Franz Kafka 100

29 Maggio 2024

A pochi giorni dal centenario della morte (sarà il prossimo 3 giugno) la domanda perché  valga la pena leggere Franz Kafka è inutile. Semplicemente se lo perdessimo non capiremmo non solo il secolo che ci sta alle spalle, ma anche il tempo presente.

Mauro Covacich,  nell’ultimo numero de “La Lettura” suggerisce molte ipotesi. 1. Perché non ci dà risposte; 2. Perché è generoso. 3. Perché è spietato con se stesso 4. Perché è il primo a manifestare la propria riluttanza verso qualsiasi appartenenza. Anni fa, la studiosa Marthe Robert aveva detto perché era radicalmente solo. L’ho sempre trovata una risposta stimolante.

All’osso, Franz Kafka è questo: sospeso in una sorta di terra di nessuno; collocato all’incrocio di molte strade; impossibilitato a intraprenderne una e a lasciare le altre.

Nato a Praga, ebreo di Boemia, dunque cittadino dell’impero austriaco, ma non legato all’Austria, nato e cresciuto in una città, Praga, che è attraversata in quel tempo da un moto di identità  e di nazionalismo, da cui si sente estraneo ed escluso; non si esprime in céco, l’yiddisch non è la sua lingua , bensì il tedesco, e tuttavia in quello stesso tempo impossibilitato o non attratto dal compiere il passo che lo porti dentro la cultura tedesca, anch’essa attraversata da un nazionalismo profondo di cui avverte gli elementi di diffidenza di reciproca. Dunque, anche questa strada dell’assimilazione risulta interdetta. Una condizione che nei suoi Diari descrive così alla data del 29 ottobre 1921: trovarsi “in quella terra di nessuno più sola della solitudine stessa”.

Se la scrittura progressivamente lo porta a cancellare o a ridurre al minimo le tracce anche anagrafiche delle figure intorno a cui sviluppa le sue storie fino a nominarle solo con l’iniziale puntata del nome (da Karl Rossmann di America a K. de Il castello) la vera soglia di non attraversamento è quella che separa ogni suo protagonista non solo all’accesso, ma persino alla comprensione del potere.

Anche per questo forse più del Processo il testo che inizia per davvero quel percorso di progressiva impossibilità di trasformazione che ne segna la parabola letteraria è dato da Nella colonia penale (il racconto è compreso nella raccolta Il messaggio dell’imperatore, Adelphi, pp. 151-184). Testo scritto nell’ottobre 1914 e reso pubblico nel 1919. Un racconto in cui il protagonista è la macchina, come molto spesso avviene nella sua scrittura (Il Processo e Il castello, alla fine non sono la ripetizione di questo protagonismo?).

In quel testo si possono individuare due diversi tipi di registri: uno è di carattere identitario; l’altro riguarda un dato premonitivo.

Comincio da quello identitario.

Nel racconto l’esperienza è narrata dalla parte dell’esploratore che osserva lo stile di comando, le regole della punizione, la gestione del prigioniero come se quell’incontro avvenisse tra due sfere di mondo a cui tutti i protagonisti dicono di appartenere e dove la voce di chi racconta l’esperienza si caratterizza per lo stupore di trovarsi di fronte a un mondo inaspettato, mentre la voce dell’ufficiale di tutto l’apparato punitivo, testimonia della volontà di convincere l’esploratore al fine di acquisirlo alla propria parte.  Il fine del suo racconto, certamente «appassionato», è ottenere non solo il consenso dell’esploratore ma anche la presa in carico da parte di quest’ultimo del sistema di regole di cui quel sistema di punizione è espressione.

L’immagine è quella dell’incontro tra due componenti di un unico mondo, che a lungo si sono reciprocamente ignorati e che ora hanno il problema di riconoscersi.

Nella logica dell’esploratore il problema è quello di far emancipare l’ufficiale e tutto lo stile di vita che egli avverte come estraneo al suo mondo, come residuo di passato. La fine è quella di pensare che la salvezza avverrà se e solo se si taglieranno i ponti con quel mondo. Ovvero non solo se si prenderà congedo da quel luogo e da quelle pratiche, ma se si attraverserà quella “terra di nessuno” che consiste nell’abbandonare l’identità di prima.

Sbaglieremmo a considerare Kafka come schierato. Al centro sta l’incontro che egli matura tra 1911 e 1913 con il mondo Yiddisch e poi nella sua visita (pellegrinaggio?) a Martin Buber. Un incontro cioè con il mondo complesso dell’ortodossia e della rivolta di fine secolo che comunque coincide con il rifiuto del processo emancipativo e di integrazione rappresentato dal modello dell’ebraismo europeo-occidentale. Qui per certi aspetti rientra quella dimensione della solitudine a cui ho accennato prima.

E tuttavia, al lettore odierno, questa dimensione di vissuto arriva con difficoltà. Se anche arriva quella dimensione sembra insistere o alludere alle sfide che una modernità equa incontra nel processo di emancipazione da regole, consuetudini, sistemi che si presentano come pre-moderni. Sfugge completamente, invece, il fascino o l’interesse che Kafka prova con quel mondo di cui intravede pezzi, che sa non essere il suo, ma che allo stesso tempo non sente totalmente alieno. In questo senso l’esploratore solo in parte lo rappresenta.

Ora consideriamo il registro prescrittivo. Un testo in cui la dimensione tra comando e punizione (e dunque sanzione) anticipa di almeno un trentennio la condizione del prigioniero votato alla distruzione che poi sarà canonizzata nel sistema concentrazionario proprio dei totalitarismi, ma anche un testo dove la impossibilità di continuare quel rigido sistema di controllo e di sanzione sul corpo del punito – testimoniato nel racconto dalla distruzione della macchina – non risulta una possibilità di salvezza. Non si salva l’ufficiale che piuttosto scegli di immolarsi a conferma che la sua identità è la macchina marca il corpo del prigioniero, ma nemmeno il soldato e il condannato, coloro che sopravvivono alla macchina riescono a fuoriuscire dal sistema. Il loro destino è quello di rimanere al di qua del confine, di non riuscire fisicamente ad oltrepassare la soglia e a emanciparsi dalla precedente condizione. Semplicemente l’esploratore non concede loro la possibilità della salvezza impedendo loro di saltare sulla barca.

In breve: non c’è salvezza. O, almeno, la salvezza non è prevista.

Resta un problema e qui il carattere prescrittivo per certi aspetti diviene premonitivo. Ovvero se coloro che hanno assistito alla decomposizione del sistema che hanno visto funzionare, possano essere voci testimoniali per l’altra parte del mondo e dunque consentire una trasformazione e una crescita.

La domanda è molto semplice: l’esploratore che vediamo partire e abbandonare coloro che sarebbero disposti a dimettersi da quel sistema di cui hanno consentito il funzionamento, che cosa racconterà una volta tornato a casa? Che domande proporrà a coloro che l’hanno mandato in missione nella colonia penale? Quale i saranno le vie intraprese per eliminare le possibilità di cadere nello stesso sistema?

Non lo sappiamo. Anche in questo sta un profondo e inquietante carattere premonitivo. O, forse, l’indiretta conferma che la liberazione definitiva, (il messia, come scrive nel terzo dei suoi   Quaderni in ottavo) avviene solo quando si determina un cosciente passaggio di liberazione. Né il soldato, né il condannato compiono quel passaggio. Semplicemente si affidano a qualcuno perché li si salvi. Non si liberano. Per questo l’esploratore impedisce loro di salire a bordo. Al massimo sono destinati a rimanere nella «terra di mezzo».

 

TAG: Adelphi Edizioni, Franz Kafka, Marthe Robert, Mauro Covacich, Nella colonia penale
CAT: Letteratura

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