‘I mangiatori di Buddha’, Barbara Demick racconta la storia del Tibet in esilio

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16 Ottobre 2024

Auto-immolazione, una delle manifestazioni più cruente dello stato tibetano in esilio, sicuramente la più tragica. Nel 1692 il quinto Dalai Lama riuscì a creare lo stato del Tibet mettendo fine alle continue lotte tra le varie regioni dell’altopiano tibetano e i signori della guerra che le comandavano. Ne seguirono secoli di relativa stabilità politica in cui il Dalai Lama, oltre a essere la suprema autorità religiosa, aveva anche il potere temporale di guidare i ministri e i funzionari che amministravano il paese. Passati poco meno di trecento anni qualcosa comincia a rompersi. Infatti, a partire dal 1950, l’Esercito Popolare Cinese iniziò gradualmente l’invasione del Tibet e la popolazione tibetana, esasperata dal pugno di ferro degli occupanti, diede vita alla rivolta del 1959. E, nonostante che nella Costituzione Cinese si parli di “Regione autonoma del Tibet”, la realtà si è dimostrata ben diversa, e qualunque attività non allineata con le imposizioni del Governo Cinese è stata repressa brutalmente.

Le conseguenze della rivolta sono state durissime, l’attuale Dalai Lama si è rifugiato in India, seguito da circa 100.000 tibetani, che hanno formato una cinquantina di campi rifugiati in India e in Nepal. Molti altri tibetani hanno tentato di fuggire, ma sono morti di stenti attraversando a piedi l’Himalaya o sono stati uccisi dai soldati cinesi che presidiavano i sentieri. Oggi i profughi tibetani e i loro discendenti sono circa 130.000, mentre continua la violazione dei diritti umani in Tibet. E’ su questo stato di cose che arriva ad indagare Barbara Demick, corrispondente dall’estero e poi responsabile della sede di Pechino del Los Angeles Times e scrittrice pluripremiata. La giornalista, autrice di ‘I mangiatori di Buddha’, edito recentemente per l’Italia da Iperborea, ha trascorso anni a intervistare i tibetani per capire cosa li spingesse a compiere un atto così impensabile come quello dell’auto-immolazione.

 

Il racconto della Demick passa per alcune vicende che l’hanno convinta a indagare sempre più a fondo sugli eventi che hanno riguardato il Tibet dal 1950 in poi. Il 16 marzo 2011 Rigzin Phuntsog, un giovane monaco buddista tibetano solitamente sorridente, si è dato fuoco nella città cinese di Ngaba per protestare contro quella che considerava una repressione da parte dei cinesi. Non era il primo, infatti due anni prima un altro giovane monaco, Lobsang Tashi, si era dato fuoco ma era sopravvissuto, rimanendo però invalido, costretto a vivere in un ospedale cinese. Quando Barbara Demick ha terminato il suo resoconto nel 2019, 156 tibetani si erano uccisi, un terzo di questi nella città di Ngaba. La città, nella provincia cinese del Sichuan, era diventata la capitale mondiale non ufficiale delle auto-immolazioni.

 

L’auto-immolazione è un’esperienza che mette a dura prova. Con questa pratica i monaci tibetani hanno cercato di dimostrare che le cose non stanno esattamente come sostengono i cinesi, secondo cui i tibetani sono felici e liberati da secoli di teocrazia medievale. No, dicono questi monaci, siamo così infelici e così sconvolti che siamo in grado di sopportare il dolore di darci fuoco per morire. Quando nel 1950 l’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) entrò in Tibet e in altre aree tibetane della Cina, a Ngaba e nelle zone circostanti del Sichuan, i monasteri furono requisiti o demoliti, le statue distrutte. Scrive Demick: “È impossibile comprendere l’attuale atteggiamento dei tibetani nei confronti del governo cinese senza comprendere l’enormità di ciò che li ha colpiti negli anni ‘50 e nei primi anni ’60”. Le cifre dei tibetani uccisi nella repressione non sono certe, ma si parla sicuramente per quel periodo di almeno 100.000 morti.

Il libro della Demick prende ispirazione per il suo titolo dalla Lunga Marcia degli anni 1935-36, quando l’Armata Rossa di Mao, affamata, attraversò l’altopiano tibetano e i soldati cinesi mangiarono i Buddha votivi fatti di farina d’orzo e burro prodotti e conservati nei monasteri. I tibetani opposero una strenua resistenza, ma i monasteri furono comunque profanati. Gran parte della storia del libro della Demick è raccontata attraverso gli occhi della principessa Gonpo Tso, il cui padre fu l’ultimo re della zona. Un uomo in anticipo sui tempi: credeva nell’istruzione delle ragazze e si dice che si facesse il letto da solo per non farlo fare alla servitù. L’esercito sequestrò il palazzo di Ngaba e mandò la famiglia di Gonpo in esilio. Durante la Rivoluzione culturale, la famiglia fu etichettata come oppressore feudale e subì sessioni di lotta (una forma di umiliazione e tortura pubblica usata dal Partito comunista cinese). Sembra che la madre di Gonpo si sia gettata in un fiume al suo ritorno dall’esilio. Il padre di Gonpo ha preferito scegliere la strada del suicidio, piuttosto che vivere senza la moglie. Gonpo, in seguito a questi eventi, fu mandata a lavorare nei campi dello Xinjiang.

La città di Ngaba resta sempre al centro del racconto della Demick. Un centro abitato con poco più di 80.000 abitanti, pochissimi se rapportati ai numeri delle città cinesi più popolose. Negli anni Ottanta questa cittadina ha conosciuto un boom economico, a seguito del quale molti cinesi si trasferirono in città dalla campagna. In questa fase espansiva molti terreni sono stati confiscati per la costruzione di abitazioni. I tibetani hanno visto in tutto questo una forma di accaparramento di terre di loro proprietà. Sono seguite proteste per le perdite subite. La bilancia sembrava sempre pendere a favore dei coloni han, mentre nelle scuole della regione di Ngaba si insegnava la storia e la lingua cinese. La situazione è esplosa in occasione delle Olimpiadi di Pechino del 2008. Sono scoppiate le proteste e le autorità cinesi hanno dato un giro di vite. Ci sono stati scontri e rivolte, contro le aziende cinesi presenti in città, contro l’industria mineraria. È stato inviato l’esercito, sono stati istituiti posti di blocco, i monasteri sono stati nuovamente chiusi, sono state installate telecamere nei luoghi pubblici.

Barbara Derick sa raccontare benissimo le correnti della storia attraverso il racconto della vita di alcune persone comuni. Nello stesso tempo sa raccontare benissimo un dramma che va avanti ormai dal 1950, la storia di un popolo in perenne esilio. Oggi, come rivela la Demick, gli esuli tibetani in India temono che il tempo stia per scadere per Ngaba, il Tibet e la sua cultura. “I tibetani non sono una tribù esotica e isolata che cerca di preservare un’antica civiltà contro l’avanzata della modernità”, conclude Demick. “I tibetani vogliono infrastrutture, tecnologia e forme di istruzione superiore. Ma vogliono anche mantenere la loro lingua, cultura e libertà di religione”. La principessa Gonpo ha confessato alla Demick di riuscire a malapena a parlare delle auto-immolazioni. Alcuni degli auto-immolati sarebbero stati figli o nipoti dei sudditi di suo padre. “Non posso credere che stiamo perdendo queste preziose giovani vite, una dopo l’altra”, ha detto la principessa Gonpo alla Demick. E noi non possiamo ancora credere a una storia di ingiustizia che sembra non finire mai.

 

 

TAG: Barbara Demick, Cina, I mangiatori di Buddha, Iperborea, Tibet
CAT: Letteratura

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