UE
Gli italiani nelle istituzioni Ue: più sali di grado, meno ne trovi
L’ormai più che decennale dileggio riversato sulle istituzioni europee ha radicato l’idea in una parte considerevole dell’opinione pubblica che molti dei problemi nazionali derivino dall’Unione europea. Il principale bersaglio di politici e media euroscettici italiani si concentra sull’apparato burocratico, i cui funzionari vengono sprezzantemente indicati con il nomignolo di ‘eurocrati’. In realtà, come abbiamo cercato di raccontare negli articoli precedenti di questa inchiesta, a livello europeo il potere è diffuso e la responsabilità di tutelare gli interessi nazionali è condivisa su più livelli, dal governo nazionale attraverso la Rappresentanza, dagli uffici delle Regioni, dai corpi intermedi con i settori privati e dal ceto politico. Certo è, tuttavia, che la burocrazia svolge un ruolo essenziale nel processo di definizione delle decisioni anche se in nessun posto come nell’Unione europea rimane irrisolto il nodo sul ruolo di dirigenti e alti funzionari: se manager pubblici o tecnici esperti, fiduciari del potere politico delegati ad attuare gli indirizzi ricevuti o rappresentanti dell’apparato amministrativo che svolgono funzioni autonome.
I numeri
Per capirci qualcosa cominciamo a dare un’occhiata ai numeri. La maggior parte dei dipendenti è assorbita dalla Commissione, 32 mila, seguono il Parlamento con un organico di 7.500 addetti a cui si aggiungono gli assistenti dei parlamentari, in media tre ciascuno, il Segretariato generale del Consiglio con 2.770 dipendenti, il Comitato delle Regioni con 538 e via via tutte le altre istituzioni, dalla Bce alla Corte di Giustizia. Complessivamente gli organi che governano 510 milioni di persone in 28 stati contano su un organico di circa 45 mila persone. Per fare un raffronto, in Italia solo i ministeriali sono 149.731 a cui si aggiungono 2.091 dipendenti della presidenza del Consiglio dei ministri, 49.693 delle agenzie fiscali, 2.256 delle autorità indipendenti e 524.950 delle regioni.
Per ragioni storiche legate ai grandi flussi migratori del secondo dopoguerra, la presenza di italiani in Belgio è molto numerosa e si ripercuote direttamente sulla consistenza dei dipendenti anche nelle istituzioni. Solo in Commissione, a fronte di 32.196 dipendenti al 1° gennaio 2018 (ultimo dato disponibile), contando 3.889 unità – il 12,1 per cento del totale – gli italiani sono il secondo gruppo nazionale dopo i belgi.
Una presenza quantitativa molto consistente a cui però non corrisponde altrettanta qualità o peso in termini di potere. La relazione annuale della Commissione al Parlamento sulla consistenza dei funzionari evidenzia da un lato che il personale italiano non dirigenziale assegnato ad agenzie e servizi esterni alla Commissione mantiene il livello di equilibrio stabilito dai criteri di distribuzione geografica adottati, per l’Italia vale l’11,2 per cento, mentre nelle direzioni generali (assimilabili ai ministeri) i funzionari italiani nei posti chiave, da vice capo unità in su, sono 129 quando dovrebbero essere 226, mentre ritrova un equilibrio nei posti dirigenziali con 39 posizioni e nei gabinetti dei Commissari, con 20 posizioni.
Dalla ripartizione geografica sono comunque escluse le posizioni apicali, cioè quelle dirigenziali poiché non deve e non possono riflettere il peso demografico di ogni Paese. Ecco perché tutti i grandi paesi sono sotto rappresentati, non solo l’Italia. Se si dovessero ripartire i posti con un metodo puramente proporzionale la Germania, per esempio, dovrebbe avere più di 180 volte il numero di posti del Lussemburgo o di Malta. Visto che la Germania non arriva a 180 posizioni apicali, Lussemburgo e Malta non dovrebbero avere nemmeno un posto. In realtà anche i piccoli paesi hanno almeno una decina di posti e i grandi paesi hanno circa la metà di quello che dovrebbero teoricamente avere.
Italiani in Commissione europea | numero |
---|---|
Direttore generale | 4 |
vice direttore generale | 2 |
Adviser | 8 |
Capo direttorato | 24 |
vice capo direttorato | 1 |
capo unità | 110 |
vice capo unità | 19 |
Gabinetti dei Commissari | 20 |
Altri funzionari | 922 |
Altro personale | 2779 |
I dipendenti italiani sono 3.889 pari al 12,1 per cento del totale |
Il motivo di questo squilibrio è in parte dovuto all’evoluzione dei processi di selezione del personale e in parte alla storia dell’emigrazione italiana spiega Fabio Colasanti, ex alto funzionario della Commissione europea. Colasanti ha sviluppato la sua intera carriera all’interno della Commissione, fino a essere vice capo di gabinetto di Romano Prodi nel 1999-2000 e direttore generale negli anni successivi alla DG imprese e poi alla DG Connect. «Da un lato la forte presenza di personale italiano e belga tra i dipendenti è dovuta al fatto che sono stati assunti uscieri e autisti a migliaia e assistenti amministrativi a centinaia, ma ovviamente questo non è personale che incide nella definizione delle politiche. Dall’altro va notato che pochissimi italiani negli anni Settanta e Ottanta hanno scelto di lavorare nelle istituzioni europee. Perché all’epoca erano richiesti come requisito, oltre alla laurea, tre anni di esperienza nel ruolo. Tradotto, chi possedeva tali requisiti aveva già un lavoro e non aveva alcun interesse a lasciarlo per una carriera europea. Poi questa norma fu cambiata all’inizio degli anni Novanta, quando fu introdotta la possibilità di partecipare ai concorsi anche per i neolaureati da non più di due anni e lì ci fu il boom degli italiani, ma intanto si è creato un buco generazionale. Per molto tempo è stato difficilissimo trovare italiani che potessero occupare posizioni di responsabilità e la mancanza di personale in carriera ha avuto ripercussioni in seguito anche nella scelta dei dirigenti».
Negli ultimi anni la situazione si è sostanzialmente ribaltata, con la partecipazione sempre più sostenuta degli italiani ai concorsi EPSO per avviare una carriera nelle istituzioni. Un fenomeno determinato dall’aumento del tasso di scolarizzazione e dalla carenza di posti di lavoro qualificati offerti in Italia. «Gli stipendi europei sono molto competitivi per chi proviene dai Paesi dell’Est e dell’area mediterranea e soprattutto offrono un approdo sicuro per i giovani italiani. Se a 25 o 30 anni puoi contare su uno stipendio solido e hai di fronte una carriera, puoi programmare la tua vita», spiega un funzionario, «al contrario lo sono molto poco per i cittadini dei Paesi nordici». Dei dieci Paesi che sono sottorappresentati a livello di funzionari nella Commissione, solo il Portogallo appartiene all’area Mediterranea, mentre tutti gli altri sono del centro nord Europa (Danimarca, Germania, Irlanda, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Austria, Finlandia e Svezia).
“Lo stipendio base mensile di un funzionario permanente”, si legge nel portale di informazione sui concorsi di accesso alle carriere istituzionali, “va da circa 2 300 euro al mese per un neoassunto come assistente-segretario (AST/SC 1), a 4 500 euro per un amministratore laureato di livello iniziale (AD 5) e fino a 16 000 euro al mese per un numero limitato di amministratori di livello dirigenziale (AD 16) a livello di direttore generale”.
Candidato italiano o italiano candidato
Ma come si lega la carriera di un funzionario all’interno delle istituzioni con il Paese di provenienza? Una delle sottolineature ricorrenti tra i connazionali a Bruxelles è l’incapacità dell’Italia di fare sistema, ovvero di fare pressioni per ottenere posti chiave all’interno della Commissione. Lo ricorda spesso Luciano Stella, lobbista di Must & Partners: «francesi e soprattutto tedeschi presidiano in modo maniacale le aree di loro interesse, politiche energetiche, digitali, agricole e industriali in particolare. Gli italiani agiscono in modo sparso e, purtroppo, spesso inefficace. Tanto è vero che il personale che fa carriera all’interno delle istituzioni europee lo deve soltanto ai propri meriti e alle propria capacità, non perché sostenuto da una strategia del Paese». Così si è diffusa l’idea che quando c’è da selezionare una figura per una posizione apicale l’Italia non ha un candidato, al massimo c’è un italiano che si candida. Cosa significa? «Che se ci fosse un candidato italiano», spiega una fonte interna alla Commissione, «il governo manderebbe una lettera di supporto e i ministri interessati si attaccherebbero al telefono per sostenerlo. Cosa che non avviene quasi mai. Quindi rimane un ‘italiano candidato’, cioè un candidato di nazionalità italiana».
Uno dei problemi è la mancanza di personale specializzato in questioni europee all’interno dei ministeri italiani e la poca disponibilità in generale dei dirigenti pubblici italiani a spostarsi a Bruxelles.
Anche così resta difficile comprendere perché in DG Home, la direzione che si occupa di affari interni, sicurezza e soprattutto migrazioni, non c’è nemmeno un funzionario italiano in posizione chiave. Eppure quello dell’immigrazione è un tema cruciale per l’Italia e lo è, pur con fasi alterne, dal 1991, quando un’ondata di 27 mila profughi albanesi si presentò davanti al porto di Brindisi.
Colasanti tuttavia contrasta questo tipo di visione. «Nessun direttore generale vuole essere accusato di fare gli interessi del proprio Paese. La carriera dipende da come gli altri ti giudicano, la partigianeria esplicita o meno verso il tuo Paese di nascita, ti mette in cattiva luce. I dirigenti definiscono “il Paese che conosco meglio” quello di provenienza, non “il mio”. E poi non è importante la nazionalità del dirigente o del funzionario, ma la visione complessiva e la capacità di ascoltare e mediare tra le posizioni di 28 attori diversi, e qui la conoscenza di altre lingue oltre al francese e inglese, aiuta».
Inoltre, continua Colasanti per smontare le teorie dell’influenza dei singoli governi, «è necessario conoscere come vengono scelti i dirigenti. Fino al 1999 si procedeva per quote, i grandi Paesi avevano diritto a 4 direttori generali, 3 vicedirettori e 24 capi di direttorato. Le considerazioni sulla nazionalità all’epoca erano molto più importanti del merito e delle competenze e c’era una serie di regole interne da rispettare, ad esempio non ci potevano essere dei direttori con la medesima provenienza del direttore generale all’interno di una DG. Il sistema aveva portato alla colonizzazione delle DG, ad esempio l’agricoltura era sempre assegnata a un francese, gli affari finanziari a un italiano, e così via».
Poi con la commissione Prodi si è passati al sistema delle rotazioni, con la selezione in base al merito, «che voleva dire accettare deviazioni significative rispetto alla distribuzione geografica ideale», ricorda Colasanti. Oggi la situazione reale è di cooptazione delle posizioni apicali. A decidere se il direttore generale lo faccio io o un altro sono 6-7 persone: il commissario da cui la DG dipende, il suo capo di gabinetto, il capo di gabinetto del presidente della Commissione, il Commissario del personale, il suo capo di gabinetto, il segretario generale e il direttore generale del personale. A seconda del momento e del ruolo in questione, il peso di ciascuno di questi soggetti varia. Per il direttore l’opinione del direttore generale ha un peso maggiore. Ma è comunque un meccanismo di conoscenze personali, stima reciproca e relazioni interne. Condizione però per tutte le nomine è una buona performance nel corso delle interviste ufficiali. Si è dato qualche caso di persone apprezzate, ma che nel corso delle interviste hanno fatto un’impressione meno buona di altri candidati e sono state scartate. Gli stati membri non contano nulla, non hanno alcuna speranza di avere influenza».
Ci sono casi in cui uno stato membro o i legami politici incidono sulla scelta? È possibile, concede Colasanti, «ma passa attraverso meccanismi non identificabili perché si manifesta attraverso una delle persone coinvolte nel processo di selezione». In DG Home ora non c’è nessun italiano, ma c’era fino a pochi mesi fa. Comunque l’Italia ha molte posizioni apicali nella Commissione e nel Seae, il Comitato economico e sociale. Non mi sembra che siamo messi così male. Siamo messi un pochino peggio a livello intermedio. E va ricordato che proprio il presidente del Comitato Economico e Sociale è un italiano, Luca Jahier, come sono italiani il supervisore dell’autorità garante della privacy europea, Giovanni Buttarelli e il presidente della Bce, Mario Draghi.
Al di là dei numeri, comunque, il punto è che a livello europeo ha iniziato a contare sempre più la massa critica e sempre più conta la capacità di concepire lo snodo di Bruxelles come una seconda presidenza del Consiglio dopo Palazzo Chigi.
Personale Italiano istituzioni – posizioni apicali |
Presidente/ Direttore |
Consigliere | Giudice | Avvocato | Membri |
Consiglio Europeo | 1 | ||||
Corte di Giustizia Europea | 3 | 1 | 1 | ||
Banca Centrale Europea | 1 | 1 | |||
Corte dei Conti Europea | 1 | ||||
Comitato economico e sociale | 1 | 23 | |||
Comitato delle Regioni | 24 | ||||
Garante della privacy | 1 | 4 | 2 | ||
Totale | 3 | 5 | 3 | 3 | 50 |
Totale generale | 64 |
***
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