere di chi prova a vivere davvero e si lascia vivere.
I taccuini, si sa, non hanno un unico protagonista poiché ogni annotazione ha il suo; e così accade anche per Taccuino d’ombre dove i tanti personaggi raccontati non prendono mai carne del tutto, restando avvolti in un dire che li fa essere più e meglio di quello che sono o potrebbero essere. E poi c’è la natura, talmente prossima da divenire costitutiva, motore dell’andare e dell’osservare, sempre incantevole pur nella sua semplicità e ripetibilità, sempre inafferrabile pur nella rincorsa che ogni volta smuove per poterla, in qualche modo, catturare o comprendere. Più di tutto, però, c’è il pensiero a guidare le pagine, l’interpretazione dell’accadimento anche statico, anche ordinario; come se, alla fine, l’unico potere di cui disponessimo davvero fosse quello della vista, in qualità di osservazione fatta con l’anima, e della parola, seme ovunque disperdibile e comunque fecondo.
Ci sono momenti in cui sembriamo stracci su questo mondo.
Scorriamo lenti, passiamo stanchi, lasciamo il segno della polvere che abbiamo spostato e dello sporco che abbiamo perduto.
Da ragazzo guardavo il ramo di fico. Sapeva sanguinare bianco e appiccicarsi alle dita, aveva foglie difficili da accarezzare e frutti che si aprivano come ferite esclamate.
Era misterioso e intenso il ramo di fico… e io gli chiedevo in quante stagioni avesse dondolato e quanti venti aveva supplicato.
Lui mi rispose un giorno, che la falce del vento è stata un po’ dappertutto ed è onesta quando colpisce, senza fare distinzioni e allo stesso modo ti regala le cose che ha raccolto in giro.
[dal racconto “Banditi della tramontana”]
Van De Sfroos, presente al suo tempo eppure volutamente staccato da esso, compie nel suo Taccuino d’ombre anche una riflessione sociologica ironica e pungente ma mai nichilista, perché nessun passato meraviglioso deve necessariamente impedire una nuova gioia, perché una solitudine non è per forza dolore, perché la tecnologia non per obbligo toglie la speranza, ancora respirabile sotto il tiglio.
Si fanno foto a tutto e tutto viene condiviso, il globo mediatico diventa la banca dati di ogni pietanza affrontata, con dibattito al seguito e duello sotto il sole tra carnivori e vegani, si criticano gli eccessi che poi vengono nutriti, qualcuno vuole un link, qualcuno vuole un selfie, ma nell’oltretomba del nostalgico spunta una Polaroid.
Giornali e mille inserti, ricerca dei deserti, bisogno di staccare per poi correre a riappiccicarsi, desiderio di riposo ma senza stare fermi, voglia di silenzio ma con l’auricolare, necessità di evasione ma nostalgia della prigione.
Faccio girare un’elica che stringo tra le dita, qualcosa un po’ più basso mi gira anche di più, perché ho perso l’incoscienza e l’ingenuità, l’odore dei Diabolik alla bancarella dei fumetti usati è ancora quello, ma non lo sento più.
Eppure c’è speranza qui sotto il grande tiglio, tra il tavolo di sasso e il bicchiere senza fretta, io lo so che ognuno cerca qualcosa da lasciare al suo posto, dove tutto è diventato un take away.
So che abbiamo una luna nuova da giocare, una frase che nessuno ha ancora scritto e che non metteremo mai sui social e neanche sul tatuaggio, perché dovrà essere la scopa da strega che useremo di nascosto per attraversare questa estate… che sarà magica per forza.
E ci si rivede a settembre…
[Dal racconto “E ci si rivede a settembre…”]
Taccuino d’ombre è l’ultima, in ordine cronologico, delle molte pennellate cantate e scritte che Davide Van Sfroos regala a chi è capace di seguirlo, nel suo andirivieni ondivago e intenso, col suo sguardo attento di rapace e con la sua fragile forza di vetro di bottiglia, da cui guardare il mondo, con cui, comunque, brindare alla vita.
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