Mozzi, i Radiohead, la Policastro e il nostro bisogno di consolazione

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15 Aprile 2017

È di questi giorni una discussione intorno alla mancata sperimentazione in letteratura laddove invece la si riscontra sovente in altre arti: il cinema, le serie tv (che è cinema seriale, anche se continuiamo a sminuirlo con quel “tv” finale), i fumetti e i videogiochi.
Attori di questa discussione prima Gilda Policastro su Le parole e le cose e poi Giulio Mozzi sul suo blog Vibrisse.
Ogni discussione intorno alla narrativa in un paese che vede le homepage dei quotidiani (sono ormai più importanti delle prime pagine cartacee, facciamocene una ragione) disertare sistematicamente la chiamata culturale pur di dare spazio alla clip del panda irritato da una roccia inattesa o a quella del gattino impaurito dai cetrioli (true story) è un bene da preservare. Ecco perché provo a tornare sulla discussione e dare il mio contributo.
La domanda ha una sua ragion d’essere. Le narrazioni sono lineari. Le possibilità strutturali di composizione dell’opera sono spesso neglette. Eppure io, che da poco faccio parte di questo mondo come autore, pur facendone parte da anni come lettore, correttore, editor ecc., non ho alcuna paura che questo possa coincidere con la condanna a morte della narrativa. Perché? Cosa mi rassicura al punto da non condividere i desiderata di Mozzi e della Policastro?
La ragione per cui alla letteratura non richiediamo complessità o sperimentazione è facilmente spiegabile se ci si allontana dalla narrativa per posare lo sguardo sulla musica. Il percorso artistico che forse meglio racconta come sia facile perdersi sull’altare della complessità è quello dei Radiohead. Ai miei tempi (quando scrivi “ai miei tempi” in un testo pubblico senti un brivido correre lungo la schiena; davvero ho appena scritto “ai miei tempi”? Poi il mal di schiena, data la lontananza di quei tempi, vince sul brivido) si ascoltavano i Radiohead di Creep perché la linea melodica dei loro brani suscitava emozioni, una malinconia sfaticata, a tratti compiaciuta del proprio struggersi. Si cercavano emozioni in quei brani, e le si trovava in abbondanza ascoltandoli; chi ne capiva di musica lodava la “lingua” dei Radiohead dicendo che era di gran lunga più solida e consapevole di quella dei tanti gruppi che suonavano a quei tempi. Questo percorso artistico ha avuto il suo culmine con l’album “Ok computer”: non c’era stazione radio che non passasse almeno un paio di volte al giorno Karma Police, il brano più riuscito di quell’album.
E poi? Poi qualcosa nelle aspirazioni dei componenti del gruppo deve essere mutato ed è cominciata l’era della sperimentazione. Kid A e Amnesiac sono dischi di difficile ascolto. Chi voleva emozionarsi con i Radiohead ha dovuto metterci una pietra sopra. Ma io ricordo perfettamente le lodi da parte degli addetti ai lavori verso questa loro fase sperimentale. Cosa ne era stato della maestria dei Radiohead nell’emozionare il pubblico, dunque? Niente probabilmente. I musicisti avrebbero saputo riprodurla per molti anni, non c’è da dubitarne. Ma a un certo punto hanno smesso di rivolgersi al pubblico per rivolgersi agli addetti ai lavori. Io non so leggere uno spartito. A stento sono in grado di suonare il giro di do con la chitarra e, credetemi, poco me ne faccio. Infatti ho smesso di ascoltare i Radiohead.
Gli articoli di Gilda Policastro e di Giulio Mozzi sono una richiesta esplicita: dateci oggi il nostro materiale per addetti ai lavori quotidiano. La richiesta è sensata. Io sono un addetto ai lavori. Io ho bisogno del loro medesimo pane quotidiano. Perché quelle pagine che trovano il coraggio di sperimentare mi regalano spunti, mi mostrano vie che non immaginavo prima, mi ribadiscono oltre ogni ragionevole dubbio la potenza illimitata dell’arte che ho scelto per esprimermi. Ma posso chiedere ai lettori “deboli”, a chi legge sei libri all’anno, di sacrificare uno dei sei all’altare della sperimentazione letteraria?
Perché dobbiamo chiedere alla letteratura di essere solo come i secondi Radiohead e non come i primi? Perché non possiamo semplicemente accettare che esista una letteratura per chi scrive e una letteratura per chi legge? La gran parte dei lettori di “La vita istruzioni per l’uso” di Perec non coincide con i lettori del mio “La distrazione di Dio”. Cercano cose diverse. Esattamente come chi legge “I menu di Benedetta” di Benedetta Parodi difficilmente è lo stesso lettore di “Pavimenti. Piastrelle, moquette e parquet – Nozioni di base, attrezzatura e materiali, progetti e realizzazioni, rifiniture” delle edizioni Giunti.
Eppure, vi prego di credermi, sarebbe più comodo per chi si mettesse in testa di esordire oggi eleggere a lettorato naturale quello degli addetti ai lavori più che il lettore puro. Perché gli addetti sono i gate keepers, i giurati dei premi letterari, i critici che dovrebbero recensirti sulla carta stampata, sono gli amici di chi decide a chi affidare i blog affiliati alle testate on-line.
I gate keepers custodiscono pochi cancelli, insufficienti rispetto alla mole di esordi che ogni anno vedono la prima luce editoriale in Italia. Farsi ascoltare, farsi leggere, è più difficile che sedurre una di prima ginnasio quando sei ancora in prima media.
Suoni provocatoria quanto si vuole, ma io so e ho le prove [cit] che questa affermazione che segue è vera: ci vuole più coraggio, oggi, ad affabulare il lettore che a sorprendere il critico!
Ma poi vogliamo davvero che la narrativa intraprenda la stessa strada intrapresa da altre arti? Guardiamo cosa è successo all’arte figurativa. Andare a una mostra d’arte contemporanea è diventato come conoscere il primo fidanzatino di tua sorella minore: sai già che sarà un cretino di prima specie, ma dovrai dire che ti sembra un tipo a posto, altrimenti le tarpi le ali.

Guardiamo al favore del pubblico verso la semplicità del messaggio di Banksy contrapposto allo snobismo dei critici d’arte che non fanno che denunciarne la “facilità”. Vogliamo che si arrivi in un decennio o due allo scollamento tra fruitori e produttori?
Da quando frequento l’ambiente editoriale inciampo regolarmente in autori, editor e critici che innestano artatamente nelle chiacchiere da allestimento stand alle fiere editoriali il pretesto per sottolineare quanto li faccia rabbrividire la lettura “consolatoria”. Tutto è concesso in letteratura, salvo la consolazione del lettore. Non a caso Giulio Mozzi cita l’editor Einaudi colpevole di aver inserito nell’identikit del libro che vorrebbe dare alle stampe la parola “conforto”.
Ma è davvero così scandaloso questo conforto? Dobbiamo aver paura di questa necessità di consolazione del lettore? Dagerman nel suo “Il nostro bisogno di consolazione” (Iperborea 1991) scrive: “Posso riempire tutti i miei fogli bianchi con le più belle combinazioni di parole che sorgono dal mio cervello. Siccome desidero assicurarmi che la mia vita non sia priva di senso e che io non sia solo sulla terra, raccolgo le parole in un libro e ne faccio dono al mondo. Il mondo mi dà in cambio dei soldi, la fama e il silenzio. Ma che m’importa dei soldi, che m’importa di contribuire a rendere più grande e perfetta la letteratura? L’unica cosa che m’importa è quella che non ottengo mai: l’assicurazione che le mie parole hanno toccato il cuore del mondo. Cos’è allora il mio talento se non una consolazione per la mia solitudine?”.
La consolazione è di chi scrive più di quanto non sia di chi legge, sembra dirci Dagerman. Ma ci dice, tra le righe, anche un’altra cosa: che la scrittura dovrebbe cercare di toccare il cuore del mondo più che rendere più grande e perfetta la letteratura. E cos’è allora questo cuore del mondo? Può essere qualcosa di diverso dall’uomo? Direi di no. Il cuore del mondo siamo noi, è il nostro cercare un senso, è il nostro modo maldestro di affrontare i giorni di cui disponiamo. Il cuore del mondo è l’empatia di specie. Se c’è una cosa, da lettore, che chiedo alla narrativa è di esercitarmi a questa empatia. Farmi vedere le ragioni dell’essere umano anche laddove siano più nascoste e inarrivabili (ecco perché il nuovo romanzo “Bruciare tutto” di Walter Siti va difeso dalla Marzano a prescindere, anche senza averlo ancora letto). E cosa provo quando la pagina mi aiuta a capire meglio l’essere umano, se non “consolazione”?

TAG: Dagerman, mozzi, narrativa, polcastro, scrittura
CAT: Letteratura

3 Commenti

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  1. elisa-rosso 8 anni fa

    Non dipenderà forse da cose si legge. Narrazioni non lineari e sperimentali ce ne sono. A mente: Giorgio Falco, l’Ubicazione del Bene. Giorgio Vasta, Absolutely Nothing (ma anche lo stesso Tempo Materiale). Vanni Santoni, Personaggi precari (ma anche Muro di Casse, Stanza profonda etc.). Valerio Magrelli, Geologia di un Padre. Raffaella F. Ferré, Inutili Fuochi. Gherardo Bortolotti, Tecniche di basso livello.

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  2. elisa-rosso 8 anni fa

    da >cosa<

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  3. paolo-zardi 8 anni fa

    mi trovo nell’inusitata posizione di prendere le parti di Mozzi – inusitata non perché in generale non la pensi come lui (non è vero, come non è vero il contrario) ma perché sicuramente che io prenda le sue parti
    esiste una via di mezzo tra l’appiattimento che spesso l’editoria contemporanea richiede e la sperimentazione delle arti contemporanee… anch’io considero inutile la produzione dei Radiohead da Amnesiac in poi (Kid A, secondo me, è il giusto compromesso) ma ci sono casi di artisti che hanno saputo sperimentare rimanendo comunque fruibili – i REM da Up in poi, ad esempio…

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