«L’Europa non esiste», però «incide per più del 70 per cento delle politiche nazionali». Queste due frasi, pronunciate da Elisabetta Gardini a qualche minuto di distanza l’una dall’altra senza coglierne la contraddizione, danno la misura di quanto il Parlamento europeo – ancora oggi dopo otto legislature – sia un soggetto politico di difficile definizione. Non è un’assemblea legislativa pura paragonabile ai parlamenti nazionali, in quanto non ha l’iniziativa legislativa, riservata alla Commissione europea. Non è un organo consultivo, in quanto partecipa attivamente alla formazione di regolamenti e direttive in concorso con il Consiglio, cioè ai governi degli stati membri. I parlamentari, vittime delle contraddizioni di una costruzione istituzionale che lascia in capo all’apparato burocratico da un lato e agli stati membri il potere decisionale, si barcamenano nel doppio ruolo di rappresentanti del popolo e lobbisti per il proprio paese di appartenenza.
«Istituzionalmente», ricorda Carlo Corazza, portavoce dell’attuale presidente del Parlamento, Antonio Tajani, il parlamentare «è tenuto a perseguire l’interesse generale europeo. Ovviamente lo fa dalla prospettiva delle diverse realtà degli stati membri. Deve cioè trovare una sintesi tra l’interesse generale europeo e quello nazionale». Splendida definizione, ma complicata da mettere in pratica, in particolare per i 73 europarlamentari italiani di fronte a una serie di vincoli e costrizioni.
Un difficile equilibrio
«Quello dell’europarlamentare è un ruolo complicato», ricorda Elly Schlein di Possibile, «perché deve trovare il giusto equilibrio tra l’essere parte di una istituzione che rappresenta 500 milioni di cittadini europei e il fatto di essere stato eletto in uno dei 28 stati membri. Ci sono dei colleghi, soprattutto se fanno parte di forze che stanno al governo che tendono a “giocare in difesa” delle posizioni del proprio governo, però non è sempre così. Dipende da come uno interpreta il proprio mandato».
«Il problema dell’Unione europea oggi», dice l’europarlamentare del Pd Damiano Zoffoli, «è che non ha un volto. L’Europa delle persone e dei territori esiste già perché abbiamo storie, valori e sempre più politiche in comune. Quello che manca più di tutto è avere istituzioni in cui i cittadini possano sentirsi rappresentati e di cui capiscano le funzioni. È per questo che servirebbe un ruolo più forte del Parlamento, l’unica istituzione pienamente federale e con un mandato diretto da parte di tutti gli europei».
E in parte dipende dai temi in discussione. «Il punto», ribadisce Schlein, «è come trovare un delicato equilibrio tra gli interessi nazionali, che sono diversi, e quelli di tutta l’Ue, ma con la consapevolezza che spesso c’è un interesse comune che deve prevalere per far fronte a queste sfide. Parlo di quella migratoria, di quella climatica, di quella sociale, della necessità di una politica estera e di difesa comune. Faccio un solo esempio: la questione della giustizia fiscale. Se tutti gli eurodeputati si fossero stretti a difesa delle politiche fiscali aggressive e concorrenziali portate avanti da alcuni dei loro governi nazionali, non sarebbe stato possibile per noi adottare, al Parlamento europeo, delle misure che chiedono chiaramente trasparenza e che chiedono di superare e contrastare quegli schemi elusivi ed evasivi che hanno permesso in molti paesi di eludere il fisco degli altri stati europei».
Il parlamentare rispecchia la realtà del proprio paese ed è più facile che a livello europeo ci sia collaborazione. Il collante rimane l’interesse italiano. «È normale che su alcune questioni sia più importante superare le appartenenze partitiche per privilegiare gli interessi del sistema-paese», dice Patrizia Toia, capo delegazione del Partito democratico. «Un buon esempio è stata la promozione della candidatura di Milano come sede dell’Agenzia europea dei medicinali Ema. In quel caso c’era anche la consapevolezza che non stavamo facendo solo gli interessi dell’Italia o di Milano, ma di tutti i cittadini europei visto che un’Agenzia pienamente funzionante è interesse di tutti e che le dinamiche intergovernative rischiano ogni volta di mettere in secondo piano il superiore interesse dei cittadini europei». L’agenzia è finita in Olanda e con lei la collaborazione trasversale. Non che manchino le buone intenzioni, ma i risultati per una serie di fattori, bisogna cercarli con il lumicino. «Quando siamo uniti siamo molto forti», provoca Elisabetta Gardini, capo delegazione di Forza Italia. «Abbiamo fatto una battaglia tutti insieme per il “Made in”, cioè l’obbligo di tracciabilità dei prodotti di cui l’Italia ha un estremo bisogno. Peccato che poi il governo Renzi abbia speso tutta la propria credibilità del semestre europeo per la Mogherini commissario agli affari esteri, facendo così prevalere una logica di partito. In generale, comunque, vedo che c’è divisione sui temi e ricomposizione sui valori».
Un punto di vista che convince poco Schlein – «direi che non si tratta della logica prevalente con la quale si lavora al Parlamento europeo», mentre Marco Zanni, giovane parlamentare bergamasco della Lega Nord, sottolinea carenze strutturali che però stanno fuori dal perimetro degli eletti: «in generale il sistema Italia è stato molto deficitario. Un po’ per ingenuità pensando che non esistano gli interessi generali e un po’ per errore politico. I politici sono importanti, ma la struttura burocratica non è da meno, per questo dovremmo tutelare le carriere dei rappresentanti italiani nelle direzioni generali della Commissione. E poi stimolare la presenza delle rappresentanze a Bruxelles. Io mi occupo di temi legati alla regolamentazione bancaria, quando tra il 2013 e il 2014 fu negoziata l’unione bancaria, l’ABI (Associazione Bancaria Italiana ndr) non aveva rappresentanza fissa a Bruxelles. La Germania è un esempio virtuoso di come, al contrario, i tedeschi hanno agito per proteggere una parte importante del loro sistema bancario per evitare che il settore fosse esposto a regole che ne minacciassero la stabilità».
Il punto di Zanni è cruciale e mette il dito in una piaga difficile da rimarginare. Ogni volta che l’Italia non ottiene quanto desiderato a livello europeo, politici e media tendono a biasimare la burocrazia europea o lo strapotere di Francia e Germania. «Questa della congiura anti italiana è una barzelletta su cui l’Italia si sta rendendo ridicola e sta perdendo la faccia», sbuffa Corazza. «Tutte le regole europee, tutte, non ce n’è una che non abbiamo votato, a cominciare dalle quote latte, sono state scritte da noi. E se veramente non contassimo nulla allora come mai abbiamo Mario Draghi alla guida della Banca Centrale Europea e Antonio Tajani presidente del Parlamento? Certo, l’Europa e le sue istituzioni riflettono il livello di integrazione a cui siamo arrivati e nessuno è qui a dire che sia perfetto. L’euro, tanto per fare un esempio, l’abbiamo voluta noi per contrastare la Germania. Ora invece noi insultiamo l’Europa ma senza trarne le conseguenze, cioè uscirne e questa è una vera presa in giro.
La selezione della classe dirigente
I criteri di scelta dei candidati al Parlamento europeo è un’altra di quelle questioni annose che impegna il dibattito italiano con una certa regolarità, almeno in vista di ogni elezione. Nell’opinione pubblica si è radicato il convincimento che i partiti prediligano far sedere a Strasburgo e Bruxelles due tipi di figure: a) persone relativamente giovani e politicamente “fresche” per fargli acquisire un pedigree internazionale e poi utilizzarle in differenti ruoli alla prima occasione e b) ceto politico prossimo al pensionamento, da cui il nomignolo di “cimitero degli elefanti”. Ci sono figure che ovviamente corrispondono a queste descrizioni: Alessandra Moretti fu eletta nella circoscrizione Nord Est nel giugno del 2014 a furor di popolo, il quale popolo con il medesimo e rinnovato furore meno di un anno dopo, il 31 maggio 2015, ridusse in cenere le sue speranze e quelle del Partito democratico di scalzare Luca Zaia dalla guida della regione Veneto. Moretti spese a Bruxelles circa sei mesi, essendosi dimessa a gennaio con effetto dal 1 febbraio 2015; Flavio Zanonato, sempre della circoscrizione Nord Est e sempre eletto nel Partito democratico, poi passato a LeU, arriva nelle istituzioni europee nel 2014 al termine di una lunga carriera politica in cui ha ricoperto ruoli nella segreteria del Pci, fatto il sindaco di Padova per tre mandati e il ministro dello Sviluppo economico nel governo Letta.
Tuttavia l’età media dei deputati italiani è di 51 anni, sensibilmente più bassa della media europea che è 55, e la maggior parte dei parlamentari eletti esercita il proprio mandato al meglio delle proprie possibilità e non senza fatiche. «In media 3 giorni qui, 3 e mezzo nel collegio e mezza giornata con la famiglia», sospira Elisabetta Gardini. «Sappiamo tutti che dovremmo passare più tempo a Bruxelles. Noi italiani siamo quelli che si fanno più male di tutti. Questo è un luogo di mediazioni e dobbiamo contrattare le nostre posizioni prima ancora che con gli avversari politici, all’interno dei rispettivi partiti. Ci sono differenze culturali che sembrano insormontabili. Provate a spiegare a un rappresentante del nord Europa, tedesco, danese o finlandese che quello che funziona da loro non si adatta da un’altra parte. La specificità italiana poi, con la presenza predominante di micro, piccole e medie imprese, è difficilissima da far capire. Per questo l’esperienza e la capacità di conquistarsi la fiducia dei colleghi restano armi insostituibili».
Esistono poi delle specificità nazionali sia di tipo culturale sia sul sistema di selezione dei candidati alle elezioni europee che rendono gli eurodeputati più o meno sensibili agli ordini della propria capitale. «Sono più indipendenti gli eurodeputati che, come in Italia, si sono conquistati le preferenze nei propri collegi invece di essere semplicemente selezionati dal proprio partito», afferma Toia e, «ovviamente, sono più indipendenti gli eurodeputati che appartengono a partiti all’opposizione nella politica nazionale. Certo è che se alle prossime europee avessimo iniziato a sperimentare l’uso dei collegi transnazionali avremmo dato avvio a una dinamica molto più europeista. Peccato che la proposta sia stata bocciata dal Parlamento europeo principalmente per l’opposizione del Ppe».
La presenza o meglio, l’assenza della politica europea dai media nazionali è uno dei crucci principali dei parlamentari. «Da una parte dobbiamo stare a Bruxelles e a Strasburgo per portare avanti dossier legislativi molto tecnici che richiedono una mole immensa di lavoro, di riunioni e di incontri», evidenzia Toia. «D’altra parte tutto questo lavoro non ha visibilità a livello nazionale e se un eurodeputato aspira a essere rieletto, o semplicemente a veder riconosciuto il proprio lavoro, deve andare nel proprio collegio a incontrare le persone. Di fatto viviamo sempre in viaggio facendo la spola tra l’Italia e Bruxelles o Strasburgo». In Italia si parla di Europa solo e soltanto nello spettro dell’agenda italiana. L’attenzione mediatica non è solo un problema italiano, sottolinea però Zanni. «È abbastanza comune, Bruxelles viene vista come secondaria perché lo spazio di democrazia è ancora lo spazio nazionale. La cosa cambierà con le prossime elezioni europee perché assumeranno un’importanza molto maggiore. I media stanno dando copertura sempre più ampia al dibattito europeo».
La legge elettorale
Più che al paese di appartenenza, i parlamentari eletti in Italia sono legati al proprio collegio da una legge elettorale che prevede il voto di preferenza. Un sistema, afferma senza tanti giri di parole Zanni, che porta «curare gli interessi del proprio orticello, a passare più tempo nella propria circoscrizione che a fare attività in seno al Parlamento».
Il trattato di Maastricht del 1992 prevedeva l’elezione dei parlamentari con norme uniformi a tutti i Paesi. Manco a dirlo, il Consiglio, cioè i governi dei paesi membri, non ha mai trovato un accordo e quindi l’assemblea è il risultato di un mosaico di differenti sistemi elettorali.
Come si evince dalla cartina qui sopra, l’Italia è con la Polonia l’unico dei grandi paesi ad adottare una legge elettorale con le preferenze – in verde – e uno dei pochissimi a suddividere il collegio in circoscrizioni, gli altri sono Irlanda e Belgio. Anche la Francia, che fino al 2014 aveva otto collegi, lo scorso 25 giugno ha modificato il proprio orientamento verso il collegio unico. Germania, Francia, Spagna e Regno Unito (fino al 2014, poiché non parteciperà alle prossime elezioni per effetto della Brexit) utilizzano invece il sistema delle liste chiuse decise dai partiti. Promulgata nel 1979 e ispirata al proporzionalismo puro tipico dell’epoca, dal 2009 la legge italiana ha una soglia di sbarramento del 4 per cento. Nel 2014 sono state introdotte delle modifiche per assicurare la parità di genere. La legge elettorale italiana, afferma ancora Zanni, «la cambierei se possibile domani mattina. Le preferenze hanno poco motivo. Sono un circolo vizioso sul processo elettorale e non so effettivamente quanti votanti vadano al seggio con la voglia di scrivere un nome. Ovviamente se vogliamo ridurre i costi della politica, le preferenze costano tantissimo, creano lotte intestine ai partiti e distolgono l’attenzione nell’attività di un parlamentare. Per il bene del paese bisognerebbe intervenire senza ipocrisia».
La pensa così anche il portavoce di Tajani, Corazza: «Più i parlamentari stanno a Bruxelles, più imparano a curare gli interessi del proprio Paese. L’Europa è un grande mercato in cui ognuno difende i propri interessi. Bruxelles è un territorio che va presidiato».
Chi possa avere il coraggio e la lucidità di Zanni al momento non si sa. Non l’ha avuto l’attuale governo, né l’attuale maggioranza parlamentare, nonostante tra l’estate e l’autunno del 2018 ci fossero state avvisaglie della volontà di Salvini e Di Maio di modificare la legge elettorale per le europee eliminando le preferenze o riducendo la dimensione dei collegi, aumentandone il numero. Le indiscrezioni sfociarono in qualche articolo sulla stampa nazionale, ma nessuna proposta di legge è stata depositata né alla Camera né al Senato.
Altri suoi colleghi, sul tema non rispondono, come la capo delegazione della Lega Nord, Mara Bizzotto, e il Movimento 5 Stelle – a proposito di trasparenza, nessuno dei 14 deputati pentastellati ha trovato 15 minuti per rispondere alle nostre domande -, oppure sono molto meno netti. «Rispetto a un sistema senza preferenze in cui i candidati alle europee vengono scelti solo dal partito di appartenenza – afferma Toia – ci costringe a un impegno sul territorio che avvicina le persone all’Unione europea». «In teoria è pessima», dice Gardini di Forza Italia, «ma non la cambierei perché comunque stimola il rapporto con l’elettorato e ci fa uscire da questa “eurobolla”». Per Schlein invece non c’è «un sistema elettorale che consenta – e non sarebbe neanche giusto – al parlamentare di prescindere completamente dal rapporto con la propria base elettorale e, da questo punto di vista credo siano preferibili quelli che consentono all’elettore di fare una scelta precisa di rappresentanza».
Il dualismo con il Consiglio
Infine c’è la questione delle competenze legislative che, come dicevamo all’inizio, è il cuore e l’origine di tutte le contraddizioni dell’architettura europea. In Parlamento si raggiungono talvolta mediazioni che tengono conto delle differenze culturali, sociali ed economiche dei Paesi e rispettano la pluralità di posizioni delle diverse famiglie politiche europee. Si è affermato, negli anni, quello che viene definito metodo comunitario, spiega Schlein, «che ci ha permesso anche in questi anni di dare delle risposte a quelle che sono chiaramente sfide comuni europee. Su tanti temi cruciali, sul futuro dei cittadini di tutta Europa, il Parlamento ha espresso posizioni forti e ambiziose che hanno incontrato vaste maggioranze». Ma il Parlamento si attiva solo dopo che la Commissione ha deciso di legiferare su una certa materia. Il testo rivisto nelle commissioni deve essere approvato dal Consiglio che funziona da camera alta e quindi ratificato in plenaria. «La mancanza di iniziativa legislativa è una debolezza intrinseca del Parlamento», accusa Gardini. «Noi dipendiamo di fatto dalla struttura burocratica della Commissione. Sono loro che dettano l’agenda. Ma credo non si voglia rafforzare il potere del Parlamento perché diventerebbe molto difficile condizionare 750 politici».
«Lo strapotere dei governi nelle istituzioni comunitarie è il problema numero uno dell’Unione europea e quello meno riconosciuto dai media e dall’opinione pubblica», rimarca Toia. «In ogni caso tra le istituzioni comunitarie il Parlamento europeo è senza dubbio quella più affrancata dal giogo delle capitali nazionali. Il semplice fatto che l’assemblea di Strasburgo è organizzata per gruppi politici transnazionali favorisce delle dinamiche che è difficile riscontrare nel Consiglio ma anche nella Commissione, dove i singoli commissari sono diretta espressione dei governi nazionali».
Forse al Consiglio servirebbe un salto ulteriore ed entrare in una logica di interesse europeo invece che di interesse nazionale. Sono ipotizzabili ulteriori cessioni di sovranità da parte degli Stati membri, in una situazione in cui la quantità di legislazione dei parlamenti nazionali di diretta emanazione comunitaria varia dal 10 al 36 per cento, a seconda di come viene calcolata, e quella dei governi si aggira intorno al 70 per cento? Manco per sogno, secondo Zanni. «Cedere sovranità rischia solo di dare potere a chi veramente comanda, cioè francesi e tedeschi. Precedenti storici ci insegnano che aggregare realtà diverse è potenzialmente esplosivo. Abbiamo culture, lingue e sistemi bancari diversi e non ci sono le condizioni per omogeneizzarli per via legislativa. Forse ci saranno fra 50 o 100 anni, ma non oggi. Facciamo meno ma facciamolo meglio. Capiamo dove sta il valore aggiunto nel fare politiche comuni e ripartiamo da lì».
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