UE
Brexit, un’uscita senza gloria
Intervistato due anni fa dal Sole 24 Ore, il console generale d’Italia a Londra stimò che il numero di cittadini italiani residenti nel Regno Unito superasse le 700mila unità, di cui meno della metà risultavano da registrazioni all’AIRE (chiunque abiti o abbia vissuto all’estero, sa che sono numerosissimi i nostri connazionali che evitano l’iscrizione, che è obbligatoria per chi pensa di soggiornare a lungo in un altro paese). Già questo singolo dato dovrebbe portarci a considerare la Brexit, che scatterà alla mezzanotte di oggi, un fatto non solo politico, bensì anche biografico per numerosi nostri concittadini che vivono (o hanno vissuto per alcuni anni, come il sottoscritto) nel Regno Unito, nonché per le loro famiglie rimaste in patria.
L’uscita di Londra dall’Unione Europea, infatti, rende oggettivamente più difficile la vita dei cittadini europei che vivono oltre Manica: è vero che in teoria l’EU Settlement Scheme dovrebbe proteggere i diritti di chi già vive là, ma è altresì vero, nella prassi, che le richieste vanno a finire nelle mani di quell’Home Office che da anni riceve critiche per il modo in cui gestisce le pratiche relative all’immigrazione e al diritto a risiedere degli stranieri. Nel 2018, ad esempio, proprio il ministro dell’interno Amber Rudd si dimise a seguito dello scandalo Windrush, cioè della detenzione e dell’espulsione illegale di decine di persone provenienti da paesi caraibici e che da decenni vivevano nel Regno Unito. È notizia di pochi giorni fa il rifiuto della concessione della residenza permanente a uno chef stellato francese (per definizione, una di quelle eccellenze che normalmente quasi ogni paese del mondo cerca di attrarre, a prescindere dall’approccio generale sull’immigrazione). L’Home Office (un ministero che fino a poco tempo fa somministrava un test per la cittadinanza che richiedeva risposte sbagliate o non aggiornate e che penalizzava, paradossalmente, coloro che invece davano le risposte corrette) da ormai otto anni segue l’approccio dell’ambiente ostile, che ha portato a un giro di vite le cui conseguenze, però, sono anche quelle degli esempi di cui sopra. I cittadini comunitari ora sono nelle mani di una macchina amministrativa di questo tipo.
In futuro sarà ancora più problematico trasferirsi : visti, documenti, lavoro qualificato, requisiti minimi di reddito, sono tutti criteri che oggi non esistono. È vero, non tutti emigrano per una cattedra a Cambridge, e sui social network (e non solo) girano da tempo parecchie ironie sui lavapiatti italiani di Londra, di Amsterdam, di Berlino (e suggerirei, magari, di cercare di capire perché preferiscono questo alla permanenza a casa, invece di prestarsi a un inutile dileggio), ma ora quella libertà goduta dai nostri connazionali (e potenzialmente da tutti noi) potrebbe venire a mancare.
C’è, poi, un ulteriore punto, che chi sta scrivendo ha vissuto personalmente (pur avendo lasciato l’Inghilterra pochi mesi prima del referendum del giugno 2016), ma che è stato riportato numerosamente negli ultimi tre anni: molti cittadini comunitari, inclusi molti nostri concittadini, residenti nel Regno Unito si sono sentiti traditi da quel voto, dal fatto che vicini di casa, colleghi, conoscenti hanno scelto un giorno di rendere la loro vita più difficile, magari di far sapere nel segreto dell’urna che non c’è tutta questa apparente benevolenza – perché questo è accaduto, cioè che si è svelata una latente ostilità, o comunque indifferenza (o ignoranza) nei confronti della qualità della vita e delle decisioni effettuate da chi, magari da anni, aveva con entusiasmo scelto come casa Manchester, Liverpool, Birmingham o Newcastle. Questa è stata una cosa ancor più sbalorditiva per chi conosce la società britannica, assai molto più accogliente, aperta, multietnica e multiculturale di quella italiana e di tanti altri paesi europei.
Accanto a questo, però e ovviamente, c’è anche il punto politico. Innanzitutto, c’è da mettere in chiaro che se un paese, a dispetto di considerazioni di carattere pratico, economico o commerciale, sente che l’appartenenza a un’organizzazione sovranazionale e sui generis come l’Unione Europea è una castrazione insopportabile della propria sovranità e una limitazione eccessiva della propria libertà, allora è giusto che questo paese e i suoi cittadini perseguano attivamente l’uscita dall’UE. I tentativi fatti dai remainer di celebrare un secondo referendum, o quel pensiero di nicchia ma tuttora esistente tra alcuni attivisti e ferventi europeisti del Regno Unito, per cui qualche cavillo legale potrebbe o avrebbe potuto bloccare l’uscita, o comunque potrebbe agevolare il suo reingresso, non sono altro che velleità in estrema contraddizione con principi basilari come il rispetto della volontà popolare.
Detto ciò, la Brexit ha una sua genealogia che vale la pena di ripercorrere, seppur molto brevemente e tramite esempi selezionati. Le previsioni economiche non solo sono state bellamente ignorate (e se si considerano queste come secondarie rispetto a altre questioni, si tratta di un atteggiamento che ha un suo senso), ma è stato dileggiato qualsiasi esperto che abbia provato a sollevare il problema («Penso che le persone in questo paese ne abbiano avuto abbastanza di esperti», disse Michael Gove nel 2016, all’epoca ministro della giustizia e uno dei principali sostenitori del Leave, oggi ministro senza portafoglio). L’attuale primo ministro Boris Johnson (anche lui a favore dell’uscita dall’UE) ha avuto una carriera da giornalista durante la quale è stato licenziato dal Times per aver inventato una citazione, e poi per essere stato un assai fantasioso corrispondente da Bruxelles per il Telegraph, e durante la campagna referendaria ha sostenuto la palese bugia del famoso autobus rosso che riportava una cifra totalmente inventata dei soldi che il Regno Unito versava all’Unione settimanalmente. La commissione elettorale britannica ha rilevato che una delle due organizzazioni impegnate a favore della Brexit, Leave.EU, superò di oltre il 10% i limiti di spesa previsti dalla legge. Sappiamo, inoltre, già molto del ruolo svolto da Cambridge Analytica durante la campagna referendaria. Eclatante, inoltre, è l’ipocrisia di personaggi come Nigel Farage, che nel maggio 2016 sostenne che un risultato 52-48 a favore della permanenza nell’UE non avrebbe affatto chiuso il discorso (a quanto pare, il risultato inverso, invece, sì).
Questi sono stati i politici, le organizzazioni, i capifila, gli alfieri, i leader che hanno guidato il Regno Unito fuori dall’Unione Europea, che si sono fatti carico di quest’impresa di portare il paese out and into the world. Viene da chiedersi, quindi, se vi sia vera gloria per un popolo dalla lunga tradizione democratica e (forse) con qualche nostalgia imperiale, che ha scelto di fare questo grande e storico salto facendosi convincere e guidare da condottieri di questo discutibile livello.
La foto di copertina è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione – Condividi allo stesso modo 2.0 Generico. L’autore della foto è Christoph Scholz.
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