Letteratura

Un marito di Michele Vaccari. Una non intervista

23 Ottobre 2018

Prima, è il boato. L’aria è polvere, il marmo è carbone, la terra è magma, sono tutti sordi. Le sirene cantano dal fondo della Piazza, i sopravvissuti si vedono morti, sono nascosti, sono fuori controllo.

M. Vaccari, Un marito, Rizzoli, 2018.

Arrivo al locale che son passate le undici. Ho sulla groppa due dei miei tre lavori e tredici ore sui tacchi, che comunque non porto mai e ci sarà un perché. Mi sono persa buona parte della presentazione del libro di un’amica e tutta quanta la presentazione pomeridiana del libro Un marito Michele Vaccari, di cui questa, fra l’altro, dovrebbe essere la recensione, ma non la è. Amici e mariti, nel mezzo libri e librerie. La mia amica sta mettendo su dischi e io arranco verso il bancone, più alla ricerca di un pretesto per sedermi che di un drink. Mi ferma Antonello, il libraio dei Diari (per me il libraio del borgo), che mi richiama all’ordine per non essere andata alla presentazione pomeridiana.

Ci dovevo venire, anzi ci volevo venire, mannaggia me, che poi è arrivato un incarico di lavoro e, francamente, visti i tempi, di far la bambocciona choosy che il sabato sera non lavora per andare a una presentazione letteraria – così radical chic poi come scusa! – non mi sembrava proprio il caso.

Beh era il caso, mi risponde, anche perché si tratta del più grande scrittore italiano di oggi.

Avevo il sospetto di essermi persa qualcosa di speciale, ma mannaggia me Antonello, proprio il più grande scrittore italiano di oggi no, eddai. Almeno facciamo che mi son persa un onesto scrittore, un bravo narratore, una penna d’inventiva, di prosa felice – come suol dire la critica – ma il più grande no, che ci rimango male.

Annuisce punitivo, ma subito si fa magnanimo. Se voglio lo posso intervistare dato che è lì.

Lì dove?

Lì al tavolo.

Mi fermo dal mio trottolare e mi rendo conto che con Antonello non c’è solo Alice ma altri ospiti, di cui uno, in effetti, potrebbe essere proprio Vaccari. La solita figura meschina. Io che non cerco mai foto o biografie degli autori che leggo, che forse forse riconoscerei Hemingway se si presentasse con tutti i crismi, la barba d’ordinanza, nella sua versione âgée, chissà, forse. Sorrido, anche perché in quei casi non si può fare molto altro, ripetendomi mentalmente di non dire cazzate nonostante la stanchezza.

Se fosse possibile ecco… Se non disturbo… Se ha tempo…

Vaccari ha tempo e raggiungiamo un tavolino e, soprattutto, una sedia. Una parte dei miei neuroni si rianima, una volta liberata dal peso della spasmodica ricerca di un conforto per i piedi, e riesco a fare la prima domanda. Non senza aver confessato che il libro non l’ho ancora terminato e che, quindi, qualsiasi impressione potrebbe essere confutata dal finale. Come se questa ovvietà andasse specificata.

Ad ogni modo parto e chiedo perché. Si parte quasi sempre da un perché e il mio perché spesso, quando ho modo di parlare con un autore, è legato al motivo che lo ha spinto a raccontare una storia, proprio quella storia.

Michele, siamo passati al tu, è diretto: non voleva raccontare una storia convenzionale. Lui alla letteratura rassicurante, quella che offre certezze, che respira un po’ la stessa aria dei suoi lettori ripetendo loro, come in una ninna nanna, sempre le stesse parole, invitandoli a frequentare gli stessi mondi che già conoscono, ecco quella non gli interessa. Voleva dare fastidio, creare una frattura che permettesse al lettore di uscire dal suo spazio protetto. Nella nostra conversazione entrano subito i protagonisti, Patrizia e Ferdinando, marito e moglie, il quartiere di Marassi, la loro rosticceria, una routine sempre uguale nella quale trovano una prigionia forse non desiderata, ma a cui ambire per il futuro perché rasserenante. Fino a lì ci sono arrivata, dichiaro, e non nascondo un certo straniamento nell’essermi trovata appiccicate addosso, nel giro di poche pagine, una serie di sensazioni discordanti: tenerezza per questi due signori, così simili a tante coppie di storici commercianti della mia infanzia, rabbia per la loro quieta rassegnazione, un fondo di pietà per la loro incapacità di vedere tutti i limiti del loro quotidiano, la vergogna – arrivata a ruota – per il solo pensiero di aver giudicato, con fare spocchiosamente superiore, la presunta (o vera?) felicità dell’ordinario. Un ordinario al quale, spesso, mi sembra di dover ambire e che, per me, appare molto più lontano della vita spericolata di vascorossiana memoria. Michele continua a parlare dei suoi personaggi, che sono proprio “quella cosa lì”, il ritratto di un certo immaginario di quiete italiana, quella delle tradizioni immutabili, di casa e bottega, dei piatti fatti come una volta e delle insegne sempre uguali.

La scritta rimane accesa, è una cosa che hanno deciso da poco, prima credevano incidesse molto sui costi, e invece poi hanno fatto qualche calcolo e hanno scoperto di poterselo permettere. Questa stupidaggine, ovvero farsi pubblicità oltre i confini del loro impero, è invece qualcosa di confortante, necessario, per molti che ormai vivono da altre parti, che magari tornano nel quartiere la sera, per trovare un padre ormai anziano, e, nel rivedere le muraglie abusive, si chiedano se esista ancora la rosticceria e mentre se lo domandano, d’improvviso, vedano l’irradiazione della scritta sulla carreggiata. Alcuni, addirittura, compaiono al mattino, sono emozionati e glielo dicono: “Abbiamo visto la luce l’altra sera. Che salto nel tempo. Non siete cambiati niente, pazzesco. Li fate ancora i ripieni? E trovate sempre la maggiorana fresca? Fuori dal mondo, grandi”.

Tutto uguale per evitare il cambiamento, vissuto come un pericolo. Non c’è nevrosi in questa coppia però, non siamo di fronte a un matrimonio disfunzionale: Ferdinando e Patrizia sono, agli occhi del mondo, la coppia. Forse noiosa, ma solida. Se non arrivasse un evento esterno, non a caso estraneo ai luoghi consueti, a turbare questa dinamica, il romanzo, a questo punto racconto, avrebbe potuto chiudersi. Oppure descrivere il degenerare di questa ossessione contro il mutamento. Michele cita Rosa e Olindo e io, che non so come mai ne ho parlato ventiquattr’ore prima con alcuni amici, penso che, nei suoi primi capitoli, Un marito potrebbe essere tranquillamente la descrizione di una di quelle famiglie che “Erano così cortesi” e “Salutavano sempre” dopo la strage. Qui la strage interiore salva da quella esterna, ma non risparmia da una carneficina emotiva. Ferdinando personaggio e persona, resta intrappolato nel ruolo che si è costruito con la moglie. Soltanto che ora è solo.

Lo sapevano bene, le signore del palazzo, come se a comportarsi così fosse stato uno dei loro figli: Ferdinando, che era il primo che cercava sempre di sviare, di fare quello che sapeva andare avanti, che trovava nel lavoro quotidiano e nelle abitudini la catarsi impossibile, lasciando alla sera, alla solitudine di pensieri e di fantasmi, la possibilità di spiegare qualcosa di così irrazionale da meritare il silenzio dei luoghi incontaminati, con quello stesso silenzio che aveva travalicato le ore della sera fino a raggiungere la casa della merce in cui viveva durante il giorno, aveva raccontato ai nuovi avventori ciò che alle sue amate pettegole non avrebbe mai avuto il coraggio di confessare, l’ultimo approdo della propria solitudine, l’abbandono di sé.

Non ho finito il libro e ci asteniamo quindi da commentare il finale (che comunque non si commenta mai nelle recensioni, quindi poco male). Torniamo alla prima domanda, al perché.

Michele incomincia a parlare di editoria, della funzione che il romanzo dovrebbe tornare ad avere, dell’influenza sociale che può esercitare la cultura, quando si assume la responsabilità di poter non piacere. Vorrei fare una campagna per il dispiacere della lettura, mi confessa. Trovare uno spazio letterario che non si vergogni di essere alto – perché non si dovrebbe indugiare su una descrizione se si hanno le capacità per farlo? – e stilisticamente elevato. Scrivere romanzi, leggere romanzi, dovrebbe essere un impegno. L’editoria dovrebbe farsi carico di questo percorso, a costo di cambiare e in modo profondo. Certo si perderebbe l’elemento di rassicurazione e, di fondo, questo inibisce il cambiamento: tutti cercano conforto del loro modo di vivere, di lavorare, di fare impresa.

Siamo finiti a parlare di politica e io, da quasipolitica, mi rendo conto che è uno dei discorsi più politicamente rilevanti fatti negli ultimi tempi. Quantomeno perché si parla di cambiamento e non di restauro. Nel mondo della scrittura, mi racconta, ci sono infiniti personalismi. E qui, punto per me, andiamo pari sulle cose risapute, che si decide di esplicitare durante una conversazione. Solo che poi c’è la fregatura, di cui mi ero già accorta: Vaccari non è un personaggio. O quantomeno, non posso giudicarlo dall’incontro di una sera, non si è trasformato nei suoi personaggi o non li ha fagocitati con la sua persona. Mi fa notare che non ha messo la foto in quarta di copertina. Non me ne sarei accorta ugualmente considerata la mia insana abitudine d’ingnorare completamente le facce degli scrittori, ma la cosa ora mi colpisce. Non capita spesso. Ne conosco altri, di tipi così, son quasi tutti irregolari. Scrivono bene o male, ma con una voce. Anche questa è una scelta di rottura: indipendenza dalle logiche di “resa”, indipendenza dal personaggio. Parliamo della libreria di legno alle nostre spalle, di come sia uno di quegli oggetti che segnano un gusto, indipendentemente dalla moda del momento. Piace o non piace. L’editoria dovrebbe ragionare di più in questi termini: scovare il valore, parlare ai lettori, che – sottolinea Michele – non sono “lettori forti” ma solo lettori. Gli altri sono turisti della lettura. Mi piace la definizione, la condivido, anche se, gli confesso, sono una strenua sostenitrice della non colpevolezza della letteratura di consumo, del suo valore, anzi, anche dal punto di vista culturale. Ci troviamo. In fondo non tutti nella vita saranno viaggiatori, ma anche un villaggio turistico può avere senso: dipende da cosa si cerca, da cosa si offre.

Abbiamo parlato del libro, di società, politica e cultura e molto poco dell’autore. Non so ad esempio se ha delle manie, cosa fa prima d’incominciare a scrivere, se si prepara lungamente con appunti e schemi o se scrive di getto e poi corregge, se è del Genoa o della Samp. Non chiedo mai, perché spesso capita che siano gli autori a parlare di sé. In molti casi con aneddoti interessati, talvolta con dettagli biografici il cui contributo sarebbe pari al sapere che prima di scrivere questa non intervista/non recensione ho mangiato la pastina in brodo. Ci salutiamo, prometto che farò una recensione usando pezzi d’intervista. Mi sa che il professore del liceo mi direbbe che sono andata fuoritema.

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