Jobs Act: positivo o negativo?
Parlare di Jobs Act e condurre un primo bilancio equilibrato sul tema non è cosa semplice: per quanto finora ho letto, il problema di fondo è l’incapacità di analizzare la riforma nel suo complesso, senza farsi influenzare da retaggi culturali pregressi, ma si parte dall’assunto “mi piace” o “non mi piace” e si continua perorando la propria causa, mettendo in evidenza i punti a sostegno di essa e omettendo colpevolmente gli altri.
Partiamo da un primo punto fermo: che una riforma del lavoro fosse necessaria è innegabile: da una parte il Jobs Act di Matteo Renzi centra l’obiettivo di dare tutele minime e facilitare l’accesso occupazionale di quei giovani dalla mia generazione in avanti che non hanno mai avuto altro che briciole; dall’altro che si veda il nero (che senza dubbio c’è) troppo nero.
Mi spiego meglio: le criticità evidenziate esistono indubbiamente, ma per la parte “in uscita”, riguardante specialmente i lavoratori più “grandi” che lavorano nelle aziende grandi. Da qui si spiega la mobilitazione dei Sindacati.
Ricordiamo però che in Italia la stragrande maggioranza delle aziende sono PMI.
Che significa? Significa che le note dolenti per loro sono molto meno dolenti, per fortuna, a causa proprio della loro specifica dimensione aziendale, in cui il dipendente ha un valore di capitale formativo molto maggiore rispetto a una multinazionale, o un’impresa di grandi dimensioni.
Noto che nessuno lo dice nè prende nemmeno in considerazione questo fatto. Pur non essendo quantificabile in una somma definita questo capitale formativo incide non poco nella decisione dell’imprenditore sul licenziamento del dipendente.
Passiamo ora alle note dolenti: la parte riguardante i licenziamenti collettivi e il possibile arbitrario demansionamento del lavoratore “obsoleto” è profondamente sbagliata. Tuttavia non dimentichiamo che rispetto alla prima versione il demansionamento non sarà più “selvaggio” come nella prima versione, ma limitato ad alcuni casi e sempre in caso di ristrutturazione aziendale. Inoltre la retribuzione non potrà essere ridotta.
Occorre assolutamente rivedere la parte dei licenziamenti collettivi, invece. In particolare per le grandi imprese, su cui è evidentemente tarata questa riforma.
Ben venga invece il Jobs Act per noi giovani che di diritti e tutele non ne abbiamo mai visti, ma ne abbiamo solo sentito parlare: noi preferiamo un “uovo” certo oggi piuttosto che una “chimera-gallina” domani.
“L’uovo” consiste in: sgravi contributivi alle imprese che ci assumono per tre anni, maternità, malattia e possibilità di ottenere un mutuo per tutti. E dite poco?
Cesare Damiano, Presidente della Commissione Lavoro, ai cronisti diceva che il problema era quello della coperta troppo corta: nel momento in cui si riesce a far rientrare la tensione nel Partito Democratico, ecco che nuova tensione spunta con il Nuovo Centrodestra. Il tema, come sempre, è quello dell’articolo 18. “In verità, non è facile capire perché questo emendamento sull’articolo 18 provochi così tante fibrillazioni, visto che le modifiche che comporta sono minime, e infatti l’accordo tra Pd e Ncd sembra vicinissimo. Attraverso l’emendamento, il diritto al reintegro nel posto di lavoro sarà limitato ai licenziamenti discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato. Mentre per i licenziamenti economici viene esclusa la possibilità del reintegro, viene invece previsto un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio. Per l’impugnazione del licenziamento verranno previsti tempi certi“.
Si è anche previsto per le aziende che dopo i tre anni volessero lasciare a casa il dipendente che queste debbano ridare indietro allo Stato in toto gli sgravi contributivi ottenuti, con effetto dissuasivo degli “imprenditori furbetti”. Questi ultimi potranno sì licenziare ma non dopo tre anni, o vedranno vanificato l’intento di ottenere unicamente gli sgravi.
Nel frattempo il lavoratore avrà maturato un’esperienza lavorativa che potrà vantare nel c.v. quando sarà ri-immesso nel circolo del mercato del lavoro con nuove competenze ed esperienze.
Una cosa appare chiara: il “Sogno del posto fisso a vita” nel settore privato per il futuro rimarrà un ricordo.
Ai nostalgici del “si stava meglio quando si stava peggio” mi sentirei di ricordare sommessamente che data la situazione globale mondiale, non addosserei interamente al Jobs Act la “colpa” della fine del sogno del posto fisso: al Jobs Act addosserei piuttosto la consapevolezza che il mondo del lavoro è cambiato e la volontà di dare una risposta alla crisi occupazionale.
Sono i tempi e i modi del lavoro ad essere cambiati e il Jobs Act ne sancisce la presa di coscienza e a questi si adatta, non cambia perciò una realtà attuale, ma prende atto del cambiamento epocale del mondo del lavoro.
Questa riforma toglie ai lavoratori più tutelati e aggiunge diritti e tutele minimi alle categorie che non ne avevano mai avuti prima: io la vedo come “Robin Hood Act“: toglie ai lavoratori più tutelati per dare ai non tutelati.
Sicuramente cambia la prospettiva: l’impianto passa dall’ottica del lavoratore a quella dell’imprenditore.
Rimarrà da vedere se le tutele previste per il reinserimento, Naspi e compagnia cantante, insomma, saranno strumenti adeguati per favorire la flessibilità bidirezionale nel mondo del lavoro dei lavoratori licenziati.
Un commento
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Vorrei puntualizzare che:
– È vero che il demansionamento si può fare a parità di retribuzione, ma sono state inserite altre norme che consentono accordi tra dipendenti e datori di lavoro per l’abbassamento dei salari
-nessuna banca farà mai un mutuo ad un giovane a tutele crescenti
– ferie, permessi e compagnia bella non saranno chiesti cosi spensieratamente dai lavoratori, potendo essere licenziati a poco
prezzo dall’oggi al domani
– non è vero che se l’imprenditore licenzia dopo tre anni deve ripagare gli sgravi fiscali ricevuti