UE

Italia 3° contribuente Eu. Ultimo per capacità di influire

17 Maggio 2018

Italia, se ci sei batti un colpo. A Bruxelles, l’odiata Bruxelles degli “eurocrati”, lunedì 14 maggio la Commissione europea ha presentato al Consiglio europeo la proposta di bilancio pluriennale per il periodo 2021-2027. Il documento proposto dall’esecutivo ai governi nazionali sarà la base per avviare la discussione e la trattativa, già a partire dalla prossima riunione del Consiglio europeo in programma il 28 e il 29 giugno. A ricevere ed esaminare la proposta nel posto riservato al governo italiano era seduto Maurizio Massari, ambasciatore rappresentante permanente del ministero degli Esteri presso l’Unione Europea.

Nulla di strano, si potrebbe dire. Del resto tra i compiti della rappresentanza italiana a Bruxelles c’è letteralmente, quello di “condurre i negoziati in sede di Consiglio europeo, curare le relazioni con le altre istituzioni, in particolare il Parlamento Europeo e la Commissione Europea con l’obiettivo principale di promuovere e difendere le posizioni italiane nell’ambito dell’Unione Europea, in particolare, ma non solo, nelle istanze preparatorie delle riunioni del Consiglio dei Ministri”.

Tuttavia, l’assenza di rappresentanti politici, in particolare del governo, a presidiare i dossier e a difendere le posizioni italiane solleva un problema di «indiscutibile debolezza percepita», afferma Marcello Missaglia, fondatore di un’azienda che offre servizi di consulenza legale e progettazione a livello comunitario. L’esempio più drammatico, spiega Missaglia, è stato il trasferimento dell’agenzia europea del farmaco dalla Gran Bretagna. «La settimana di apertura delle buste, qui a Bruxelles non c’era nessuno. Nessun politico italiano. Non il presidente della Lombardia, non il sindaco di Milano, non un ministro. E come si poteva ragionevolmente pretendere di vincere quella partita? È vero che Milano fosse in vantaggio rispetto ad Amsterdam, ma l’incertezza del clima politico italiano da sempre alimenta la diffidenza dei funzionari e degli alti dirigenti europei. Il nostro rimane un paese ritenuto poco affidabile. Vuole la verità? Qui tutti avevano capito benissimo come sarebbero andate le elezioni politiche in Italia e hanno preferito andare sul sicuro, Amsterdam, anche se era obiettivamente più indietro».

Sul bilancio pluriennale il rischio è ancora maggiore e può essere riassunto così: l’Italia non è capace di mettere becco dove mette i soldi. Dopo l’uscita della Gran Bretagna, l’Italia sarà il terzo contribuente netto dell’Unione, dietro a Germania e Francia. La squadra della rappresentanza italiana è preparatissima e sa fare il suo mestiere, ammettono i funzionari che lavorano in Parlamento o al Comitato delle Regioni, ma non può avere il peso politico di un ministro o comunque di un rappresentante eletto. Ad aprile 2017 il ministro Padoan aveva inviato alla Commissione una lettera con le quattro priorità italiane per il prossimo bilancio: flussi migratori, coesione economica sociale e territoriale, istruzione e mercato unico, e crescita sostenibile. Anche il ministro Claudio De Vincenti, spiegano al Comitato delle Regioni, ha prodotto una propria elaborazione, per altro condivisa con le associazioni territoriali e con l’Anci. Insieme i due documenti pur non avendo la forza della visione della Francia di Macron, rendevano abbastanza chiara e intelligibile la posizione italiana.

«Come sempre il nostro limite è la creazione di alleanze, il che significa che non si ha alcuna influenza se non si creano reti e cordate», afferma un funzionario. I motivi di questo limite sono noti a chiunque si occupi di politica in Italia: la proiezione tutta interna del dibattito politico, l’eccesso di frammentazione delle classi dirigenti, uno stato semi permanente di campagna elettorale, le incertezze sulla durata di qualsiasi governo.

A febbraio, quando la Commissione europea ha fatto conoscere gli scenari possibili sul prossimo bilancio pluriennale, gran parte degli stati membri si è attivata perché la proposta si avvicinasse il più possibile alle loro aspettative. Non l’Italia, dove l’intero paese era proiettato verso le elezioni generali del 4 marzo come se si fosse trattato dell’evento in grado di cambiare il mondo o quanto meno di “fare la storia” come ha ammesso Luigi Di Maio in un moto di rara modestia. E mentre tutti noi seguivamo i nostri cari leader azzannarsi a colpi di tweet, battute e in avvincenti dibattiti in tv, la diplomazia francese tempestava di telefonate, email e messaggi i funzionari della Commissione europea per tentare di arginare la riduzione dei finanziamenti sulla PAC, la politica agricola comune.

In alcuni casi, si rischia addirittura il paradosso. La vicenda del taglio ai contributi ai paesi dell’Est è il classico esempio di cosa succede quando si lanciano delle proposte avendo nel mirino solo l’opinione pubblica nazionale e mancano la volontà e forse anche gli strumenti per affrontare seriamente le questioni. L’Italia è stata tra i paesi che hanno chiesto di punire Polonia e Ungheria per la loro resistenza a compartecipare alla distribuzione dei migranti e per la mancanza di regole pienamente democratiche: la misura principale chiesta dal nostro governo è stata il taglio dei fondi strutturali a questi paesi. Bene, nella batteria di misure che potrebbero colpire questi paesi la Commissione prevede la redistribuzione dei fondi da est a ovest, che sta procedendo ma bisognerà seguire attentamente (perché ci sono soglie, indicatori e una miriade di parametri che spostati un centimetro più in alto o più in basso fanno tutta la differenza tra chi vince e chi perde. C’è poi la condizionalità rispetto dello stato di diritto. La Commissione proporrà, infatti, un regolamento – collegato al regolamento finanziario che costituirà una pre condizione per poter accedere a qualsiasi fondo erogato dall’Unione europea. L’indipendenza del sistema giudiziario diventerà un requisito necessario. Come fa la Commissione a verificarlo? Servirà un set di indicatori per verificare la conformità, l’efficienza e l’efficacia del sistema giudiziario: tradotto, i tempi della giustizia diventeranno un parametro importante di questo set. Come è messa l’Italia in quanto a efficacia del sistema giudiziario? Se per tutelare un contratto in Italia servono circa 1.200 giorni, contro i meno di 400 di Germania, Gran Bretagna e Francia, come faremo a sostenere di essere in ordine e quindi di poter accedere alle risorse messe a disposizione dall’Europa?

Altro capitolo riguarda la partita dei fondi di coesione. Nel settennato scorso 2014-2020 hanno avuto un valore di circa 42 miliardi per l’Italia. La Commissione ha inizialmente proposto due scenari con tagli rispettivamente di 124 o di 95 miliardi. Nel documento varato il 2 maggio e presentato lunedì scorso al Consiglio europeo ha stemperato la previsione, riducendo i tagli a 38 miliardi di euro. La spesa prevista nel settennato per sostenere le regioni deboli, tra cui tutto il Mezzogiorno italiano e le isole, passa da 373 a 330 miliardi di euro. Un risultato però raggiunto grazie alla caparbietà di paesi come la Spagna o la Grecia, non certo per merito dell’Italia.

Ma ci sono anche note positive, come sottolinea il direttore generale della Camera di Commercio Belgo-Italiana, Matteo Lazzarini: «La proposta di incrementare i finanziamenti a una serie di programmi relativi a cultura, ricerca, educazione e innovazione», afferma Lazzarini, «non potrà che aumentare la competitività dell’Italia a tutto vantaggio sia delle università sia delle piccole e medie imprese». I fondi a gestione diretta, cioè gestiti dalla Commissione e non dagli stati o dalle amministrazioni locali, riguardano tra gli altri i programmi Cosme, Horizon 2020, Erasmus+, Europa Creativa, in cui il sistema Italia nel settennato che si conclude nel 2020 ha dimostrato un’ottima dinamicità. In base ai dati pubblici al 2016 sono stati 3.771 i beneficiari italiani di questi programmi, dopo il Regno Unito, il numero più alto in assoluto in tutta l’Unione europea, che partecipano a progetti per un valore stimato di 4 miliardi 358 milioni 792 mila e rotti euro. La distribuzione però è tutt’altro che omogenea. I soggetti che riescono ad accedere ai finanziamenti diretti della Commissione restano prevalentemente nel settentrione, con il nordovest in grado di prendere parte al 38,36 per cento dei progetti o degli appalti e il nordest il 19,88. Bene anche le regioni centrali capaci di partecipare a 1.297 proposte, cioè il 30,02 per cento, mentre il sud e le isole registrano una partecipazione di sole 507 proposte – per fare un confronto, solo dalla Lombardia ne sono arrivate 1.157 – pari all’11,74 per cento del totale.

Inoltre, stando ai dati pubblicati sul portale dedicato alla trasparenza finanziaria, la partecipazione delle università italiane ai bandi di gara è incoraggiante, «in alcuni casi perfino sorprendente», dice Lazzarini. «Dobbiamo superare il falso mito della scarsa partecipazione del nostro Paese e in particolare del mondo accademico ai meccanismi di finanziamento europeo». Certo, permangono anche in questo campo differenze enormi: Milano emerge con sempre maggiore forza come il polo trainante dell’innovazione e afferma la propria dinamicità con 119 bandi (Politecnico 64, Università di Milano 33 e Cattolica 22) sul totale di 842 a cui hanno partecipato le università italiane. Tra le prime dodici per numero di progetti presentati, solo Napoli (22 bandi) figura tra quelle del sud. Tutte le altre sono al centro o al nord.

Ma anche questi dati dimostrano l’assenza di una linea politica precisa italiana rispetto alle risorse comunitarie. Sono ottime notizie per le singole università, per gli enti e le associazioni e le imprese che riescono ad aggiudicarsi appalti e a farsi finanziare progetti, spesso innovativi, ma restano attività di singoli soggetti, non coordinati da indirizzi comuni e quindi, rischiano di vedere ridotto il loro impatto potenziale.

Il punto, spiegano al Comitato delle Regioni, non riguarda solo le voci di bilancio, ma anche i regolamenti attuativi che indicano le modalità con cui possono essere spesi i soldi. Possibile che l’Italia, contribuente netto da un lato e beneficiario di quote importanti di finanziamenti per la coesione e il territorio non abbia nulla da dire in merito? Francesi, spagnoli, tedeschi e molti altri paesi presidiano i regolamenti in modo molto attento. «Noi abbiamo votato a marzo e l’instabilità politica ha un prezzo», afferma una fonte del CoR.

Un prezzo che pagheremo tutti, visto che il bilancio pluriennale si prospetta, con l’uscita della Gran Bretagna, un bilancio poco ambizioso, ma implica comunque un aumento della partecipazione economica dei paesi membri. Una ragione in più per essere presenti quando e dove si decide come vengono utilizzati i soldi dei contribuenti.

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