Letteratura

Intervista a Mattia Insolia – Gli affamati

4 Agosto 2020

Intervista a Mattia Insolia, autore de “Gli affamati” ed. Ponte alle grazie

Un buon romanzo si struttura attorno a un tema, lo mette in luce e, se è un buon romanzo, non lo risolve mai. Nel tuo romanzo c’è la fame che dà il titolo, c’è la rabbia che porta tutto alle estreme conseguenze e c’è l’abbandono. Quale di questi è il tema dominante?
Credo sia una concatenazione dei tre. Dall’abbandono nasce la fame, dalla fame nasce la rabbia. I due fratelli, Antonio e Paolo, i miei affamati, vivono un’esistenza fatta di mancanze, procedono quasi per sottrazione. Il padre, un alcolizzato violento, è morto. La madre, che subiva le violenze del marito, è scappata di casa lasciando i figli all’incertezza e al dolore. Sono ferite che non si rimarginano e che i fratelli non sono capaci né di ignorare, né di interiorizzare. Da questi vuoti che si espandono fino a divorare ogni cosa, deriva la fame. Voracità senza confini. Dall’incapacità di saziarsi, per limiti fisici ed emozionali, deriva la rabbia. Sentimento cieco che porta a una lotta generalizzata contro il mondo intero. Ecco, l’intreccio dei tre è il nocciolo del conflitto di Antonio e Paolo.

C’è uno strano rapporto tra Paolo e Antonio. Paolo è il maggiore e per questo comanda su Antonio, eppure non sembra Paolo quello più maturo dei due.
Sono convinto che la maturità prescinda l’età anagrafica. Piuttosto sarei propenso a dire che dipenda dal trascorso personale e dal modo in cui un determinato individuo riesce ad affrontare le difficoltà che la vita, Dio, il destino, gli riserva. Paolo adopera una violenza dirompente, la sua esistenza è una sorta di esplosione continua. Antonio vive in una calma di plastica, cerca di mantenere un equilibrio precario nella paura che possa fracassarsi tutto. La differenza tra i due risiede in questo, nel loro modo di affrontare la quotidianità e le offese del mondo. Solo che Paolo ne è logorato, ormai. Non riesce più a combattere, è stanco, sfibrato, debilitato da sé stesso. Avvertendo questa sofferenza, Antonio è costretto a prendere le redini in mano. Eccola, la maturità di Antonio.

Il tuo romanzo ha una straordinaria nitidezza. Leggendolo vediamo perfettamente a fuoco le relazioni, la paura, il dolore, la forza e la debolezza. Ci sono due cose però che rimangono indefinite: l’ambientazione e la sessualità.
Sì, è vero, rimangono indefinite e non è un fatto casuale. La vicenda prende vita a Camporotondo, un paesino fittizio, minuscolo, asfissiante, senza futuro. È un agglomerato dimenticato pure da Dio e non gli ho voluto dare una collocazione certa – si trova in un imprecisato sud Italia – perché volevo che idealmente rappresentasse “la periferia”. Quei posti che alla lunga risultano dei veri confini in cui gli abitanti paiono vivere senza la spinta verso il futuro; è tutto già scritto, non c’è spazio per la speranza che le cose cambino, non avrebbe senso credere il contrario. Anche la sessualità, in effetti, non trova una sua definizione. E perché avrei dovuto dargliene una? Che piaccia o no, ci apprestiamo a vivere un mondo in cui le etichette, le definizioni e i contorni non esisteranno più – e finalmente, aggiungerei: era ora. Le linee di demarcazione stanno svanendo a favore di un reale che permette fluidità, libertà di scelta e possibilità di movimento in direzioni diverse. Che svaniscano pure dalla vita di Antonio e Paolo, queste linee.

Elio Vittorini diceva che ci sono scrittori che ti fanno dire: “è proprio così” e altri che ti fanno dire: “non avrei mai pensato che potesse essere così!”. Tu a quale di queste due categorie ti senti più vicino?
Spero di appartenere a una terza categoria. Quella che fa dire “è proprio così, pure se non avrei mai pensato che potesse essere così”. In fondo è quello che mi dico io stesso quando scrivo.

Quando un autore esordisce alla tua età spesso diventa bersaglio di stupide domande sulla sua generazione, come se il dato anagrafico gli concedesse naturalmente sensi più acuti e inedite capacità interpretative. Te le eviterei, se non fosse che il romanzo parla di due fratelli quasi orfani, del tutto privi di figure di riferimento presso le generazioni precedenti. Quindi eccola, la domanda stupida: in che modo Gli affamati parla della tua generazione?
Antonio e Paolo sono figli di nessuno. La mia generazione è figlia di nessuno. Che piaccia o meno pure questo, ci stiamo crescendo da soli. La vecchia generazione è troppo impegnata a difendere i privilegi in cui è nata e si è arroccata. Non fraintendermi, siamo stati coccolati, sfamati e cresciuti, educati, amati e osservati; sotto questo aspetto siamo viziati e in salute. La mia non è ingratitudine e non vorrei si pensasse che combatto una guerra contro i mulini a vento. Il problema è diverso. Ed è che ora, ora che siamo quasi degli adulti pure noi, a questa vecchia generazione non piace quel che vede. Non siamo la copia conforme di nessuno, e anzi recalcitriamo e urliamo a quelle regole vecchie, strette e deformi rispetto al nostro nuovo reale. In poche parole, siamo venuti su in modo diverso rispetto a quello che ci si sarebbe aspettati e così siamo stati abbandonati. Non da un punto di vista fisico o pratico, l’ho detto prima, ma l’educazione sentimentale, sessuale, sociale, ambientale, politica e intellettuale dobbiamo impartircela da soli. E così sia.

Nel tuo romanzo ci sono due lingue: quella dei personaggi e quella dell’autore. Come hai lavorato su entrambi i registri?
Lavorare ai dialoghi, in realtà, è stato molto divertente. Quelle parti sono piene di sgrammaticature, di locuzioni gergali, discese nel basso. Antonio e Paolo sono male istruiti, comunicano con quel linguaggio che io definirei “l’essenziale per essere capiti”. Il resto, invece, per quanto sia sempre inerente all’ambientazione della storia, si eleva leggermente. C’è una dualità, questo è fuori dubbio, ma non è qualcosa a cui ho lavorato particolarmente. È venuta fuori in modo spontaneo.

Quali sono i tuoi autori di riferimento?
Niccolò Ammaniti, sopra tutto e tutti. È un maestro della narrazione, le sue storie sono raccapriccianti e insieme struggenti, dolcissime. “Come Dio comanda”, con cui ha vinto il Premio Strega, lo rileggo ogni anno, “Ti prendo e ti porto via” è divertentissimo. Con lui, poi: Domenico Starnone, Teresa Ciabatti, Marco Missiroli, Dacia Maraini, Sandro Veronesi, Paolo Giordano e molti altri. E ancora: Margaret Atwood, Michel Houellebecq, Donna Tartt, Andrew Sean Greer, Elizabeth Strout.

Cosa si scrive dopo aver scritto “Gli affamati”?
Si scrive dei sazi. O almeno, così credo adesso. Ho parlato di quei ragazzi che non avendo niente desiderano di tutto, adesso vorrei raccontare quelli che avendo tutto non desiderano niente. Il risultato penso sia sempre lo stesso: odio per la vita, lotta contro il mondo.

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