Letteratura

Rileggere “La parola ebreo” di Rosetta Loy

17 Ottobre 2016

Ci sono libri che alle volte vale la pena riprendere in mano. La parola ebreo di Rosetta Loy è uno di questi. Scritto nel 1997 ruota intorno ai fatti del 16 ottobre 1943, anniversario di cui ieri molti hanno detto e scritto. Quel libro ha un valore perché scava nella zona grigia. Per questo ha valore riprenderlo in mano.

La vicenda al centro del libro di Rosetta Loy può essere brevemente riassunta così: nel condominio di una casa di Roma vive una famiglia benestante (quella dell’ autrice), cattolica praticante, popolata da “tate” tedesche irreprensibili e la cui vita scorre tranquilla tra amici di famiglia, vacanze in montagna e visite di vecchie signore ebree. Nello stesso condominio vive una famiglia di ebrei romani (i Levi), socialmente benestanti. Siamo a Roma alla metà degli anni ‘30. Un mondo che sembra scorrere su binari tranquilli in cui la parola “ebreo” evoca strane pratiche (una circoncisione intravista da una finestra è spiegata all’ autrice bambina con parole imprecise, ma questo non determina incubi o sogni stravaganti), ma che in ogni caso non suscita grande curiosità.

Questi ebrei della porta accanto non hanno niente che appaia strano o lontano, fanno parte del paesaggio, ci sono, giocano a palla come gli altri bambini, corrono nei prati, suonano il pianoforte. Sono evocati a lezione di catechismo come “deicidi”, celebrano una pasqua “che non è pasqua”, ma sono percepiti come innocui.

Poi improvvisamente cambia qualcosa. L’Italia delle “leggi razziali” sovverte valori e modifica lo statuto di cittadinanza. La dimensione del privato che fino a quel momento aveva segnato una standard di vita e per certi aspetti era il segno di una propensione alla riservatezza cambia radicalmente segno: il privato diviene ora mondo autoreferenziale, impermeabile all’ esterno, insensibile o quanto meno non reagente alle “nuove ingiustizie”. L’ebreo della porta accanto lentamente si perde nel tempo e si eclissa. Il suo destino sarà quello di unirsi a molti altri su un vagone che partirà da Roma il 18 ottobre 1943 con destinazione Auschwitz. Da lì non tornerà.

Di lui Rosetta Loy perde le tracce. Passeranno cinquant’ anni perché improvvisamente riaffiori attraverso una fila di domande inquiete: perché non ci fu reazione? Perché quello che era un conoscente, improvvisamente diviene un “estraneo”? Perché pochi fecero qualcosa? Perché l’ ebreo della porta accanto rimase solo? Perché non ci fu verso di lui un gesto, una parola, un segno, insomma un qualcosa che indicasse una qualche forma di solidarietà, di soccorso, di presenza?

Il libro di Rosetta Loy può essere valutato da molti punti di vista.  E’ la storia della propria infanzia in una Roma tra fascismo trionfante e Resistenza. Oppure uno nuovo scavo all’ interno di un cosmo familiare e in cui “pubblico” e “privato” si rincorrono e si sovrappongono.

La scrittura apparentemente lieve, ma in realtà profonda, e tecnicamente perfetta, è continuamente sospesa tra una distanza temporale dell’occhio che guarda e una narrazione scritta al presente indicativo, una funzione  del tempo verbale che rinvia ad un tempo lontano ma intimamente non risolto, che ancora “brucia” e che costituisce il suo tratto intrigante.

La parola ebreo non è un romanzo e non è un saggio anche se alterna parti di circostanziata e documentata ricostruzione storica con le vicende di un cosmo famigliare narrate con una perfetta cifra letteraria.

Appartiene prima di tutto al genere letterario della confessione: un genere che nasce dal “gap” tra sapere che cosa sia la verità e la giustizia e la consapevolezza che il proprio “io” ha mancato in qualche punto. Della confessione ha gli elementi del resoconto dettagliato, ma anche la consapevolezza che comunque il racconto non redime ma approfondisce la ferita. Ma soprattutto rappresenta la rottura con uno squarcio improvviso di un muro di gomma.

Di solito la memoria non solo è la condizione in cui i vinti della storia, le vittime, trovano una loro dimensione, ma anche la “tecnica” con cui propongono la centralità della propria vicenda, chiedendo spazi di rispetto, di considerazione. In breve: il viatico per un loro rientro nella storia.

La confessione di Rosetta Loy non riguarda i vinti, riguarda coloro che hanno visto i vinti perdere, che hanno scelto di stare ai margini della storia convinti che tra schierarsi ed astenersi il secondo corno dell’ alternativa fosse quello più consono. Che non hanno da rivendicare un passato, che apparentemente si astengono dalla storia, ma che in realtà contribuiscono pesantemente a determinarla e spesso, nella “lunga durata”, sono i veri vincitori nella storia. In una parola “gli eterni” perché indifferenti. Per la prima volta dal mondo della “zona grigia” si alza una voce e affronta con gravità la propria condizione, forse anche il privilegio derivato dalla propria scelta.

Lo scavo nel privato è la dimensione di un rimosso. Un rimosso su cui un silenzio di mezzo secolo ha a lungo pesato e che ora si rivolge, probabilmente non ai figli, ma ai nipoti, a due generazioni dopo, non in nome di una battaglia contro l’ oblìo, ma perché improvvisamente l’ infanzia non è più la sfera dell’ innocenza, perché raccontare la propria infanzia agli attuali infanti implica ripercorrerla, trovare la felicità vissuta, ma anche non nascondere o non rimuovere le “zone bianche”.

Nelle prime pagine deI quaderni di Malte Laurids Brigge (Adelphi), Rilke scrive “Ho ventotto anni: ho scritto uno studio sul Carpaccio e dei versi. Oh, ma con i versi si fa ben poco quando li si scrive troppo presto. (..) I versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si hanno già presto), sono esperienze. (..). Si devono avere ricordi (..). E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi ancora non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso”.

A Rosetta Loy in un giorno di primavera degli anni ’90 deve essere accaduto questo. In un attimo improvvisamente un segno ha riaperto una domanda a lungo sopita e ha dato luogo a una procedura di anamnesi (qualcosa di simile accade ai traumatizzati infantili che rimuovono il loro trauma, salvo rievocarlo improvvisamente e rivederlo lucidamente a decenni di distanza).

“Brucia dirlo – scrive Rosetta Loy nelle pagine conclusive di questa piccolo grande libro civile – ma un orlo nero segna i nostri giorni incolpevoli, senza memoria e senza storia. E se i Levi non si sono difesi e non sono riusciti a immaginare l’ inconcepibile, è anche perché si consideravano al pari degli altri romani, partecipi di quella garanzia che faceva di Roma una «città aperta». Per troppo tempo avevano condiviso con noi giornate tristi e felici, paure, viltà, speranze. Erano saliti e scesi per le medesime scale, avevano bevuto lo stesso tè e girato il cucchiaino nella tazza parlando la medesima lingua: in senso lessicale, ma anche nel senso dei sentimenti. Troppo tempo, per sentirsi altri. (..) Nessuno ha trovato il coraggio per impedire agli uomini di Danneker di far rimbombare i loro stivali su per le scale di via Flaminia 21 e irrompere nelle loro stanze. Nessuno ha fermato i camion che si allontanavano con uomini e donne, bambini svegliati orrendamente dal sonno. Pio XII non è comparso bianco e ieratico alla stazione di Trastevere per mettersi davanti al convoglio fermo sul binario e impedirne la partenza, così come era apparso tra la folla il giorno del bombardamento di San Lorenzo. I vagoni sono stati piombati e quel treno è partito senza incidenti, il fischio della locomotiva sulla via Salaria”.

Noi sappiamo, tuttavia, che poco dopo qualcuno tentò di parlare a quei “passeggeri” ormai già in un altro mondo. “Il treno si mosse alle 14 – racconta Giacomo Debenedetti in 16 Ottobre 1943 – Una giovane che veniva da Milano per raggiungere i suoi parenti a Roma racconta che a Fara Sabina (ma più probabilmente a Orte) incrociò il «treno piombato», da cui uscivano voci di purgatorio. Di là dalla grata di uno dei carri, le parve di riconoscere il viso di una bambina sua parente. Tentò di chiamarla, ma un altro viso si avvicinò alla grata, e le accennò di tacere. Questo invito al silenzio, a non tentare di rimetterli nel consorzio umano, è l’ ultima parola, l’ ultimo segno di vita che ci sia giunto da loro” .

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