Letteratura

La ricognizione del dolore: David Foster Wallace

1 Agosto 2019

Ma lo strumento narrativo davvero può sollevare dal dolore o stiamo parlando di un remo tra le mani di un naufrago in mezzo all’oceano?

Se la narrazione venisse affidata a David Foster Wallace e noi fossimo i naufraghi, quello che avremmo in mano non sarebbe un remo.

Parlare di Wallace è profanare tante cose insieme: l’idea di scrittore sacro che lo circonda, il talento incommensurabile che lo innalza, l’ombra della morte che si è dato. E tutto questo rimbalza su un’opera considerata intoccabile. Eppure la narrativa di Wallace non si può ricondurre tutta a quella sorta di onniscienza che tanto delizia i palati smorfiosi che fanno vanto di leggerlo.

Qui non si parla semplicemente di saper scrivere bene o di essere eccezionalmente dotati nella capacità di tradurre il sentire in sapere al punto di produrre assembramenti di parole così perfettamente organizzati da assomigliare a intelligenze artificiali; qui si tratta di quanta vita e, quindi, anche di quanto dolore si possono cedere alla parola, di quanto la stessa può farsene carico.

Wallace non si ferma mai, nomina tutto. È insieme oggetto e soggetto, narratore e lettore, è, antropologicamente parlando, un uomo che vuole rappresentare il mondo con la parola, in un momento storico in cui la parola non basta più a nominare il mondo. Un momento delicatissimo dove si rompono gli argini tra etica ed estetica.

In questo senso l’opera di Wallace rappresenta un apice disciplinare più che stilistico. Siamo davvero davanti al limite di ciò che è narrativamente rappresentabile e, anche se sappiamo che ciò che spiega non basta a salvarci, non possiamo che restare storditi davanti all’edificazione di queste immense cattedrali di parole.

E, poiché la scrittura ha il limite di essere umana, Wallace non può essere considerato semplicemente un genio ma, esteticamente parlando, un martire che diventa santo in virtù di un credo da cui, umanamente, trascende.

 

 

 

 

 

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