Letteratura

2020, meno libri e più lettori: la pandemia ha insegnato qualcosa agli editori?

26 Dicembre 2020

“… una concezione vitale dell’editoria,
concepita come ponte fra cultura e politica,
capace di infondere vigore all’azione e concretezza alle idee.”
(Anna Ferrando, Cacciatori di libri)

Fra gli effetti del primo, spiazzante, lockdown ce n’è stato almeno uno positivo: ci si è dati la possibilità di pensare che quello che è reale non sia per forza razionale e ci si è chiesti se le cose del mondo che da decenni ormai ci sembravano “senza alternative” debbano necessariamente avere quest’aspetto.

Lo sforzo d’immaginazione iniziale è stato in gran parte soffocato dalla batosta economica e psicologica del secondo round di questa difficile partita, ma siamo alla fine dell’anno ed è tempo di tirare qualche somma e tornare a soffermarsi sulle riflessioni estive.

Fra marzo e maggio 2020 è stata bloccata la produzione libraria, per poi riprendere lentamente e disordinatamente nei mesi successivi dovendo ridefinire il piano di uscite e i tempi dei lanci, con un calo produttivo, nel primo semestre dell’anno, circa del 32%.

Così, mentre si discuteva di come i ritmi di vita fossero troppo veloci e fosse stato un bene fermarsi, mentre si gioiva del rifiorire della natura meno schiacciata dalla presenza umana, è parso giusto chiedersi anche se non valesse la pena, in generale, di pubblicare meno.

Il settore editoriale ha la peculiarità di essere attività imprenditoriale e allo stesso tempo di doversi assumere importanti responsabilità culturali: l’editore è colui che sceglie i libri che vanno letti e fatti circolare, e il lettore si fida del suo giudizio per effettuare i propri acquisti. Fa riflettere sulla portata di questo mestiere Cacciatori di libri, pubblicato recentemente da Franco Angeli, in cui l’autrice Anna Ferrando racconta l’attività editoriale di agenti letterari, editori e traduttori durante il ventennio fascista: riuscire a pubblicare certi testi voleva dire diffondere idee, mantenere un contatto col mondo fuori dall’angusto e sempre più opprimente confine Italiano. Un romanzo di una donna afroamericana sul razzismo e il maschilismo negli Stati Uniti permetteva di ragionare indirettamente sulle imminenti leggi razziali in Italia e, negli anni successivi, pubblicare Se questo è un uomo voleva dire confrontarsi con quello che era appena accaduto.

Certo, esiste anche l’intrattenimento, ma nulla – e sarebbe d’accordo Furio Jesi – è mai neutrale.

Fare l’editore vuol dire selezionare, e questo dovrebbe valere oggi più di ieri: il self-publishing essendo diventato una pratica estremamente diffusa e con un suo largo pubblico, il rischio della censura in questo senso è pressoché inesistente. Mentre sempre più forte è il rumore di fondo in mezzo a cui diventa sempre più difficile isolare un suono: una scelta amplissima di fronte a cui sembra impossibile raccapezzarsi, la famosa notte in cui tutte le vacche sono nere.

Per farci un’idea, possiamo dire che negli anni ’60, quando il libro ancora non vedeva una così ampia concorrenza, si pubblicavano circa 10/15.000 novità l’anno. Erano i tempi dei tascabili, dei prezzi bassi, di Colip e Feltrinelli che riuscivano ad arrivare nelle mani degli operai (anche qui proprio con l’obiettivo, come si diceva prima, di diffondere un pensiero critico). Negli anni ’90 le novità raggiungevano circa le 38.000, mentre nel 2019 siamo arrivati a 78.279, con una tiratura media di 2217.

Restando solo sulla narrativa e varia (intorno ai 27.000 titoli all’anno) ed escludendo invece la scolastica, le edizioni sponsorizzate o quelle locali di minuscoli editori, che non concorrono effettivamente ad ingolfare il mercato, la tiratura scende a una media di 1.461 copie.

 27.000 titoli e una media di 1461 copie: tantissimi libri, diffusi pochissimo.

Dunque, se alcuni (pochi) titoli di autori particolarmente in vista o particolarmente fortunati fanno decine di migliaia di copie, altri si mantengono su numeri talmente bassi (500, 800 copie) da riuscire a malapena a raggiungere le librerie, e quando le raggiungono hanno poche settimane di tempo per “affermarsi” o essere altrimenti tolti dagli scaffali.

Del resto, il pubblico da raggiungere è piuttosto scarno. Infatti in Italia si stima che legga circa il 40% della popolazione e il numero dei cosiddetti lettori forti è intorno ai 4,7 milioni e generano 51,4 milioni di copie di libri acquistati (infatti si considerano lettori forti quelli che leggono almeno 12 libri l’anno). Per fare un confronto, in Francia si pubblicano 104.000 novità l’anno (circa 25.000 in più) ma legge fra l’88% e il 92% della popolazione e i lettori forti sono 5 milioni ma si contano come tali quelli che leggono almeno 20 libri l’anno. Inoltre il pubblico di lingua francese va ben oltre i confini nazionali.

In Italia, insomma, si pubblica molto più di quanto il mercato sia in grado di assorbire. A chi conviene? Perché non pubblicare meno, concentrando gli sforzi su un numero minore di titoli con una tiratura maggiore, con lo scopo di raggiungere più persone?

È vero che negli ultimi anni si sono abbassate di molto le spese di stampa ma è vero anche che per ogni titolo ci sono dei costi fissi redazionali, magari di traduzione, di diritti, poi la comunicazione e tutto il resto. Non si rischia di dover pagare molto meno il lavoro editoriale sul singolo titolo, probabilmente raggiungendo risultati più scadenti (perché, semplificando, il singolo redattore invece di lavorare su 5 titoli con tiratura 10, dovrà lavorare su 10 titoli con tiratura 5) e di disperdere lo sforzo degli uffici stampa, ottenendo quindi in media meno visibilità (o molta per qualche titolo e nessuna per altri)? Non rischia di aumentare così anche il prezzo di copertina, per sostenere quei costi fissi? E soprattutto, non si rischia di far scomparire gli autori in un mare troppo vasto?

Ho chiesto a tre rappresentanti del mondo dell’editoria il loro parere.

Nell’ottica proposta dal direttore editoriale di Feltrinelli, Gianluca Foglia, si pubblica inizialmente con tirature minori per confrontarsi con un numero minore di lettori, e poi ambire eventualmente a un pubblico più vasto. L’idea dunque è di pubblicare quanti più autori possibili per avere un’arena più vasta e poter sperimentare di più, lasciando che i giochi si facciano dopo e che sia il pubblico a selezionare. Al contrario, “si diminuirebbe invece la ricchezza del vivaio e non c’è motivo di indebolire le voci autoriali e editoriali che popolano l’ecosistema: nessuno in nessun campo spera che i praticanti siano pochi”.

Eppure, mi viene da ribattere, se molti di questi autori firmano contratti per poche centinaia di copie non avranno nemmeno la possibilità di confrontarsi con il pubblico: saranno introvabili nelle librerie e individuabili online per lo più da chi già li conosce e già era alla ricerca di quel preciso titolo. Infatti, nelle librerie di catena lo spazio espositivo è a pagamento, quindi difficilmente un libro a cui è stata assegnata una tiratura così bassa potrà ambire a un minimo di visibilità; nelle librerie indipendenti invece non ci sarà certamente spazio per tutti e per il libraio non sarà facile accordare la giusta attenzione a tutte le proposte. Molte probabilmente non gli arriveranno nemmeno all’orecchio. Non solo: anche gli uffici stampa, subissati di titoli, non potranno ottenere recensioni per tutti. Difficilmente, quindi, sarà davvero il pubblico a selezionare.

Inoltre, oggi, con internet e l’enorme diffusione dell’auto-pubblicazione e delle fan-fiction, il rischio di inibire le voci degli infiniti aspiranti scrittori non esiste e anzi, l’editore tuttologo perde sempre più di senso e ne acquista a maggior ragione l’editore con una personalità. Lo dimostrano, del resto, casi come Adelphi o come Iperborea.

Negli anni ’50 Giulio Einaudi rivendicava un’“editoria (…) che invece di andare incontro al gusto del pubblico introduce nella cultura le nuove tendenze della ricerca in ogni campo, letterario artistico scientifico storico sociale, e lavora a fare emergere gli interessi profondi, anche se va contro corrente”: un’editoria, insomma, con una visione del mondo.

Marco Vigevani, direttore della più antica agenzia letteraria italiana, ALI, spiega: “soprattutto alcuni grandi gruppi editoriali pubblicano troppo forse per sostenere i fatturati e quindi le loro strutture di produzione, ma in generale vanno tenuti presenti questi fatti: 1) l’editoria come e più di quasi tutte le cosiddette industrie culturali non è una vera e propria industria, ma è più simile all’artigianato o alla moda, ovvero in assenza di ricerche di mercato affidabili ed essendo la soglia d’ingresso per pubblicare molto bassa, produce una grande quantità di modelli senza sapere prima quali funzioneranno e quali no. Se si sapesse prima quali libri venderanno si eviterebbe probabilmente di stampare gli altri (ma non sarebbe un grosso impoverimento culturale puntare solo sui best-seller?), come se si sapesse con esattezza quali abiti andranno di moda la prossima stagione si produrrebbero solo quelli e non ci sarebbero i saldi, le svendite e compagnia; 2) oggi i librai fanno già delle scelte abbastanza restrittive sui titoli che ordinano e per gli altri c’è ormai il commercio online, sperando che un giorno non lontano sia corretta la grave stortura del monopolio di Amazon; 3) il lavoro editoriale è pagato poco perché i margini dell’editoria in tutto il mondo e da sempre sono bassi, vanno dal 7% sul fatturato  in anni normali al 14% in anni eccezionali. L’unica maniera per aumentare gli stipendi o i compensi sarebbe l’allargamento del mercato dei compratori di libri, che è però una speranza lontana visto che in tutto il mondo i lettori calano ad eccezione forse dei paesi in via di alfabetizzazione.

Insomma, la riduzione del numero dei titoli, oltre che essere difficilmente realizzabile (chi la impone, il governo come in Cina che decide il numero degli ISBN e a chi distribuirli?), non è neppure augurabile perché significherebbe una ulteriore crisi del mercato editoriale e sicuramente non è la panacea ai nostri problemi di operatori dell’editoria”.

Mi vengono in mente la Garamond e la Manuzio del Pendolo di Foucault di Umberto Eco: da una parte si pubblicano solo titoli sponsorizzati o altri che sicuramente venderanno molto; dall’altra solo titoli di qualità. Con i ricavi (quasi) certi dell’una si sostengono i possibili insuccessi dell’altra. Quello che mi sembra ingiustificato, nell’editoria odierna, è ciò che sta in mezzo: titoli che non hanno né un “nome” che possa garantirne il successo, né un tema à la page o una trama particolarmente avvincente che lascino aperta la scommessa di un eventuale, anche se mai scontato successo; e nemmeno, però, un quid, una voce, uno stile, un punto di vista sul mondo che facciano pensare “qui c’è qualcosa, qualcosa che dev’essere detto, qualcosa di importante, qualcosa di bello”.

Andrea Gessner, editore di Nottetempo, riconosce che in editoria il problema dello spreco è enorme e individua il nocciolo della questione della sovrapproduzione nel sistema del reso. In Italia, come in molti altri paesi, le librerie possono ordinare un numero anche alto di copie e poi restituirle tutte senza alcuna penale. Così, davanti a un ordine di 10.000 copie, l’editore deve stamparle e farle distribuire senza poter sapere per diversi mesi o addirittura anni se sono state veramente vendute e rischiando che gliene torni indietro una grossa fetta. Si vive dunque di debito verso il distributore, ci si dimentica delle copie sparse per le librerie del paese e si cammina su un’enorme bolla che potrebbe scoppiare da un momento all’altro. La bolla di ogni libro va coperta con la bolla di un altro libro.

Pur essendo sempre stato per pubblicare meno e con tirature maggiori, Gessner ammette che questa strada è molto più pericolosa: quello che paga è pubblicare di più, due libri al mese non sono sufficienti.

Se il sistema delle rese venisse superato, come ad esempio avviene in Fillandia, invece di ordinare 20 copie il libraio ne comprerebbe 5 e saprebbe che quelle, però, deve riuscire a venderle. Certo, in questo caso si richiederebbe un capitale maggiore per dare inizio a un’impresa e forse qui, aggiungo io, entrerebbe in gioco l’esigenza di aiuti statali alla cultura ben mirati.

Per proseguire la riflessione, suggerisce l’editore, sarà interessante vedere se al calo delle pubblicazioni di quest’anno corrisponde un aumento del volume di titoli circolati: nei prossimi mesi vedremo se pur pubblicando meno si è venduto di più.

Parte della risposta è già arrivata

In occasione di Più libri più liberi, mercoledì 16 alle 11.00 si è tenuta una conferenza online sullo stato dell’editoria. Fra gli invitati, Giovanni Peresson di Aie (che mi ha fornito gran parte dei dati di questo articolo).

Come dicevo all’inizio, il calo segnalato nella prima metà dell’anno era del 32% delle pubblicazioni, con la ripresa del secondo semestre dovrebbe ora aggirarsi sul 18%. A quanto pare, però, dopo il blocco delle novità e la chiusura delle librerie a marzo e aprile, i consumi librari si sono riportati a un trend positivo. C’è stata una crescita dei lettori dal 58% al 61% di ottobre 2019 e maggio 2020 al 61% di ottobre 2020 (nell’ottobre 2018 era 55%): crescita, dunque, che si è mantenuta sui 3 punti percentuali nonostante si sia pubblicato molto meno. A maggio 2020, inoltre, era scesa la lettura del cartaceo dal 53% al 55% (1 milione di persone in meno), ma a ottobre si è tornati al 55% di ottobre 2019.

È inoltre salita la lettura di ebook dal 25% di ottobre 2019 e dal 26% di maggio 2020 al 30% di ottobre 2020, nonostante la riapertura delle librerie: 2,3milioni di persone lo facevano per la prima volta (su questo dato tuttavia potrebbe influire l’approvazione della legge Levi sullo sconto potrebbe però essere dovuto anche alla legge Levi che limita lo sconto al 5%).

Nel periodo fra maggio e ottobre 2020, quindi al di fuori dei periodi di lockdown, sembra siano aumentati i lettori in generale e i lettori forti in particolare. E questo, nonostante il calo delle novità.

L’indagine di Cepell e Aie illustrata durante la conferenza e riferita al mese di ottobre, riporta però dati di comportamento, non di mercato: dovremo quindi aspettare i primi mesi del 2021 per avere conferme in merito.

 

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