#WhereisGiulio? Alla ricerca di un posto lontano dai luoghi comuni
A volte servono i nomi e i cognomi. E non solo perché l’empatia, per accendersi, ha bisogno dei volti, delle storie individuali, uniche e irrepetibili e per questo così prossime e comuni.
A volte si ha bisogno dei nomi e dei cognomi perché ci mancano le categorie per alludere al gruppo di appartenenza.
Giulio Regeni apparteneva a una generazione che sfugge al dibattito pubblico e ne scompagina la sintassi. Perché ancora non si trova un’alternativa che consenta di smarcarsi dai soliti dualismi: posto fisso vs odissea precaria; ricerca scientifica vs vita vera; mutuo per tinello e posto auto vs nomadismo idealista e irresponsabile.
Un giovane uomo, Giulio, il cui mestiere nel linguaggio comune rimane sospeso tra giornalismo, vocazione umanitaria, ricerca accademica, impegno e sventatezza.
Non lo si riesce a raccontare, perché la sua storia è quella di un quasi trentenne il cui profilo è denso e composito, eppure mobile e in divenire. Dottorando a Cambridge, reporter, ricercatore, poliglotta, esperto di lotte sindacali e per questo guardato con scetticismo dal mondo accademico e con sospetto da polizie e servizi segreti.
Giulio è l’espressione di una generazione che, forse suo malgrado, ha accettato la sfida della flessibilità, della pluralità e della complessità intestandosela fino in fondo, scardinando i modelli, mischiando le bibliografie con gli scioperi, l’inglese con l’arabo, l’economia con le rivolte.
Giulio è nato a Fiumicello, in Friuli, a diciassette anni è volato in New Mexico, da lì è passato per i corridoi di Oxford, fino alle vie del Cairo. Non so se Giulio avesse un posto che chiamava “casa”: di certo il suo sguardo abbracciava il mondo e la sua storia mi ricorda quelle di tanti amici che vivono sparpagliati un po’ qua e un po’ là.
Vite curiose, di esplorazioni e scoperte. Eppure faticose perché alle prese con un transito che continuamente ridefinisce il senso e il perimetro dell’appartenenza. Per questo, l’espressione ecumenica “cittadino del mondo” suona stonata: inadatta a cogliere il senso d’incertezza, spaesamento e vertigine che si prova quando le nostre radici coincidono con il nostro orizzonte.
È significativa allora, e per certi verso paradossale, la metamorfosi dell’hashtag che in poche ore da #WhereisGiulio? è diventato #GiulioisEverywhere. Giulio non si trovava e Giulio non si trova – ancora oggi – in tanti racconti ufficiali, velati di quel rimprovero che sempre si rivolge a chi non è stato tranquillo a casa, senza star lì ad affannarsi troppo per pezzi di mondo che soffrono e scalpitano.
Poi il corpo di Giulio è stato trovato, gli si è potuto dare un posto, una precisa collocazione. Ed è stato proprio allora che l’emozione della rete è virata sul #GiulioisEverywhere. Solo ora che la vita perturbante di Giulio – sospesa tra le biblioteche e le piazze, tra Fiumicello e il New Mexico – è finita, ci sentiamo di dire che Giulio è ovunque.
Prima no, prima quella vita destava un poco di sospetto: l’hashtag #WhereisGiulio? suona come una metafora di una biografia dai contorni ambigui, fuori posto perché alle prese con un percorso poco ortodosso, sfuggente perché distante dal luogo comune.
Ora ci sentiamo di dire che Giulio è ovunque e va bene così, se serve a ricordarlo e a chiedere verità e giustizia. Noi però mettiamoci in moto e creiamo parole nuove per non sentirci in scacco tra l’evanescenza dell’ovunque e l’invisibilità del “in nessun luogo”.
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