Letteratura

La poesia? Oggi è un’arte concettuale, come la pittura

12 Marzo 2016

«In Italia, in questa fase storica, noto una forte ideologizzazione della poesia. Ci investiamo sopra tantissimo. Chi la ama, la ama spasmodicamente. Ma questo induce il proliferare di lingue super-specializzate, che stanno in piedi perché il poeta e i critici che con lui sono solidali hanno deciso di concettualizzarle in un certo modo. E questo meccanismo di valorizzazione può apparire del tutto incomprensibile anche a un lettore preparato», dichiara a Gli Stati Generali, Paolo Giovannetti, professore di Letteratura italiana all’Università di Lingue e Comunicazione (Iulm) di Milano e autore, con Gianfranca Lavezzi, del libro La metrica italiana contemporanea (Carocci, 2010).

Che cosa intende quando parla di poesia “concettualizzata”? Vuole dire che la scrittura di molti poeti oggi è astratta e mentale? Oppure che è iper-letteraria?
Voglio dire che le scritture d’oggi tendono a reggersi su metadiscorsi che le legittimano, cioè che trovano un senso soprattutto nelle teorie che le precedono e le accompagnano. La poesia si è avvicinata di molto alle arti figurative. E infatti quando uso il termine “concettuale” mi riferisco proprio all’arte concettuale. In assenza di valori condivisi, un certo tipo di letteratura volta per volta si reinventa, ridefinisce i propri fondamenti, e sempre più ha bisogno di qualcuno che la inquadri entro la giusta cornice interpretativa.

Ritiene che questa condizione della poesia italiana contemporanea acuisca la sua marginalità, favorendo presso ambiti di pubblico potenziale la percezione di avere a che fare con un genere elitario e poco accessibile?
Il problema non è questo, o per lo meno non è solo questo. Sono infatti indispensabili almeno due precisazioni, leggermente ottimistiche. La prima è che si può leggere poesia, anche oggi, passando attraverso un’esperienza più immediata e vitale, attraverso il piacere del testo che non necessariamente si concettualizza, o, più esattamente, si concettualizza sì ma in modo limitato. I non molti lettori di poesia veri che conosco (esistono! esistono!) si comportano ancora in questo modo. Certo, preferiscono tipi di poesia più classici, meno sperimentali o di ricerca, ma leggono con un discreto grado di naturalezza. E quando dico naturalezza, dico la messa in gioco di filtri cognitivi che sono quelli forniti dalla vecchia scuola italiana, dalla vecchia formazione letteraria di tipo grosso modo liceale. La seconda precisazione, non so se ottimistica, ma certo indispensabile è che, come ho appena accennato del resto, non c’è la poesia, ma ci sono le poesie, tanti modi, registri, stili e scuole, che noi per comodità battezziamo con un parola al singolare. La poesia è un macrogenere dentro il quale convivono esperienze diversissime, e dovremmo sempre essere prudenti quando usiamo un’etichetta di questo tipo: gli equivoci possono metterci in crisi, falsando i nostri discorsi. Detto questo, secondo me il sistema poetico è, oggi, fortemente concettualizzato. Per leggere poesia certi a priori sono indispensabili. Dentro un comportamento estetico del genere, poi, c’è una poesia che solitamente chiamiamo di ricerca, che enfatizza in modo quasi spasmodico questa tendenza. E secondo me fa bene perché ci mette di fronte a una realtà certo ardua e un po’ oscura, ma ineludibile.

C’è modo di far arrivare il macro-genere della poesia a un pubblico più vasto? Ovvero di fare sì che un numero più esteso di lettori potenziali possa accedere alle scritture poetiche che oggi si stanno sviluppando?
Sono convinto che questo sia possibile. Mirare a un simile risultato dovrebbe anzi essere uno dei compiti della critica, della scuola, dell’università. Si tratta non tanto o non solo di insegnare la poesia, ma di creare le condizioni, le installazioni comunicative entro le quali anche una poesia in un certo senso innaturale e concettualizzata, se così si può dire, si naturalizzi: condivisione dei testi, lettura, ascolto, festival di poesia, reading pubblici, blog non elitari, e così via. Tutte cose che si dovrebbero realizzare meglio e sempre più spesso.

A suo avviso, in Italia negli ultimi venti o trent’anni si sono prodotti esempi di poesia particolarmente vitali e destinati a restare? Se sì, può fare qualche nome?
Di nomi posso farne tranquillamente una decina e più, perché di trenta-cinquantenni bravi e bravissimi ce ne sono molti. Ma poi per ognuno ci vorrebbe la sua brava spiegazione, con una mezza riga a testa, come fanno i bravi critici. E io non sono un bravo critico. Quindi giù coi nomi, senza glosse che non siano di gruppo. Secondo me, una serie di poeti fortemente consapevoli della tradizione italiana esistenziale, quella che va da Eugenio Montale a Vittorio Sereni e Franco Fortini, al più recente Fabio Pusterla, a cui affiancherei anche Stefano Dal Bianco e Umberto Fiori, continua a proporre una poesia, di grande valore, latamente novecentesca: Cristina Alziati, Massimo Gezzi, Guido Mazzoni, Stefano Raimondi, ormai maturi, ma anche i più giovani Tommaso Di Dio e Francesco Targhetta. Colpisce il fatto che i neometrici Patrizia Valduga e Gabriele Frasca, affermatisi più di vent’anni fa, non abbiano avuto bravi continuatori fra i più giovani. Quanto ai dialettali, dico solo Edoardo Zuccato, ormai canonico e cinquantenne, e il quarantenne Domenico Brancale, che peraltro non è un dialettale puro. Qui non conosco giovani di valore: fanno tutti i rapper? C’è poi un’area di ricerca eclettica, con dosi più o meno alte di ironia e di consapevolezza postmoderna: Gian Maria Annovi, Vincenzo Frungillo, Andrea Inglese, Andrea Raos, Sara Ventroni. Florinda Fusco potrebbe collocarsi da queste parti, ma forse mi sbaglio, in compagnia di Giovanna Marmo e Vincenzo Ostuni. Vito Bonito, uno dei più interessanti, sta a sé. Poi c’è la ricerca-ricerca: Gherardo Bortolotti, Alessandro Broggi, Marco Giovenale, Mariangela Guatteri, Giulio Marzaioli, Michele Zaffarano. Sì, di tutti questi nomi, e delle loro poesie, si parlerà anche in futuro, ne sono convinto.

Facciamo un passo indietro nel tempo. Come siamo arrivati a questo punto?
Per spiegarmi devo tirare in ballo, di nuovo, i massimi sistemi. Un concetto che da Hegel in poi è stato ripreso da molti studiosi e che però non viene ricordato abbastanza, è che le arti della parola, e fra di esse con particolare evidenza la poesia lirica, sono ai margini del sistema delle arti. Costituiscono un tipo di espressione estetica meno autonomo rispetto ad altre attività. A sua volta, la poesia, fra i modi d’arte deboli, è la più fragile perché, a differenza del teatro e dell’epica, ovvero del poema narrativo o romanzo, non ha natura mimetica. La poesia tende a restituire l’io con strumenti immediatamente linguistici. Si avvale solo marginalmente della finzionalità, del racconto. La poesia è una forma sempre sul punto di confondersi con la parola cosiddetta comune, con la non-arte. È probabile che il dispositivo storico che le ha dato forza sia stata proprio la metrica regolare, classica, un sistema articolatissimo di norme che è entrato in crisi con il verso libero, e poi, ancora più radicalmente, con la grande mutazione del postmoderno. Secoli di poesia, anche lirica, sono collassati nell’Otto-Novecento, e poi con gli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso. Quell’esperienza di confine che è la poesia si è trovata ancora più esposta: l’argine offerto dalla metrica, dai suoi vincoli, che però erano divenuti qualcosa di quasi naturale, si è rotto in due riprese. E oggi chi scrive dentro questo genere deve trovare una legittimazione fuori di sé. Qui sta la radice della concettualizzazione di cui parlavo prima.

Può spiegarsi meglio?
Le metriche plurali della post-modernità sono sempre più spesso delle meta-metriche babeliche: avventure individuali legittimate da micro-programmi che fanno premio sulla superficie del testo. Si tratta di un pulviscolo di esperienze prive di veri centri che non siano quelli molto parziali via via negoziati attraverso il supporto, instabile, della critica. Ho l’impressione che, sempre di più, la forma non conti tanto per quello che fattualmente, empiricamente è, ma per quello che rappresenta o può rappresentare virtualmente, all’interno di un protocollo progettuale, all’interno di una condizione installativa più che performativa. Qui, ripeto, sta il limite e il valore della poesia d’oggi.

Ritiene che per il prossimo futuro sia ipotizzabile una trasformazione delle metriche e della scrittura paragonabile a quanto successo all’inizio del secolo scorso con la rivoluzione del verso libero?
No, non credo che ci saranno rivoluzioni metriche. In realtà, come accennavo, è probabile che dagli anni Settanta-Ottanta del Novecento in poi, si sia verificata una sorta di seconda rivoluzione che in qualche modo era latente sin dalla fine dei Cinquanta e che i migliori neoavanguardisti e i migliori poeti della vecchia generazione avevano contrastato con l’utopia del verso accentuale. Per qualche tempo, negli anni Sessanta, era infatti sembrato possibile un verso misurato ad accenti e non a sillabe, che mettesse d’accordo fra loro poeti diversissimi come Mario Luzi, Edoardo Sanguineti, Antonio Porta, Franco Fortini, Giovanni Giudici e parecchi altri. Ma poi è successo qualcosa di parecchio diverso. C’è stata una rivoluzione non tanto di forme, quanto, già allora, di concettualizzazione delle forme.

Come si è realizzato questo passaggio storico?
L’inizio del trapasso si ha con la metrica di Amelia Rosselli: una metrica che esiste più in conformità a quello che la poetessa ha detto di sé che non in conformità a ciò che quella metrica positivamente fa. I critici la descrivono, la dicono e ridicono in tutti i modi possibili e immaginabili: toccando così, e non solo sfiorando, il ridicolo. Ci sono passato anch’io, e temo di essere stato ridicolo anch’io. Ognuno può vedere in Rosselli quello che gli fa comodo.

E questo fenomeno, a suo avviso, influenza la poesia di oggi?
Sì, direi di sì. Da una quarantina d’anni a questa parte, si è indebolita la materialità relazionale della metrica. Ma non perché si vada verso le non-forme: la paura dei reazionari di ogni tempo! Ma perché si va verso una specie di indecidibilità delle forme, verso strutture anamorfiche, ambigue, quasi ineffabili. Le guardi da destra e sono in un modo, le guardi da sinistra e sono in un altro modo. Il dato oggettivo conta sempre meno. A dominare, o almeno a condizionare il campo, sono le intenzioni, le micro-poetiche, i protocolli programmatici, l’enfasi su un modo di procedere volta per volta ri-formulato.

Ora facciamo un passo indietro nel tempo di oltre cento anni. Ci dica della rivoluzione del verso libero, di come si è realizzata. Forse ci aiuta a chiarirci le idee sul presente e sul futuro.
Quella che lei chiama, molto giustamente, rivoluzione del verso libero ha una genesi tuttora poco chiara. Il lato oscuro della faccenda è dato da un fenomeno su cui si interrogò Gianfranco Contini: vale a dire la vera e propria crisi di competenza metrica che colpì gli italiani colti, e gli stessi poeti alle prime armi, tra Ottocento e Novecento. Se, diciamo, intorno al 1880 una parte non trascurabile delle persone che avevano fatto studi classici era ancora capace di scrivere quasi d’istinto in versi e metri regolari, tale capacità semi-spontanea entra in crisi una ventina d’anni più tardi. E’ certo che dopo la prima guerra mondiale il sistema metrico italiano classico ha perso buona parte della sua capacità di mettere in forma la poesia naturalmente, in un modo, cioè, che non sia sentito come artificioso, ingegnoso, faticoso. Di questo aspetto meramente linguistico della metrica sappiamo però troppo poco, e per questo continua a costituire il lato oscuro della faccenda.

Ci racconti la parte visibile della metamorfosi.
Il lato ben visibile si può restituire con parole semplici, e con chiarezza, almeno spero. A partire da una data quasi simbolica come il 1903, si vanno addensando libri e libretti di poesia in cui poeti giovanissimi, a volte meno che ventenni, smettono di scrivere con la metrica tradizionale e praticano forme in cui la relazionalità isosillabica classica è sostituita da altro. In italiano, prima del Novecento, non era permesso scrivere un testo in cui, ad esempio, un endecasillabo è seguito da un ottonario e poi da un novenario, e così via… Questo tipo di metrica era del tutto inaccettabile per la nostra tradizione. Poeti come Sergio Corazzini e Corrado Govoni invece cominciano a comporre così nel periodo appunto subito successivo al 1903. Usano frammenti della tradizione, ma li montano in modo personalissimo, ottenendo una sonorità nuova. E nel decennio abbondante che precede la prima guerra mondiale questo modo di scrivere sempre più libero, anche se mai del tutto slegato da indici metrici tradizionali, si va generalizzando. Clemente Rebora e Dino Campana (1913-1914) poetano in un modo del tutto nuovo rispetto al passato, e con la massima sicurezza. Giuseppe Ungaretti, il primo Ungaretti, è naturalmente versoliberista. Siamo arrivati al 1916, l’anno de Il Porto Sepolto.

E questa rivoluzione che influenza ha avuto su quello che è successo dopo?
Tutto il Novecento, e anche il Duemila, hanno risentito e risentono di questo vero e proprio mutamento di paradigma. Tutte le restaurazioni, o ristrutturazioni, metriche del secolo scorso hanno dovuto tenere conto di quell’orizzonte iniziale. E i neometrici sono tali perché devono confrontarsi, pur se in negativo, con la dominante della modernità: il verso libero. Ciò avviene anche per una ragione particolarissima. Vale a dire: l’invecchiamento prima e il ringiovanimento poi delle forme liberiste. E’ un movimento della poesia italiana che si verifica tra anni Cinquanta e Sessanta, e che continuerà ad agire in profondità per molto tempo. Si tratta, vale a dire, del tentativo di scoprire una nuova, paradossale regolarità metrica che passi attraverso gli accenti, la ricorsività degli accenti, e non attraverso le sillabe e la ricorsività delle stesse. Cioè: è stato ed è tal punto vivo, il verso libero, da aver potuto affrontare la propria crisi, rinascendo, ridefinendosi, rinegoziando le proprie norme. Come accennavo sopra, negli anni Sessanta e Settanta certi versi di Mario Luzi, Edoardo Sanguineti, Franco Fortini, Antonio Porta, poeti tra loro diversissimi, sono comparabili perché elaborano in parallelo lo stesso tipo di problema, che poi era, o meglio era stato, uno dei problemi fondanti del verso libero. Non l’ho però ancora enunciato, questo problema. Lo faccio adesso, e vorrei che il concetto risultasse chiaro. Immanente alla tensione liberatoria ce n’è sempre un’altra, che peraltro dà senso alla liberazione.

Dica pure.
Si tratta della definizione di una forma condivisa, di uno stile, di un sottocodice. Nel momento in cui la metrica unica entra in crisi, devono subentrare le metriche. Tradizioni parziali, ma dotate di una loro forza coesiva che renda riconoscibili e condivisibili anche esperienze apparentemente irrazionali. Un interessante esempio è la poesia di Vittorio Sereni: la sua metrica capitalizza due modelli molto più convergenti di quanto non si creda, quello montaliano e quello ungarettiano. Entrambi avevano fatto dell’endecasillabo una specie di ideologia, un pivot delle proprie partiture, ma alla precaria saldezza erano arrivati attraversando le macerie della vecchia metrica e, soprattutto, accettando di praticare un endecasillabo tutt’altro che pacificato. Sereni fa sua ed esaspera questa tradizione. Ed è talmente bravo che la rilancia, arrivando a influire su molti poeti anche odierni.

Torniamo all’oggi, allora. Ci illustri, con alcuni esempi, come scrivono, come creano il verso e quindi, le loro metriche, i poeti contemporanei.
Entro il quadro che ho tratteggiato credo che si possano riconoscere per lo meno cinque tendenze. Teniamo però conto che, appunto per la condizione babelica che dicevo, quelli che elenco sono orientamenti che non si incontrano tanto di frequente allo stato puro, perché quasi sempre ognuna delle metriche che indico si mescola con le altre, magari non con tutte, ma almeno con un paio sì.

Prima tendenza.
Una metrica che ruota intorno a un endecasillabo sempre più postmoderno: cioè, come dicevo, nominalistico e virtuale. L’endecasillabo va perdendo la propria compattezza materiale per diventare allegoria di se stesso, allusione al proprio esserci potenziale. E’ un ambito molto ambiguo: si tratta, spesso, di una poesia che vorrebbe riprendere la grande tradizione novecentesca, quella che arriva fino a Sereni, ma lo fa non senza difficoltà oppure con un atteggiamento leggermente teatrale, sin troppo autoconsapevole.
Questi versi di Franco Buffoni ne sono un ottimo esempio:

Ho pensato a te, contino Giacomo, vedendo
Su una rivista patinata
La foto degli scavi in Siria a Uriksh,
A te e ai tuoi imperi e popoli dell’Asia
Quando intuivi immensamente lunga
La storia dell’umanità.
Altro che i Greci il popolo giovane di Hegel
O il mondo solo di quattromila anni della Bibbia
Credendo di dir tanto fino a ieri.

Seconda.
Esperienze che in effetti molto hanno a che fare con la metrica accentuale di cui parlavo poc’anzi. Il verso è scandito da una tendenziale regolarità di accenti. Dietro l’angolo c’è una specie di nuova uniformità, che però non si realizza mai del tutto.
Si veda questa breve sequenza di una poetessa assai giovane, Alessandra Cava. Ogni verso ha quattro o cinque ictus, tutto sommato chiari.

la càsa, la casa durìssima delle colleziòni, delle addiziòni,
degli strati santificàti, la casa gentìle dove infilàre le partènze,
la càsa dei muri sbucciàti, la casa malandàta, la casa dello stàre,
dell’affacciàre, lenta sedimentaziòne dello scòrrere, del bussàre,
dell’èco, dell’eco dovùnque, la casa è la prìma, la càsa

Terza.
Il verso discorsivo, di origine biblico-whitmaniana. Non per caso, questo tipo di metro è stato fatto proprio da una certa sensibilità femminile, che vi ha modulato sopra una retorica della passione e del sentimento, a volte anche dell’autenticità. Si tratta del verso più chiaramente orale fra i cinque che sto esaminando, anzi lo definirei oratorio, e per questo è stato lungamente osteggiato in Italia. Già Giovanni Pascoli ne diceva tutto il male possibile. Ancora oggi lo si guarda con il massimo sospetto, anche per ragioni, oserei dire, di perdurante maschilismo.
Si leggano questi versi di Antonella Anedda, in cui si colgono gli evidenti, esibiti parallelismi leggermente enfatici.

Mentre gli storni si radunavano nel cielo della stazione lui si ammalava,
mentre lei salvava uno scarafaggio facendolo salire su uno stecco
lui provava la prima fitta alla schiena. Non era solo?
L’orgasmo arrivava staccato da tutto?
un anello di fumo dentro il ventre
e poi su dalla gola nella parte più alta della testa?

Quarta.
Un verso ostentatamente nominale, privo di una vera autonomia riconoscibile, forse imparentato con quello di Rosselli, ma oggi divenuto una delle “norme” più interessanti e vive. Siamo al limite di quella che correttamente, dovremmo chiamare parodia, cioè l’interazione, la frizione di almeno due sistemi semiotici in contrasto fra loro. Il verso che vedo non esiste metricamente, perché chi ha scritto mi ha chiesto, attraverso un appello in senso lato paratestuale, di non credere a ciò che mi sta di fronte e che perciò non sono in grado di attivare ritmicamente.
Leggiamo questi versi di Michele Zaffarano, che appunto “versificano” esplicitamente una prosa:

Nel giugno del 1920
sull’Ordine Nuovo
Gramsci scrive
che quando in economia
quando in politica
è una classe
(è la classe borghese)
a decidere ogni cosa
il processo rivoluzionario
(concreto)
diventa realtà
soltanto in luoghi
che sono luoghi
sotterranei e oscuri
nell’oscurità delle fabbriche
(per esempio)
nell’oscurità delle coscienze
(per esempio).

Quinta.
La poesia in prosa che sta diventando prosa in prosa. Contro il parere di tanti critici, vecchi e nuovi, in Italia c’è stata una discreta tradizione di poesia in prosa. Ossia un tipo di testo con ogni evidenza lirico, o collocato in un contesto lirico, che però è privo del tutto di metrica ed è affidato alla forma della prosa: a qualcosa che, tendenzialmente, quasi per definizione, non ha, e non può avere, un ritmo regolato. Da una quarantina d’anni in qua, a partire da certe composizioni geniali di Giampiero Neri, abbiamo assistito a un fortissimo incremento qualitativo e quantitativo di questa forma: che in effetti, per la sua ambiguità appare perfettamente conforme al clima postmoderno della nostra, ma non solo nostra, poesia. Dentro una prosa possiamo vedere di tutto: soprattutto i versi nascosti, anche quando non ci sono! Oggi, poi, si parla sempre più spesso di prosa in prosa: per riferirsi a una forma di ulteriore desublimazione della tradizione in questione. Prosa, ormai, significa abbandono di ogni intenzione lirica, e anzi suggerisce la radicale orizzontalità del testo, la sua irriducibilità a ogni istanza poetica. Il vero fondamento della prosa in prosa è la lingua della comunicazione strumentale, nei suoi registri meno formalizzati.
Se ne veda un esempio di Marco Giovenale:

Uno:

prendere il posto del governo per la coda, otto mesi perché aveva ad­dosso 20 grammi di erba, è dovuta intervenire l’autogrù, non distingue tra civili e marziani, abissale differenza poi con un cacciatore indiano, si presenta tagliato a fettine, circa 130 km, in più di 1 ora e mezza, il reparto maternità è un raggio di gioia, è l’altezza massima che possono raggiungere le piante, signor capitano, non è una gatta: anche a me è capitato un problema simile: non riuscivo ad impostare questi meli da bacca a spalliera, non mi è ancora mai successo di vederne uno in questa situazione, forse millecinquecento metri quadri, una volta o due, quando eravamo già andati a letto, ho dovuto aprire con uno scatto secco: non osare mai più chiamarmi ipocrita, mi avete promesso di usare questo denaro per venire attraverso il software.

Ci sono fenomeni nuovi? Forme espressive di sperimentazione e di confine, che combinano poesia, musica, capacità vocale e performance?
Il rap è il grande fenomeno ritmico del nostro tempo, la cui origine quasi coincide con la cronologia del verso postmoderno. Nasce negli Stati Uniti tra fine degli anni Settanta e inizio degli Ottanta, e arriva da noi circa dieci anni dopo. Ciò che del rap mi interessa è quella parte, forse limitata ma vitalissima, che riusciamo a cogliere noi studiosi della poesia intesa in senso tradizionale. Il rap agita il fantasma del ritmo primigenio, dell’indistinzione di verso e prosa, che tuttavia, esattamente all’opposto della poesia in prosa e della prosa in prosa, necessita di un potenziamento del suono e della cadenza, stipando il testo non versificato di accenti simmetrici e comunque ben udibili. Ecco: il rap ci riporta alle origini orali di quanto convenzionalmente chiamiamo poesia. Ma forse sta al di qua della stessa distinzione tra verso e prosa: perché non è verso ma solo prosa ritmica… Qualcosa di antichissimo, forse solo di mitico, che comunque è stato riattualizzato dai media elettrici. Ma, in fondo, che cos’è lo stream of consciousness se non una specie di verso fluidissimo che si appiccica a un’alterità, a un contenuto tanto necessario quanto sfuggente, sfocato, qual è il “contenuto” della vita interiore?

E in che modo il rap può incidere sul genere della poesia?
La prosecuzione in poesia dell’istanza rap, la cosiddetta slam poetry, nelle sue punte più consapevoli in effetti sembra riuscire a proporre qualcosa su cui in futuro si potrà lavorare. Proviamo a leggere qualche “verso”, appunto fra virgolette, del giovane slammer Julian Zhara. Certo, sarebbe meglio ascoltare la resa sonora del testo. Ma si noti il tono da trance, tra veglia e sonno, omologo al confine tra vita e morte di cui parla il testo.

Bada che vengono i morti, rinnovano:
– mode (da morti più che da vivi)
– l’invito a pestare le orme di sogni
già masticati da bocche più grandi di te.

Questo il castigo che in fondo al barile
si raschia in fondo all’a che pro,
poco importa se credi o meno davvero agli altari;
poco importa se il clima rimane
la prima ragione a offrirti ai piedi degli –ismi
una cuccia sicura non è
semplice,
semplice resa all’orrore
e rimanere da solo e scavare
nel colon dell’essere vile, umano,
all’ombra dell’agio borghese,
rifugio che stringe la mano all’alibi antecedente (n.d.r. antiborghese),
col muso altèro dell’altra facciata del conio

il ciano
opposto
al rosso
al nome
il cognome,

battaglia dopo battaglia,
incatenarsi all’aberrazione nei geni scartati
con dolce miseria che ingrana in altari uguali/opposti.

Di recente, nel corso di una conversazione sulla scrittura, lei ha detto che la scrittura poetica diventa più profonda, ricca e complessa quando si allontana dalla musica. Ci spieghi questo concetto.
Il Novecento ha promosso un verso quasi del tutto mentale, separato dalla voce e dal suono masticato con una bocca reale. Il verso libero è stato un verso silenzioso, e anche la sua sonorità dovevamo e dobbiamo gustarla sulla pagina, immaginandoci i suoni più che ascoltandoli. Questa è la situazione tipica di Montale, meno forse di Ungaretti. Ma, come sa chi abbia mai udito e visto Ungaretti leggere, la pronuncia vocale è in lui qualcosa a tal punto sconfinante con il ridicolo, con la caricatura, che non è in alcun modo riproducibile. L’assolutezza del verso ungarettiano e, a maggior ragione, la storicità del verso montaliano passano attraverso un ritmo quasi del tutto privo di una musica materialmente udibile. E’ indispensabile ascoltare quelle poesie con un orecchio interiore. Quella è stata la nostra tradizione, ci piaccia o non ci piaccia. Le sue conseguenze arrivano, seppure ormai indebolite, fino a noi.

E se spostiamo il discorso da Ungaretti e Montale al presente?
Oggi, le cose stanno cambiando? Forse, ma solo forse. Banalizzo: non conosco bravi poeti che sappiano leggere davvero bene le loro poesie! La lettura ad alta voce è quasi sempre un mezzo fallimento, una felice sconfitta, una traduzione o transcodificazione variamente deludente. Così non è per i rapper e gli slammer. Ma se i primi vanno ricondotti a una consuetudine musicale persino troppo consolidata, i secondi lavorano in un vuoto di tradizione e stili condivisi: e i riferimenti che emergono, a ben vedere, devono ancora moltissimo al rap. In ogni caso, mi sembra che la ripresa di una dimensione orale, performativa, possa essere la vera novità del futuro. Però è davvero troppo presto per dire qualcosa di poco più che approssimativo.

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