Se vogliamo non essere dei dinosauri, se vogliamo capire il mondo di oggi e quello che ci aspetta domani, ma anche il mondo di tutti i nostri ieri, non possiamo non ascoltare i giovani. Sembra una cosa così ovvia: il mondo di domani non sarà quello loro? E noi che non siamo più giovani non abbiamo forse, più che un’obbligazione morale, un istinto naturale a condividere le loro storie, a conoscere le loro idee, le loro aspirazioni, a scambiare le nostre emozioni con le loro, e a dare loro non solo i nostri soldi e le nostre cose case macchine e motociclette e vespe e barche e vecchie camice sdrucite? Non sta forse (anche) in ciò la nostra maturità? Vogliamo anche noi restare dei fragili adolescenti attempati, come sono quasi tutti i giovani di oggi, persino (soprattutto?) gli studenti universitari? (Ma conosciamo anche tanti ‘giovani’ quarantenni affetti da tale disagio, se non vera e propria patologia.)
Sembra una cosa ovvia, e banale; eppure, tranne rarissime eccezioni, viviamo, e particolarmente in Italia, e specialmente negli ultimi anni, in una società che, alle molte esistenti divisioni, ha aggiunto anche quella cosiddetta “generazionale”.
Nella mia esperienza personale, ma vivo da sempre in una grande città, da sempre insegno a centinaia di studenti all’anno, questa divisione si è molto ampliata. Quasi ogni tentativo di ridurre la ‘distanza’ tra i giovani e noi adulti autorevoli di riferimento cozza o contro un muro di gomma o contro vere e proprie barriere, culturali e, diciamolo pure, politiche. Faccio due esempi. Se in una commissione di riforma del Liceo si richiede la partecipazione degli studenti – come possiamo cambiare riformare rinnovare la scuola senza, necessariamente, chiedere ai cosiddetti (orrida per me parola, in questo contesto) “utenti” principali quali siano le loro opinioni in merito, i loro ‘desiderata’? – la domanda viene totalmente ignorata, oppure ci si dice: “non c’è il tempo, bisogna fare in fretta, il Miur aspetta”. Non è forse questa una cosa palesemente assurda?
Se, secondo esempio, in una comunità che si occupa di ragazzi “difficili” (e che si definisce e considera “aperta”) si chiede di poter discutere alla loro presenza, non solo tra noi adulti, delle loro e nostre pratiche educative, ci si risponde: “ma siamo matti? Discutere coi ragazzi delle pratiche educative? Di quello che facciamo e di come lo facciamo? Chiedere a loro? (Implicitamente: farci giudicare da loro? Come se loro già non ci giudicassero).”
Qualche tentativo illuminato, non banalmente conformista e corrivo con lo status quo, non pedissequamente appiattito sulle Leggi e sui Regolamenti e sui Mandati esistenti, tuttavia esiste. A Milano, per esempio, per l’impulso di un grande e visionario urbanista, si è creato un movimento – MI030 – in cui “alcuni vecchi leoni” (come li ha definiti sul Corriere della Sera Giangiacomo Schiavi) hanno, io credo con un certo successo (non posso non crederlo, perché io sono uno di questi vecchi leoni ☺), dialogato e ascoltato i giovani, cercando di trasmettere saperi, competenze e passioni, condividendo certamente, ma anche criticando (e anche molto duramente) le loro proposte.
Oggi, a Palermo, centouno anni fa (il 14 luglio del 1916: era un venerdì, proprio come oggi; il giorno dell’attacco alla Somme), nasceva Natalia Ginzburg. Ora se c’è uno scrittore italiano che ai giovani ha dedicato un’attenzione grandissima e speciale, tanto da essere considerata, da una certa critica, un autore ‘adolescenziale’, questa è Natalia Ginzburg.
Non mi riferisco, qui e ora, tanto ai suoi libri, quanto soprattutto ai suoi articoli ‘civili’, quelli che pubblicava prima su La Stampa, poi sul Corriere della Sera e su il Mondo, e quindi, nell’ultima parte della sua vita, quando era membro del Parlamento italiano, su l’Unità. Sono moltissimi quelli dedicati ai giovani, ai “ragazzi il cui pensiero non ha ancora scoperto o scelto le proprie strade, le cerca e desidera, come è in verità un ragazzo a diciotto anni.” E che cosa ci dice Natalia Ginzburg? Prendiamo alcuni suoi articoli, a esempio.
Nella sua meravigliosa scrittura, nuda e austera, ci racconta della rivolta giovanile a New York: “sui prati e nei boschi di Central Park si radunano i giovani, in comizi, cortei, improvvisazioni di spettacoli, invocazioni mistiche. Sullo sfondo, neri e sterminati, sono i grattacieli, a significare la società rifiutata, il mondo che si è venduto al potere.” La Ginzburg nota “la varietà, l’estrosità, la multiformità e la libertà” di questa rivolta, ma anche, nello stesso tempo, “le sue evasioni, nella droga o nella follia”.
In un altro articolo, analizza il Festival musicale del Parco Lambro (estate del 1976). Io c’ero, e me lo ricordo benissimo (ero con degli amici, tra cui anche una grande ed eccezionale fotografa di ragazzi e ragazze: Giovanna Nuvoletti). La Ginzburg coglie perfettamente “l’angoscia” dei centomila e più giovani che allora si radunarono lì. Certamente non erano tutti angosciati. Ma alcuni fatti terribili accaddero: “alcuni drogati [ce n’erano parecchi, come parecchi erano gli spacciatori, e Natalia Ginzburg non li assolve, al contrario. FR] vennero picchiati; il banco dov’era esposto il giornale degli omosessuali fu spaccato in due… Questa è stata un’infamia. Ma d’altronde forse è stupido pensare che fra una folla di centomila giovani non ci siano anche dei fascisti. Stupido immaginarsi che centomila giovani debbano essere tutti di un’alta qualità morale. In una folla così numerosa, è chiaro che si trova ciò che c’è di peggio e ciò che c’è di meglio al mondo.”
Sono, da allora (1976), passati più di quarant’anni. Non so se il mondo, i giovani e tutti gli altri, siano meglio o peggio. Una cosa però so con assoluta certezza: ci mancano il suo coraggio, la sua irriverenza. Se non mancano, si sono tuttavia drasticamente affievolite le coscienze critiche come quella di Natalia Ginzburg – una coscienza che, dopo avere ascoltato con attenzione (e compassione) e guardato con lucidità (e onestà) la realtà del mondo, “rompe le scatole, rimprovera, sbraita, lo dice alla televisione se può, alla radio…” (Giulio Einaudi), e che, pur avendo ragione, non ottiene assolutamente nulla. A Giulio Einaudi, infatti, che in quei termini l’aveva definita, rispose: “ma io non ottenevo assolutamente niente!”. Ovviamente, non è del tutto vero. Però, molte delle sue proposte, assolutamente sacrosante, ancora oggi, quarant’anni e più dopo, sono considerate inaccettabili, fanno ancora scandalo: “un ragazzo deve poter essere informato, consigliato e soccorso in ogni difficoltà e in ogni zona oscura che possa accadergli di attraversare… occorrono dei consultori gestiti dai ragazzi stessi, e da medici ed esperti, che i ragazzi stessi scegliessero e chiamassero. E’ evidente che sarebbero indispensabili subito.” Subito, appunto. Dove sono oggi, nel 2017, questi consultori “assolutamente necessari”? E perché i Responsabili delle comunità, gli Educatori, i Giudici, i Politici che, a parole, si dichiarano così “aperti”, sono contrari a idee tanto semplici giuste e ragionevoli, rigorosamente rispettose della persona umana? (E, aggiungo da economista, a costo zero.)
P.S. Il titolo di questo pezzo è il titolo di un articolo ‘civile’ di Natalia Ginzburg.
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