Giulio Mozzi, rendetevi conti
Mettiamo caso che uno si ritrovi in mano questo Fiction 2.0 senza aver mai letto niente di Giulio Mozzi. Il che sarebbe abbastanza strano, visto che Giulio Mozzi (1960) ha pubblicato nell’ultimo quarto di secolo decine di libri: raccolte di racconti (Il male naturale), versi (Il culto dei morti nell’Italia contemporanea), non-fiction (Quello che ho da dirvi. Autoritratto delle ragazze e dei ragazzi italiani con Giuseppe Caliceti, 10 buoni motivi per essere cattolici con Valter Binaghi), didattici (come (non) un corso di scrittura e narrazione), indefinibili e sperimentali (Il pittore e il pesce. Una poesia di Raymond Carver, un’opera di Carlo Dalcielo).
Uno può anche non aver letto niente di Giulio Mozzi: quello che è proprio impossibile è che uno, uno che bazzica a qualsiasi titolo l’ambientino letterario in Italia, non si sia mai imbattuto in Giulio Mozzi. Io il più delle volte l’ho sentito nominare da scrittori di varie generazioni – almeno un paio, dai cinquanta ai trent’anni diciamo – un numero incalcolabile di scrittori, e sempre con un tono trasognato, e sempre più o meno con le parole: “Ah, io devo tutto a Giulio Mozzi”. Quindi se dovessi definirlo con una parola sola, direi talent scout, anzi con termine desueto, mentore. Poi c’è Giulio Mozzi editor, che ha esteso e professionalizzato questa sua vocazione: Sironi dell’epoca d’oro, Einaudi stile libero, ora Marsilio. Poi c’è l’agitatore culturale: con il blog Vibrisse principalmente, dove pubblica divertenti scorci sull’editoria e interventi più seri, e che usa per veicolare le sue azioni di disturbo, i suoi atti di gentilezza a casaccio (una volta, per esempio, in concomitanza con PordenoneLegge, aveva invitato chiunque volesse proporgli un libro, a prenotarsi per un caffè con lui: se in dieci minuti riusciva a convincerlo, lui l’avrebbe letto; un’altra volta, per Natale, aveva organizzato un network di racconti spediti per lettera, una cosa molto pre-internet, o post-internet). Poi c’è il creatore di eteronimi, e non sono solo scrittori (Mariella Prestante) ma anche artisti (il suddetto Dalcielo), con i quali cerca di portare la fiction fuori dalle pagine dei libri. Ma per il sottoscritto, che non lo conosce ahimé, Giulio Mozzi è soprattutto un pazzo: uno che – in un settore dove anche il più impotente redattore della rivista più scalcagnata viene preso d’assalto da postulanti e questuanti e aspiranti, tanto da rendere l’apertura quotidiana dell’email un tuffo nelle sabbie mobili – mette con serenità su internet il suo numero di cellulare. C’è bisogno di aggiungere altro?
Questa è una microrecensione: una recensione, tutt’altro che corta, di un aspetto micro capace di illuminare il macro. Ma per trovare l’appiglio, per gettare l’ancora in un punto preciso, dobbiamo prima navigare un po’ in questo libro. Ecco come lo presenta Mozzi stesso:
Il libro Fiction apparve nel 2001 presso Einaudi. Era un libro sbagliato, costituito di fatto da due libri – il libro delle storie basate su fatti di cronaca, l’antologia di eteronimi – che non potevano stare insieme. (…) i racconti fino a Narratology costituiscono il “primo libro”, i racconti da Narratology in poi costituiscono ciò che resta del “secondo libro”, e Narratology – un pezzo che, per me, costituisce un mistero – se ne sta in mezzo a tenere a bada questi e quelli.
Dunque. Innanzitutto strabiliamo: il fatto che un libro di racconti, e non racconti normali ma sperimentali e scopertamente meta-narrativi, sia stato pubblicato da Einaudi, la dice lunga (su che cosa? Sulla bravura di Mozzi? Sul fatto che i suoi libri precedenti avessero venduto abbastanza? Sulla presenza occulta dei mitici lettori forti? Sullo stato delle patrie lettere appena 16 anni fa? Fate voi); oggi Fiction 2.0 viene edito dalla piccola grande Laurana.
Poi: Mozzi, mi perdoni, ma “sbagliato” lo vada a dire ai libri degli altri, ché ai libri suoi ci pensiamo noi. L’unica cosa che mi sento di sottoscrivere, è che il famoso Narratology “costituisce un mistero”. Un pezzo (visto che lo dice lui, mi permetto anch’io di usare questo termine che di solito si attribuisce a brani musicali e non letterari), un pezzo meta fin dal titolo, che mi sarebbe piaciuto facesse il verso ai pezzi di Parker come Ornithology, ma che, sono costretto a dare ragione al comunicato stampa, “richiama irresistibilmente Scientology”. Infatti Narratology si pone una domanda semplice e immane: come mai la Bibbia – Libro dei libri, libro di libri – a un certo punto finisce? E cerca pure di rispondere.
Ma nei due libri incompatibili che costituiscono Fiction, io ci vedo invece una grande omogeneità. Come in uno specchio, si guardano due declinazioni della finzione: quella oggettiva e quella soggettiva. Nella seconda parte, quella della finzione soggettiva, Mozzi manda avanti gli eteronimi: sono poetesse erotiche, o versificatori talmente scarsi da essere censurati per pietà; sono fotografi che non sanno fotografare e artiste-stiratrici disperate. Alcuni di essi hanno una vita che si situa appena al di qua di quella fisica: Mariella Prestante è stata creduta vera per un po’ prima che Mozzi svelasse il gioco, e l’anno scorso ha preso parte a una manifestazione letteraria; Giovanna Melliconi ha partecipato a varie collettive d’arte contemporanea; Dalcielo figura come autore-curatore di un libro misto di parole e immagini. Solo che, ulteriore capriola meta-fiction, quello che vediamo non sono le loro opere (si salva giusto qualche verso della Prestante) ma certi loro scritti, a proposito di se stessi: lettere di presentazione, o d’addio, invocazioni allo stesso Mozzi (pirandellianamente, ma con intenti opposti). E un corredo di note, commenti, interviste, saggi. Tanto che uno, preso nel vortice, inizia a dubitare di tutto: Massimo Adinolfi, professore universitario di filosofia teoretica e editorialista politico del Mattino, per esempio, sarà vero o l’ha creato Mozzi manipolando un paio di pagine sul web?
La prima parte sembra più semplice: è costituita da pezzi ispirati a fatti o fattacci di cronaca. Gli scritti sono tutti in prima persona; si capisce lo schema finzionale: dare voce a uno dei protagonisti della vicenda – assassino, vittima, altro – che non ha avuto modo di esprimerla, o di esprimerla in maniera compiuta. Assumere su di sé il peso, la responsabilità di spiegare: entrare nella mente del killer; esercizio sempre interessante, certo non inedito. Sennonché, a margine di ogni pezzo, ci sono delle note: articoli di giornale o altri documenti, che dovrebbero costituire il retroterra “fattuale” del pezzo di narrazione in soggettiva. Ecco, il problema è che da questi documenti si deduce che le cose spesso sono andate in maniera leggermente diversa, o completamente diversa, da quanto narrato nel pezzo principale: non nel senso delle opinioni e del punto di vista, proprio nei fatti, anzi nei “fatti”. Fiction al quadrato quindi; fantastico. Bene, ma se uno poi si prende la briga di andare a googlare, come si dice, scopre che anche le note sono finte (più finte? Veramente finte?), che è tutto inventato, il secondo livello non meno del primo: fiction al cubo!
Questa la grandezza di Fiction, questo il senso più profondo del titolo e della frase “mettere in crisi il concetto stesso di fiction”. Questo l’obiettivo – riuscito, checché ne dica lui – di Giulio Mozzi: far ragionare sulla finzione (sulla finzione della verità, e sulla verità della finzione, e sulla finzione della finzione, ecc.) senza ragionare, senza scrivere dei ragionamenti astratti, delle teorie, ma praticando, mettendo in atto quello che succede dopo che tutto è esploso. E veniamo a noi.
Giulio Mozzi scrive: “Io ho sempre amata mia moglie”. O meglio, dovrei dire, Giulio Mozzi è solito scrivere: “Io ho sempre amata mia moglie”. Questo di concordare il participio passato di un tempo composto con il complemento oggetto è un vezzo che ha Mozzi, non lo fa sempre ma spesso. È una forma antica, un tempo prevalente, mentre oggi ci suona strana, anche se non è sbagliata (cfr. l’ormai pop Accademia della Crusca). Ci suona strana, e non riusciamo a fare a meno di notarla, anche alla quindicesima volta che la troviamo in un pezzo. A un certo punto però, sempre nello stesso pezzo, Giulio Mozzi scrive:
Viene sempre il momento, mi diceva l’esperienza, in cui la donna ti guarda e improvvisamente si rende conta
Si rende che? Conta. Si rende conta (la donna). Mozzi lo scrive, e subito dopo – ma questo è mestiere puro, un trucco per farti capire che sì, non è un refuso, volevo proprio dirlo – lo scrive di nuovo:
(…) improvvisamente si rende conta – lo sapeva già, ma improvvisamente si rende conta – che non solo non potrà mai avere un figlio da te (…)
Va bene. Questo invece è proprio sbagliato. Da un punto di vista logico-sintattico: rendersi conto significa rendere conto a se stesso, come un amministratore che rende conto, fa il conto economico e poi lo rende, lo riporta al proprietario, effettua un rendiconto; quindi quel “conto” è sostantivo, non aggettivo, non va concordato con niente. E sbagliato da un punto di vista etimologico-grammaticale: anche a voler forzare il modo di dire, interpretando “conto” come aggettivo, che esiste, anche se non è di grande uso; perché conto, dal latino cognitus, vuol dire appunto conosciuto, noto, famoso: non già conoscente, cosciente, informato (se invece fosse così, si potrebbe dire che la donna “si rende conta”, nel senso che rende, fa se stessa consapevole).
E quindi? Cosa voleva fare Giulio Mozzi con questo sbaglio volontario, consapevole, conto? Magari niente, magari solo sfottere se stesso e le sue manie stilistiche. Magari altro di imperscrutabile, che noi lettori non riusciamo a cogliere; magari invece qualcosa di così ovvio che non riesco a cogliere solo io. Ma non importa, quello che voleva fare lui. Importa quello che ci fa fare a noi: ci fermiamo, un po’ stupiti, a leggere, a rileggere; magari ci alziamo per andare ad aprire google, o addirittura il vocabolario. Ancora una volta, ci fa pensare, ci obbliga a riflettere, ma senza darlo a vedere, senza fare lezioncine. Riflettere con le parole, sulle parole, che poi sono la sostanza di cui siamo fatti, noi eteronimi.
(In collaborazione con Per tutto il resto c’è Facebook)
2 Commenti
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Secondo me “rendersi conto” si può
Ma sono frivolezze. Grazie per l’attenzione.
Mi permetto di dissentire. Conto, inteso come aggettivo, vuol dire anche consapevole, sagace, avveduto. Quindi “rendersi conta” può benissimo voler dire “farsi avveduta”, “assumere consapevolezza”. Per altro, se si volesse davvero essere sottilmente causidici, si potrebbe anche affermare che “rendersi conto” è una sedimentazione di senso neutro maschile e che la declinazione al femminile ha la stessa liceità grammaticale di “avvocata” o “architetta”.