A Bruxelles, certo, all’Italia sono abituati. E alla stampa italiana. Solo che questa volta i rumori, per non dire in qualche caso i deliri, che provengono dall’Italia e con un crescendo di presunti complotti anti-italiani lascia davvero di stucco tutti dentro i palazzi della Commissione Europea. Perché se c’è una commissione che ha cercato di venire incontro ai desiderata italiani è proprio la Commissione guidata da Jean-Claude Juncker.
Dal piano di ridistribuzione dei richiedenti asilo da Italia e Grecia – interamente ricalcato sulle richieste italiane, se non funziona è colpa degli Stati membri, non della Commissione – alla generosa flessibilità in tutte le salse prevista per i nostri conti pubblici, l’Italia non avrebbe un granché di cui lamentarsi. L’Italia, peraltro, è al momento tra i primi beneficiari del Piano di investimenti da 315 miliardi di euro lanciato da Juncker. E invece da Roma e dal premier Matteo Renzi in persona arriva un profluvio di accuse, attacchi frontali, il tutto condito da “rivelazioni” dei giornali adeguatamente nutriti da Palazzo Chigi, quasi che Bruxelles si dannasse l’anima pur di far dispetti all’Italia.
Il capitolo di questi giorni è la storia della flessibilità. Il Corriere della Sera che il 3 febbraio parlava nientemeno – in prima – di un «fronte anti-Italia», con un commissario agli Affari economici Pierre Moscovici addirittura «sdoppiato» tra uno conciliante e uno cattivo. «Leggo la stampa italiana – è sbottato questo giovedì lo stesso Moscovici – e mi sembra ci sia confusione sulla posizione della Commissione. Noto che vi sono anche speculazioni sulla mia posizione al riguardo, alcuni mi vedono schizofrenico, malattia di cui non mi pare di soffrire». Ma il Corriere era in buona compagnia: questa solfa nei mesi passati è stata ripresa più o meno da tutti i giornali. Il punto è che la stampa italiana scopre quotidianamente l’acqua calda, seguendo le imbeccate di Palazzo Chigi, e dimenticando completamente un dibattito pubblico e chiaro in corso da mesi in Europa.
Manfred Weber, il vituperato presidente tedesco del gruppo del Ppe al Parlamento Europeo, da mesi ripete un mantra: si parli puri della flessibilità prevista dal Patto di Stabilità, ma senza esagerare e senza scardinare le regole. Nessuna novità è la linea di compromesso strappata da Juncker con Berlino da un lato, Roma e Parigi dall’altro: bene a dare fiato ai bilanci, ok alle nuove formule di flessibilità, ma non tocchiamo le regole del Patto e non gettiamo all’ortica in blocco il controllo dei conti pubblici. Lo sanno tutti, praticamente da quando è nata questa Commissione, a fine 2014. Così come il fatto che la flessibilità non è un diritto acquisito una volta per tutte, ma tendenzialmente un fatto occasionale legato a particolari circostanze, come ha ribadito su un’intervista di vari mesi fa, proprio sul Corriere, il vicepresidente della Commissione Europea, responsabile per l’euro, Valdis Dombrovskis, ricordando che la flessibilità per l’Italia finisce con il 2016.
Ogni volta che qualcuno ricorda questi elementi, la stampa italiana “scopre” un «attacco all’Italia», un «cambiamento di rotta», improbabili schizofrenie. Non è così. Soprattutto, si dimentica che, come ha ricordato questo giovedì lo stesso Moscovici, l’Italia – unico paese in tutta l’eurozona – è di fatto autorizzata da Bruxelles (anche se bisognerà vedere in che misura, lo sapremo in maggio) a cumulare vari tipi di flessibilità. Juncker in persona ha dovuto convincere, con una certa fatica, Berlino, la quale alla fine ha ingoiato per non indebolire Renzi, considerato l’ultima spiaggia in Italia non solo in Germania e Bruxelles, ma anche in varie altre cancellerie. E infatti la Commissione nel 2015 ha già autorizzato, per il 2016, un margine dello 0,4% del Pil per via delle riforme già fatte. Nessun altro ha goduto di questo beneficio, lo ripetiamo.
L’Italia ha poi chiesto un ulteriore margine dello 0,1% sempre per le riforme (pare che l’otterrà), ed è stata riconosciuta idonea (anche se il responso arriverà a maggio) per chiedere pure l’attivazione anche della clausola per gli investimenti. Palazzo Chigi vorrebbe lo 0,3% del Pil, ma Bruxelles pretende prima un elenco dettagliato dei progetti. Da ultimo, Roma ha invocato un ulteriore margine dello 0,2% aggiuntivo per le spese dei migranti e la sicurezza, la Commissione per ora non si esprime ma non pare ostile. Una messe di richieste – che nessun altro stato membro ha avanzato, almeno in questa misura – condito da un continuo aumento dell‘obiettivo di deficit nominale 2016: in primavera era previsto all’1,8% del Pil, a ottobre al 2,2%, adesso siamo arrivati al 2,4 per cento.
Il problema è che Palazzo Chigi sembra non esser mai contento, e intanto continua ad allargare la spesa pubblica e peggiorare il bilancio strutturale (al netto di fattori ciclici e una tantum), come avvertono anche le previsioni d’inverno pubblicata dalla Commissione Europea questo giovedì. Un problema, visto l’elevatissimo debito pubblico italiano inchiodato sopra quota 130% del Pil, e che invece da quest’anno l’Italia – in base alle regole del Patto di stabilità – dovrebbe ridurre progressivamente. Per il 2016, grazie al margine già concesso dello 0,4% del pil, le raccomandazioni Ue licenziate a luglio dai ministri delle Finanze chiedono all’Italia un avanzo strutturale di +0,1% del pil contro lo +0,5% che sarebbe stato preteso senza quei margini. Solo che secondo la Commissione (nell’opinione di novembre) l’Italia viaggia invece a un disavanzo strutturale di -0,5%, che con l’incremento del deficit nominale al 2,4% potrebbe salire ancora. Ecco perché Bruxelles ha rimesso l’Italia sotto i riflettori.
Vari esperti giuridici dell’esecutivo Ue avevano raccomandato, dicono, l’apertura di una procedura. Juncker ha detto per ora di no, perché, con buona pace dei complottisti, la disponibilità ad aiutare l’Italia rimane, tant’è che a Bruxelles molti scommettono che almeno una parte dei margini aggiuntivi richiesti da Roma sarà concesso. Probabilmente lo 0,1% aggiuntivo per le riforme e quello per le spese di migranti e sicurezza. Questo potrebbe ridurre il divario rispetto a quanto richiesto dalle raccomandazioni Ue allontanando la procedura.
Solo che Juncker può fare molto, ma non tutto. Certamente non può accettare senza batter ciglio qualsiasi richiesta di Roma. Non perché non voglia, ma perché non ne ha il mandato né la passerebbe liscia con molti paesi,che sono poi quelli che dovranno approvare, in sede di Consiglio Ue, le raccomandazioni all’Italia – e anche lo stesso Mario Draghi ha messo in guardia dall’esagerare con la flessibilità. Il rischio è altrimenti che salti il delicato compromesso tra il Sud e il Nord su flessibilità e Patto. Non a caso il socialista Moscovici – certo non noto come falco rigorista – questo giovedì ha ricordato la linea ddi Juncker, e cioè che l’esecutivo Ue segue «lo spirito di sostenere le riforme ma senza contraddire il Patto di stabilità e crescita».
Gli attacchi sempre più virulenti da Roma – complici, certo, fattori di natura elettorale – forse non sono la scelta più saggia. L’Italia, con il debito pubblico inchiodato a livelli elevatissimi e graziata per ora dai mercati (già in allarme, tuttavia, per il comparto bancario) soprattutto grazie al quantitative easing della Bce, ha un gran bisogno sia di Bruxelles sia di Berlino. Non a caso anche Moscovici ha avvertito che sarà meglio che «lo spirito del dialogo prevalga sullo scontro». Juncker, di natura alquanto vendicativa, ha già manifestato il suo malumore. Se gli attacchi da Roma continueranno a questo ritmo, commentano fonti comunitarie, il presidente della Commissione Europea potrebbe chiedersi: perché darsi da fare per concessioni all’Italia, magari litigando con qualche falco del Nord, se poi tanto Roma continua a sputare veleno?
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