UE
Brexit, un’Europa unita nell’arroganza
Regno Unito fuori, o Regno Unito dentro l’Unione europea? Il 23 giugno gli inglesi voteranno un referendum molto particolare che deciderà una volta per tutte da che parte, loro, vogliono stare. Dopo una maratona di negoziati di 40 ore, il premier conservatore David Cameron – che non c’entra nulla con il regista di Avatar quindi rimettete nel sacchetto quegli occhialetti 3D – ha portato a casa l’accordo con il quale «ora potrò raccomandare di votare sì al referendum», ossia il restare nella Ue. La faticaccia di Cameron non è detto che porti i frutti da lui sperati, anche perché i sondaggi pre-accordo davano i fautori del no, quindi i favorevoli al Brexit, in vantaggio di poco, ma comunque sia in vantaggio.
Ma quali sono le caratteristiche che hanno permesso al Regno Unito di avere un peso contrattuale così forte, cosa che, al contrario, molti altri Paesi europei – come l’Italia – non hanno. Ne abbiamo parlato con Domenico Giovinazzo, corrispondente di Eunews, testata specializzata in questioni europee.
Il Regno Unito che cos’ha in più degli altri Paesi europei?
«Il suo peso politico è indubbiamente maggiore rispetto ad altri Stati membri e questo dipende da diversi fattori. Londra è una potenza economica, industriale, militare, ha il Commonwealth, è nel G7, ha un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza Onu, gode di un rapporto privilegiato con Washington – che si consulta con l’alleato britannico, forse l’unico trattato davvero da pari, prima di ogni decisione importante – ed è uno dei principali contribuenti al bilancio della Ue. Sono tutti fattori che consentono al Regno Unito di farsi sentire di più rispetto a molti altri Paesi. Questo vale a livello planetario come all’interno dell’Unione europea».
Quindi ogni membro di peso della Ue potrebbe adottare la stessa arroganza inglese. Prendiamo la Francia. Anch’essa ha un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza Onu; non ha il Commonwealth, ma ha una sorta di sistema di ex colonie con le quali intrattiene rapporti molto stretti, e dove ha ancora molta influenza; è forte economicamente; gode di un rapporto privilegiato con la Germania – altro membro di peso nella Ue, leader in pectore dell’Unione stessa – e a livello internazionale ha un ruolo di prima linea.
Dunque, il Regno Unito non è l’unico – sulla carta – ad avere potere di rinegoziazione. Potrebbero farlo anche altri come, appunto, Francia in primis e Germania poi, ma allora che senso avrebbe?
«Hai pienamente ragione, tant’è che il rischio che molti hanno segnalato è che il negoziato dell’Unione europea con il Regno Unito aprisse la strada a future rivendicazioni da parte di altri. È una eventualità che rimane aperta. Certo è che non tutti avrebbero il peso britannico nell’avanzare richieste. Vedo difficile, ad esempio, che un Paese come la Polonia, uno dei principali beneficiari dei fondi europei, abbia la forza di tirare la corda come ha fatto Londra, pur con l’attuale governo che ha posizioni più euroscettiche dell’esecutivo Cameron.
Riguardo a Francia e Germania, sono Paesi che invece pesano come il Regno Unito, e non a caso Parigi si permette di sforare il parametro del 3% nel rapporto deficit/Pil, e la Germania ha finora ricevuto solo blandi richiami per il suo eccesso di surplus commerciale, anche questa una violazione delle regole europee di bilancio. A differenza del Regno Unito, però, sia francesi che tedeschi parlano di approfondire l’integrazione europea».
E l’Italia? Avrebbe abbastanza peso nell’eventualità? Forse un “nì”?
«Per l’Italia il discorso è articolato. Ha le carte in regola per stare nel club dei grandi, e di fatto ci sta essendo nel G7. Però, dopo Aldo Moro, nessun presidente del Consiglio ha più avuto come unica barra la tutela degli interessi nazionali. Li hanno perseguiti, ma sempre stando attenti a non infastidire i governi amici, almeno quelli dei Paesi più forti. Nei confronti della Ue, in tempi recenti abbiamo avuto esecutivi che hanno applicato alla lettera le ricette castranti dell’austerità. La vulgata parlava di un’autorevolezza riacquistata dall’Italia, ma di fatto era un paese che obbediva agli ordini a capo chino. Adesso c’è Renzi che fa la voce grossa. Chiede meno rigore e più flessibilità. Ma più che l’interesse nazionale, mi pare, è quello di ricerca del consenso elettorale alla base delle sue sparate contro i “grigi burocrati” di Bruxelles. Tanto è vero che usa la flessibilità per togliere le tasse sulla prima casa a tutti – in un paese con circa l’80% di famiglie proprietarie sono tanti voti – per estendere il bonus di 80 euro alle forze dell’ordine (altro importante bacino elettorale) e per dare un una tantum di 500 euro ai neo diciottenni, che voteranno per la prima volta. Ridurre le tasse sul lavoro, mettendo più soldi in tasca ai lavoratori e non riducendo solo i costi per le imprese, funzionerebbe meglio per far ripartire i consumi e creare crescita».
In pratica – riassumendo – per quanto riguarda l’Italia il problema è che non tuteliamo i nostri interessi nazionali e quindi siamo poco credibili per due motivi:
1. abbiamo chinato troppo il capo nei confronti di altri prima
2. alziamo la voce per il consenso elettorale
«No. L’Italia ha interessi nazionali e li tutela. Solitamente sta ben attenta, però, a non anteporli troppo a quelli dei propri alleati. Non è poco credibile. Anzi, il presidente del Consiglio ai Vertici europei è credibilissimo e ha autorevolezza, perché ha una maggioranza finora stabile in Parlamento e consenso popolare. Proprio per questo cerca di mantenerlo, ma è sotto scacco dalla Commissione europea, la quale ha il dito sul grilletto. È pronta a sparare la sua sentenza sulla Legge di stabilità – decidendo se concedere o no la flessibilità richiesta per le misure di cui sopra – proprio a maggio, cioè a ridosso delle amministrative che per Renzi sono un test importante».
Tornando al Regno Unito, che cosa ci guadagna uscendo dall’Unione?
«Il Regno unito non ha nulla da guadagnare dalla Brexit. Il massimo che può ottenere è ciò che c’è scritto nell’accordo firmato al Consiglio europeo la scorsa settimana: nessun obbligo di approfondire i vincoli con l’Ue; non entrerà mai nell’Euro; avrà la libertà di negare per sette anni [Londra di anni ne aveva chiesti ben 13 anni, ndr] misure di welfare ai cittadini di altri Paesi membri [in formula “una tantum” quindi senza possibilità di rinnovo e vincolata al via libera del Parlamento europeo, ndr]; disporrà di un meccanismo con il quale potrà bloccare – stringendo alleanze con altri Paesi – iniziative legislative che ritenesse lesive dei propri interessi. A queste condizioni, non c’è alcun motivo perché Londra rinunci a trarre i benefici del Mercato unico europeo. Infatti è questo l’unico punto sul quale sono disposti a procedere a una maggiore integrazione. Resta da vedere se il Parlamento europeo approverà l’accordo, ma se ne parlerà dopo il referendum britannico».
Se Londra non ha nulla da guadagnarci, allora cosa c’è dietro l’idea della Brexit? Solo politica demagogica interna? Un po’ come la “padania” per la Lega?
«Sì, è una questione di consenso elettorale. Anche nel Regno unito c’è insofferenza verso l’Unione europea, e cavalcarla paga elettoralmente. Non dimentichiamo che alcuni movimenti, in altri Paesi, su questa linea sono riusciti addirittura a salire al governo».
Ultima domanda: insomma, Londra esce o non esce?
«Se dovessi scommettere direi di no. Non ha davvero nessun motivo per farlo [anche perché dovrebbe rinegoziare tutti gli accordi commerciale con ogni membro Ue, ndr] e sono tanti gli interessi che si attiveranno per scongiurare questo pericolo. Però con gli elettori non si sa mai, hanno mandato al governo personaggi come Hitler e Mussolini».
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