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Da Facebook a Whatsapp: la patologia da social interessa 1 milione di italiani
Siete fra quelli che controllano il cellulare anche quando attraversano la strada e avete l’ansia quando non prende? Siete fra i 22 milioni di italiani quotidianamente attivi sui social network, e che pur di stare su Facebook o Whatsapp rinunciano a una pizza con gli amici o a un incontro galante? Allora sappiatelo: siete affetti rispettivamente da nomofobia (dall’inglese “no mobile phobia”) e cyber relational addiction, due patologie strettamente legate e che secondo Paolo Giovannelli, psichiatra e direttore del Centro ESC per diagnosi, cura e riabilitazione delle dipendenze da Internet e disturbi correlati, “potrebbero interessare fino a un milione di italiani”.
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“Una stima esatta non è possibile – specifica Giovannelli – perché non ci sono ancora dei parametri internazionali condivisi: ma possiamo dire che è interessata una percentuale tra il 3 e il 5% degli utenti social”. Dunque circa un milione di persone. Ci sono poi i numeri di un fenomeno mondiale, nel quale l’Italia – secondo l’edizione 2015 del report Digital, Social e Mobile – si colloca nelle primissime posizioni: se nel mondo gli utilizzatori abituali di internet sono oltre 3 miliardi con una penetrazione del 42% sulla popolazione totale, nello Stivale la penetrazione è del 60%, ovvero 36,6 milioni di persone, di cui 28 milioni (46% della popolazione) hanno un account social media attivo, 22 milioni dei quali (36% della popolazione) lo utilizzano anche tramite mobile. Ma è soprattutto il tempo trascorso a smanettare sui social: l’Italia è tra i 17 Paesi che viaggiano sopra la media mondiale di 2,4 ore al giorno, arrivando a 2,5 ore e affermandosi come primo paese europeo (i francesi ci stanno 2 ore, gli spagnoli 1,9). Davanti a noi per lo più Paesi del Sud-Est asiatico e del Sudamerica (l’Argentina è al primo posto in assoluto con 4,3 ore), oltre che Usa e Russia.
Il fenomeno, come tutti siamo in grado di constatare nella quotidianità, interessa soprattutto i più giovani: nel mondo in media i ragazzi tra i 15 e i 19 anni passano almeno 3 ore al giorno sui social, mentre quelli tra i 20 e i 29 anni ci spendono almeno due ore. Ma non sono solo i giovani a essere interessati. Giovannelli, che nel Centro ESC ha curato o sta curando circa mezzo migliaio di pazienti affetti da nomofobia o cyber relational addiction (o, nella maggior parte dei casi, entrambe), racconta di casi eclatanti anche tra persone di fasce di età superiori. “Abbiamo avuto il caso di un 17enne che ha dovuto abbandonare la scuola perché non usciva più di casa, ma anche quello di una casalinga di 38 anni, moglie e madre, che ha dovuto curarsi perché non faceva altro, giorno e notte, che controllare le sue pagine social. In questo caso si è arrivati persino alla separazione dal marito”.
La discriminante per arrivare a diagnosticare una patologia non è tanto il tempo (“anche se il dato di 2,5 ore fa riflettere perché è una media”, sottolinea lo psichiatria milanese), ma quando questo tempo riduce o addirittura azzera quello destinato ad altre attività importanti della vita del soggetto, dal lavoro alle relazioni sociali, familiari o sentimentali. “Quando la persona evidenzia un comportamento compulsivo e ossessivo, cioè quando non riesce a staccarsi, quando si isola, rinuncia a possibilità sociali concrete, quando arriva a perdere interessi e anche a un calo del desiderio sessuale. Nei casi più estremi, quando finisce con l’aver una vera e propria paura degli altri. Quando insomma la sua vita viene limitata, mettendo in crisi un intero sistema di relazioni reali”. Anche quando, ad esempio, una persona non rinuncia del tutto alla sua vita sociale, ma poi di fatto in occasioni pubbliche si isola per smanettare sul proprio telefonino. Qualcuno lo chiama “stare soli insieme”, per il dottore dell’università di Milano dipende dal tempo: “Non c’è problema se si tratta di qualche minuto: ma se in una festa di tre ore si passa un’ora e mezza su uno o più social network, è patologico”.
Tra i social più utilizzati, spicca almeno in Italia il sorpasso di Whatsapp su Facebook, secondo i dati a gennaio 2015: 25% contro 24% del tempo. Nel mondo, tra Whatsapp (che è stata acquistata da Facebook) e WeChat sono ormai oltre un miliardo le persone che comunicano via chat, mentre gli iscritti al social network di Mark Zuckerberg sono 1,3 miliardi e ogni giorno, messi insieme, passano un tempo equivalente a 40.000 anni collegati alla piattaforma. Per non parlare del tasto G+, che rimanda a Google Plus e viene cliccato 5 miliardi di volte al giorno, delle 5 milioni di foto postate al giorno su Instagram, dei 15 minuti quotidiani trascorsi su Youtube, del mezzo miliardo di tweet ogni 24 ore o del fatto che ognuno di noi scarica in media 7,4 app social sul proprio smartphone. Fin qui tutto “normale” se non fosse che, secondo i dati di Go-Globe, degli oltre due miliardi di utenti attivi sui social (28% della popolazione mondiale) il 18% sente l’esigenza di controllare Facebook più volte al giorno (“Can’t go a few hours without checking Facebook”, dice testualmente la ricerca) e il 28% dei possessori di iPhone apre Twitter al mattino ancora prima di alzarsi dal letto. In generale, una percentuale stimata tra il 60% e l’80% degli utenti internet non ha neanche la scusa del lavoro: si connette alla rete per motivi che non hanno nulla a che fare con la propria professione. “Il che infatti non costituirebbe alcuna forma di patologia – conferma Giovannelli -, al di là del tempo trascorso: in molti lavori, come quello di artisti e giornalisti, l’utilizzo delle piattaforme social è funzionale allo svolgimento della propria professione”.
E chi invece si ammala, come viene curato? Di solito il suo caso viene segnalato dalla famiglia o dagli amici stretti: sono loro i primi a subire i sintomi di un cambio di comportamento. Sintomi che difficilmente vengono notati o accettati dal paziente, specie se giovanissimo. “Noi del Centro ESC – spiega Giovannelli – facciamo prima una valutazione clinica, poi un percorso di psicoterapia che in questo caso più di altri viene svolto il più possibile attraverso sedute di gruppo, visto che il problema principale è proprio l’isolamento sociale. Puntiamo innanzitutto a liberare i pazienti da ansie e vulnerabilità emotive”. Un percorso mediamente lungo, che può durare dai 3 ai 12 mesi e che costa al paziente non meno di 80 euro al mese, nei casi più lievi. Tra le possibilità c’è anche quella di portare la persona a cancellarsi dai social a cui è iscritto. “Questa soluzione non è sempre consigliata perché può portare a un trauma: del resto se qualcuno riesce subito a sospendere l’utilizzo significa che non è del tutto dipendente”.
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E soprattutto, una recente ricerca della Cornell University ha evidenziato, su un campione di 40.000 persone alle quali è stato chiesto di lasciare Facebook per 99 giorni, che la maggior parte di loro non ha resistito o comunque si è nuovamente iscritta alla scadenza del termine: il fenomeno della cosiddetta social network reversion. “Però la ricerca – specifica Giovannelli – ha anche rilevato che la sospensione è utile in quanto porta a una maggiore consapevolezza del ruolo della tecnologia e del suo impatto sulla vita sociale. Sono diversi, infatti, gli esempi di quelli che non disdegnano alla fine di rientrare su Facebook assumendo però una condotta più responsabile e riflessiva, che implica una modifica del loro atteggiamento ad esempio disinstallando l’app sul cellulare o riducendo il numero di amici o il tempo passato sulla piattaforma”.
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