Le Ragazze di Emma Cline: se la seduzione mentale genera mostri
Ho pensato a lungo se scrivere de Le ragazze, il best-seller di Emma Cline, tradotto magnificamente da Martina Testa per i tipi di Einaudi e accolto con slancio dalla stampa, non solo nostrana. Inizialmente l’ho evitato. Leggevo recensioni e post entusiasti, ma stavo alla larga dal libro come quando da ragazzina stavo alla larga dai belloni della scuola. Poi ho ceduto: volevo capire cosa spingesse giornalisti e blogger a battezzare questo romanzo esordio fulminante. La verità è che da Le ragazze della Cline non si scappa. Ti attira perché contiene in sé il male, il peggio dell’essere umano e a questo noi non sappiamo resistere. Leggere la Cline – troppo spesso ridondante (anche se mi sono chiesta se non l’abbia fatto apposta a martellarci con particolari e minuzie) – vuol dire rivivere l’emozione del primo incantesimo da narrazione: il fuoco negli occhi e nel petto, il rapimento, l’illusione (forse reale) che tutto dipenda dalle parole. Complice l’esperienza della Testa, il lettore viene a contatto con una storia conturbante, che rivela il talento di questa autrice d’oltreoceano già osannata e che domani per convincerci di nuovo dovrà cambiare registro.
Le ragazze è ambientato a Petaluma, periferia di San Francisco, nell’estate nel 1969. Evie, la protagonista, è un’adolescente impacciata, in rotta con la famiglia. Niente di nuovo nel suo orizzonte: i suoi giorni sono scanditi dalle paranoie delle amiche, dalle false attenzioni di un ragazzo che aspetta un figlio da un’altra, dalle fragilità insopportabili dei suoi genitori. Finché non incontra quelle tre hippie, quelle dell’incipit incantatore (“Alzai gli occhi per via delle risate, e continuai a guardare per via delle ragazze. Notai prima di tutto i capelli, lunghi e spettinati. Poi i gioielli che brillavano al sole. Erano in tre, così lontane che vedevo solo la periferie dei loro lineamenti, ma non importava: capii subito che erano diverse da tutte le altre persone del parco. Famiglie che ciondolavano, vagamente in fila, aspettando che fossero pronte le salsicce e gli hamburger messi a cuocere sulla griglia. Giovani donne in camicia a scacchi che correvano a stringersi al fianco dei fidanzati, bambini che lanciavano gemme di eucalipto ai polli dall’aria selvatica che infestavano il vialetto. Le ragazze dai capelli lunghi sembravano scivolare su tutto quello che le circondava, figure tragiche e isolate. Come una famiglia reale in esilio”) e cambia tutto.
La ragazzina sfigata dalla vita ordinaria si ritrova in una storia più grande di lei. Una storia dove c’è un luogo, un ranch, abitato da molte donne, da due, tre uomini e da Russell, il capo. Il ranch è un luogo strambo (si rivelerà maledetto): quelli che ci vivono sono intrappolati nelle loro convinzioni, nella loro malattia mentale spacciata per originalità. Qualcosa di perverso si agita nei loro animi, qualcosa che li spingerà, davanti agli occhi increduli di Evie, a compiere atrocità in nome di non si sa bene che. Ed è qui che la Cline sfodera il suo asso nella manica: le ragazze, il ranch, Russell si ispirano alle vicende di Charles Manson e seguaci, colpevoli, agli albori degli anni Settanta, di turpi omicidi, tra cui quello di Sharon Tate. Così, un’autrice giovane e talentuosa confeziona un romanzo attraente, che rievoca una delle vicende più cupe della storia americana. L’escalation di dissociazione dalla realtà, di follia e crudeltà di Russell e socie viene ripercorsa da Evie ormai adulta, ma emotivamente coinvolta e non immune alla fascinazione del ricordo. La Cline mixa innocenza e oscenità e, ponendo uno di fronte all’altro il lupo cattivo e la bambina smarrita, racconta che la seduzione mentale esiste e talvolta genera mostri.
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