6 motivi per votare NO al Referendum, al di là della politica
In occasione di una qualunque consultazione referendaria che vada ad incidere sulla Carta Costituzionale del nostro Paese occorrerebbe, al fine di determinare in noi stessi una scelta fondata sul merito della innovazione proposta, avere la lucidità per approcciarsi ad esso senza lasciarsi invischiare nel tifo da stadio che al giorno d’oggi caratterizza il “dibattito” politico italiano. Bisognerebbe, cioè, evitare di commettere l’errore di determinare la propria scelta elettorale in base alla simpatia o alla contrarietà provata rispetto ad un determinato schieramento politico, e, nel caso di specie, verso i partiti, o più in generale i politici, che propendono per il SI (in teoria quasi tutti, nella pratica molti meno) o per il NO (pochi ed in ordine molto sparso).
Pertanto, vorrei provare ad enucleare 6 ragioni, oggettive e scevre da ogni appartenenza politica, per le quali, personalmente, ritengo che sia opportuno votare NO al Referendum confermativo indetto per i prossimi 20 e 21 settembre.
- Il (trascurabile) risparmio. I sostenitori del SI pongono quasi sempre alla base del loro ragionamento l’elemento economico, fondato sulla minore spesa che evidentemente il taglio di 345 parlamentari comporterà. Dico evidentemente in quanto, come anche un bambino capirebbe, il taglio di cariche elettive (ben) retribuite porta inevitabilmente ad un risparmio per le casse dello Stato. Ma di quanto parliamo concretamente? Gli ultimi bilanci di camera e senato indicano, tra indennità e rimborsi, una spesa di 144,885 milioni di euro per i deputati e 79,386 milioni per i senatori. Il che vuol dire che 230 deputati in meno garantirebbero un risparmio di 52,9 milioni e la rinuncia a 115 senatori significherebbe risparmiare 28,530 milioni, per un totale di 81.430 milioni di euro. Tuttavia a tale importo devono essere detratte le tasse che ogni parlamentare paga e che quindi lo Stato recupera sotto forma di Irpef e addizionali comunali e regionali, e che, come calcolato dall’economista Carlo Cottarelli di recente, ammontano a circa 10 milioni di gettito per i deputati e 6 per i senatori: di conseguenza, il risparmio insito nel taglio dei parlamentari proposto ammonta a 42.7 milioni per i deputati e 22.7 milioni per i senatori, per un totale di 65.4 milioni di euro l’anno. Ora, questa cifra può essere considerata elevata o trascurabile a seconda del punto di vista di ognuno, ma v’è da chiedersi: qual’è il punto d’osservazione oggettivamente corretto? Se si vuole avere una visione complessiva, la risposta corretta non può che essere la spesa pubblica italiana, di cui il risparmio poc’anzi citato rappresenta circa lo 0.007%. Pertanto il tema della minore spesa sembra un elemento davvero troppo debole sul quale fondare una modifica così incisiva della nostra Costituzione.
- La variazione al ribasso del rapporto tra eletti e rappresentati. Essendo che, in una democrazia parlamentare rappresentativa, la sovranità appartiene al popolo che la esercita mediante i propri rappresentanti eletti in Parlamento, ovviamente il taglio di 345 parlamentari inciderà e non di poco sul rapporto tra il numero di cittadini italiani ed il numero dei loro rappresentanti, ed è un dato di fatto che più è alto tale rapporto e meno il popolo sarà rappresentato. In parole povere, un deputato o un senatore rappresenterà una fetta maggiore di territorio e, quindi, di cittadini, ed il problema è proprio questo: ciò implica, infatti, che dovranno essere disegnati collegi elettorali più ampi e che, specie nelle aree periferiche e con una densità abitativa bassa ma con alta estensione territoriale (ma su questo ci ritorneremo), non potrà che aumentare la distanza tra i cittadini ed i suoi rappresentanti parlamentari, con tutto quello che ne consegue in termini di disinteresse verso la politica, astensione elettorale e via dicendo. Non solo. Pensiamo ai tanti amministratori locali che contano sul supporto dei rappresentanti territoriali delle istituzioni centrali dello Stato per riuscire a risolvere le problematiche delle loro comunità, piccole o grandi che siano, che la vita amministrativa ogni giorno (per esperienza personale) ti pone davanti: evidentemente un parlamentare che magari sta a 100 o 150 chilometri di distanza e che è “costretto” a rappresentare le istanze di circa 150 mila individui, perché tale sarà il numero di cittadini che mediamente un eletto dovrà rappresentare se vincerà il SI al Referendum contro i circa 63 mila odierni, non avrà la forza, e forse l’interesse, di portare avanti tutte le istanze che riceverà, lasciando indietro qualcuno piuttosto che altri.
- L’Italia diventerà la democrazia meno rappresentativa d’Europa. Per quanto sopra detto, occorre analizzare la spesso citata media europea del rapporto tra parlamentari e cittadini relativamente agli altri paesi europei. Se è un dato di fatto che il nostro Paese, ad oggi, ha il secondo Parlamento più “popolato” d’Europa, dietro soltanto al Regno Unito dove però la Camera dei Lord ed i suoi componenti (ben 792) hanno uno status particolare (non ricoprono una carica elettiva e non ricevono retribuzione fissa), occorre però avere l’onestà intellettuale di verificare cosa succederà con il taglio dei parlamentari sul quale saremo chiamati a pronunciarci. Ed infatti, se la riforma andrà in porto il Parlamento italiano scenderebbe a 600 seggi (400 a Montecitorio e 200 a Palazzo Madama), superato, oltre che dal già citato Regno Unito (650 membri della House of Commons e 792 Lord), anche da Francia, Germania e Spagna, mentre sarebbe seguito solo dalla Polonia: per citare qualche numero, a Parigi siedono 577 deputati all’Assemblea Nazionale e 348 senatori, a Berlino il Bundestag è composto da 709 membri mentre il Reichstag da 69 (ma la Germania è una Repubblica federale), ed in Spagna invece siedono nel Congreso in 350 e al Senado in 266. Questo, ovviamente, influirebbe sul rapporto parlamentari – elettori, facendo diventare l’Italia, con riferimento alle sole camere “basse” per ragioni di evidenti disomogeneità di funzioni e composizione delle camere “alte” in giro per l’Europa, il paese con la peggiore rappresentatività tra tutti i 28 appartenenti all’Unione Europea, e di gran lunga, visto che dopo di noi ci sarebbe la Spagna, ferma a un deputato ogni 133 mila abitanti.
- La penalizzazione dei territori a macchia di leopardo. Ed infatti, il problema del calo della rappresentatività implicherà la diminuzione dei rappresentanti dei singoli territori, specialmente con riferimento al Senato, eletto su base regionale. Con 196 senatori (quattro sono destinati a essere eletti all’estero) da distribuire nelle venti regioni – confermate le “quote minime” di un senatore in Valle d’Aosta e due in Molise – il taglio sarà pesante dappertutto, ma non ugualmente pesante. Per esempio la Toscana perderà sei senatori (da 18 a 12), con un taglio del 33,3%, percentuale, questa, sotto la media nazionale, che è del 36,5%. Più penalizzato ancora sarà il Friuli Venezia Giulia, che subirà un taglio del 42,9%, stessa percentuale dell’Abruzzo (entrambe le regioni passeranno da 7 a 4 senatori). Male anche la Calabria, con meno 40% (da 10 a 6 senatori). Ma soprattutto a essere penalizzate saranno l’Umbria e la Basilicata, che passeranno da 7 a 3 senatori, per entrambe meno 57,1%. Un abisso paragonato al Trentino Alto Adige, che – per via delle due province autonome alle quali è stato garantito un numero uguale di senatori – perderà in totale appena un seggio, scontando una diminuzione della rappresentanza parecchio sotto la media nazionale: meno 14,3%. Il risultato di questa distribuzione è la fotografia di un’Italia diseguale, dove in Trentino Alto Adige in media ci sarà un seggio elettivo per il senato ogni 171mila abitanti e, ad esempio, in Sardegna un seggio elettivo ogni 328mila abitanti, quasi il doppio.
- Lavori parlamentari più difficili e non più efficienti. Quanto sopra rilevato potrebbe sembrare un giusto prezzo da pagare se la riforma de qua ci restituisse un Parlamento più efficiente, altro argomento forte dei sostenitori del SI, che invocano l’equazione meno parlamentari = lavori più spediti. Volendo tralasciare il fatto che non è assolutamente dimostrato che se un Parlamento produce più atti legislativi sia per forza più efficiente, si otterrebbe in ogni caso una migliore efficienza con la sforbiciata in questione?In realtà oggi – anche prima dell’emergenza COVID che ha esasperato il problema – l’attività parlamentare è impostata secondo i ritmi del governo: Decreti legge da esaminare entro la scadenza e questioni di fiducia sono la regola. Il problema della sottomissione del potere legislativo alle esigenze di quello esecutivo, di vecchia data, non sarà per niente scalfito dalla diminuzione del numero dei parlamentari e soprattutto perché questa viene fatta con un chiaro intento anti parlamentare, visto che si tratta di rinunciare a un costo considerato improduttivo. Nella realtà la camera e il senato, condannati da un bicameralismo paritario – non oggetto della riforma in discorso e che se superato, a mio avviso, potrebbe eccome portare ad ottenere un Parlamento molto più efficiente – possono comunque lavorare in sincrono, portando avanti contemporaneamente progetti di legge diversi. I lavori delle commissioni poi non saranno per nulla facilitati, visto che i regolamenti parlamentari, sui quali ad oggi non risulta esserci un accordo circa la loro revisione (che prevede peraltro un iter di modifica a maggioranza assoluta e a voto segreto), prevedono che possano andare avanti con un terzo dei commissari presenti: il che significa nove deputati o cinque senatori, ossia un numero troppo basso per un serio lavoro redigente; inoltre, ciò andrà a discapito delle formazioni politiche di più piccola entità in quanto esse avranno enormi difficoltà ad entrare in tutte le attuali 14 commissioni e nelle giunte, e persino a formare un gruppo parlamentare (20 deputati e 10 senatori). Oltre a tutto ciò, dobbiamo considerare anche che i parlamentari, vuoi per la loro storia personale di ognuno di essi e per la loro formazione professionale, non possono essere considerati tuttologi che senza battere ciglio possano partecipare ad un numero indistinto di commissioni sulle tematiche più svariate, magari con orari coincidenti, e pretendere anche che facciano ciò con un certo grado di diligenza ed approfondimento. D’altronde se il numero di parlamentari ad oggi vigente era stato stabilito nel numero di 945 dalla Legge costituzionale n. 2 del 1963, che “bloccò” il numero degli stessi inizialmente configurato come variabile dalla Costituente, ciò non era avvenuto per caso: infatti, come riportato da una interessante analisi della Fondazione Luigi Einaudi, l’esigenza dell’aumento del numero dei parlamentari era stata condivisa da ogni gruppo politico, proprio per l’esigenza di assicurare una adeguata presenza, ed al tempo stesso competente, nelle varie commissioni.
- L’illogicità del taglio sui rappresentanti degli italiani all’estero. Mi si potrà dire che il taglio della rappresentanza parlamentare dei nostri connazionali residenti in giro per il mondo non sarà un problema esiziale, ma rappresenta, in ogni caso, un altro lato oggettivamente debole della riforma in discorso. Ed infatti, l’elezione dei parlamentari nelle varie circoscrizioni estere, disciplinata dalla Legge n. 459 del 2001, prevede che tali deputati e senatori siano scelti con il sistema proporzionale e l’indicazione della preferenza. Con riferimento a ciò, ad oggi la circoscrizione estera più grande è quella europea (oltre due milioni e mezzo di residenti iscritti all’Aire) con a seguire quella dell’America meridionale (un milione e mezzo) e le assai più piccole circoscrizioni dell’America centro settentrionale, dell’Africa, dell’Asia e dell’Oceania. Non avendo avuto il coraggio, o la forza politica, di rinunciare definitivamente a tale forma di rappresentanza, che poteva essere una scelta legittima ed anche, a mio avviso, fondata, è stata tagliata anche la delegazione estera, solo percentualmente un po’ meno: si passa infatti da 12 a 6 deputati e da 8 a 4 senatori. Il risultato di tale sforbiciata è che il deputato eletto nella circoscrizione più piccola (Africa, Asia, Oceania) sarà tre volte più rappresentativo di quello eletto nella circoscrizione più grande (Europa), costituendo ciò un palese elemento di illogicità. Ma il vero elemento che grida vendetta è il fatto che i senatori eletti all’estero, essendo solo quattro, gioco forza saranno uno per circoscrizione, che sia una circoscrizione grandissima o piccolissima: avremo così un senatore in rappresentanza dell’Europa intera, con tutto quello che significa in termini di campagna elettorale (impossibile e/o dispendiosissima) e rappresentanza ed inoltre il conseguente tradimento del principio proporzionale stabilito dalla legge attualmente vigente: tutti i collegi senatoriali delle circoscrizioni estero saranno de facto dei collegi uninominali, ove il seggio andrà a chi prende un voto in più e a lui soltanto.
Dalla lettura dei motivi sopra elencati emerge un elemento: al di là di ogni considerazione politica e partitica, la riforma approvata dal Parlamento e che sarà sottoposta al voto popolare è sicuramente una riforma incompleta, allo stato dei fatti incongruente e, a mio parere, giuridicamente attaccabile sotto il profilo della costituzionalità della stessa, in quanto prevista senza correttivi che ne possano aggiustare le storture rappresentative che violano il principio di eguaglianza, al di là del fatto che poi questi possano essere elaborati sulla base di un (non facile e non scontato) accordo politico: se gli italiani ragioneranno in maniera pragmatica ed oggettiva, senza farsi trascinare nelle solite ondate di tifo pro o contro qualcuno, sono certo che tale realtà emergerà anche dai risultati delle urne.
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