Internet

Sulla libertà di parola ai tempi dei Social Network

11 Maggio 2015

Claudia Durastanti ha pubblicato su Minima & Moralia una riflessione sul senso delle parole ai tempi dei social network. Il pezzo si chiama Ho perso un lavoro per colpa di un tweet e descrive molto bene il senso di impotenza del ‘lavoro culturale’ ai tempi dell’universo mediale contemporaneo. Se scrivo queste righe non lo faccio per ragionare sulla questione di merito. Se sia giusto o meno che una scrittrice abbia perso una collaborazione per colpa di un tweet. Mi interessa invece ragionare sulle parole. Sul loro senso. Sulla nostra responsabilità. E sul loro peso in un panorama mediale ormai talmente ricco e frastagliato che rende ogni personaggio un personaggio ‘pubblico’ e, quindi, con un ruolo totalmente riconfigurato. Mentre scrivo queste righe, inoltre, altri più titolati di me hanno scritto sulla questione, come Giorgio Fontana e Andrea Coccia.

Negli ultimi mesi c’è stata un’escalation che, avvenimento drammatico dopo avvenimento drammatico, ha finito per far passare il messaggio – sbagliatissimo – che la «libertà di parola» voglia dire, sostanzialmente, «anarchia di parola». E il significato di tutto questo viene completamente travisato. Uso solo un caso come esempio, ed è il triste nodo di Charlie Hebdo. Da qualche mese, ogni qualvolta una discussione verte sul mettere o meno in luce le contraddizioni di qualsiasi pensiero, ogni qualvolta si argomenti contro il senso comune, ogni qualvolta si lavori per complicare la cornice di una realtà dove siamo abituati a dare risposte semplici, la risposta è sempre la stessa: Je suis ________ [inserire nome della causa: dal caso dei due marò ai taxisti contro Uber].

Come se porre l’accento sulle contraddizioni nelle nostre architetture di pensiero equivalga alla censura. Come se ogni pensiero fosse lecito in nome della «libertà di parola». Laddove ‘ogni pensiero’ inserisce propaganda nazi-fascista, negazionismo, omofobia, oscurantismo, disinformazione scientifica.

Tutto è lecito. Tutto è permesso. Perché ormai siamo al liberi tutti, all’«anarchia della parola». Non esistono più confini, non esistono limiti tra le libertà personali urtate. Dove si usa Voltaire a sproposito (anche perché pare non abbia mai detto di non essere d’accordo con quello che dici «…ma darei la vita perché tu lo possa dire») per giustificare qualsiasi pensiero possa girarci in testa e qualsiasi cosa possiamo dire, fare e pubblicare. Come se Internet, contraendo lo spazio e il tempo, annullando i confini, avesse distrutto anche il senso della responsabilità.

Perché in un contesto del genere «libertà di parola» vuol dire «responsabilità di parola». E tutti noi che ne facciamo uso – più o meno consapevolmente – dobbiamo esercitarla prima di ogni altra cosa.

Rifletto da tempo sull’uso e il consumo dei social quando sei un personaggio pubblico. E il ragionamento è in realtà valido anche quando non lo sei. Quando pubblichi qualcosa – sia esso su Twitter, Facebook, il tuo blog – hai appena creato una fonte. Hai appena creato un contenuto che può essere usato, può essere citato, può essere parafrasato. Hai appena creato un testo, di cui sei responsabile autografo (sulle questioni della proprietà sulle piattaforme social non mi addentrerei). Ed è per questo che anche per scrivere su Facebook o Twitter ci vuole una sorta di atto di responsabilità. Perché ogni volta che si usa una parola si compie un atto ‘politico’. Ogni volta che si scrive si esprime una posizione, una visione del mondo. Dalle foto del gatto al racconto dell’ennesima sfiga quotidiana. Dalle opinioni da bar sciorinate su Facebook agli insulti scritti alla leggera su Twitter in risposta al parlamentare di turno. Tutto questo è testo, tutto questo è fonte.

Cosa succede, ad esempio, quando un ‘uomo qualunque’ come Fabio Tortosa, poliziotto alla Diaz, scrive che nella scuola di Genova rientrerebbe altre mille volte? Fabio Tortosa non esprime niente che non sia una sua posizione. Ma lo scrive su Facebook. Prende una parte, fa politica, e lo fa pubblicando una cosa che a conti fatti diventa una fonte. Non importa che Fabio Tortosa sia un singolo cittadino. Fabio Tortosa non è uno scrittore, non è un giornalista, non è un politico, non è un ‘agente pubblico’. Fabio Tortosa esprime l’opinione di Fabio Tortosa, eppure questo commento è stato discusso, analizzato, ha suscitato reazioni al punto che il poliziotto ha dovuto rettificare, fare ammenda, subire le conseguenze.

Insomma, ogni testo diventa un ‘atto politico’ laddove per politico si intende espressione di una posizione, di una visione del mondo, di uno schema di pensiero.

Nella sua riflessione, Claudia scrive:

Il tuo comportamento in rete fa sì che tu possa essere selezionato ed espulso dal sistema dell’informazione. È la stampa bellezza, e questa storia non è la mia perdita dell’innocenza: quella, se avessi voluto preservarla, avrei fatto un altro mestiere. Ma è sicuramente una storia che mi spingerà a essere più cinica e calcolatrice, quando credevo di esserlo diventata già abbastanza; un episodio che affligge il residuo marginale di ideale con cui affronto la pratica giornalistica, seppure in maniera informale.

E, soprattutto, è una storia che mi spinge a pensare che io Twitter devo continuare a usarlo per postare le foto dei posti fichi in cui sono stata e dei libri interessanti che ho letto.
Nel dirlo mi rendo conto di aver perso qualcosa.

Spero di non metterci anni a capire cos’è, e di non deprimermi troppo nel frattempo, nella consapevolezza che fa parte del gioco e posso accettarlo.

Prima, però, devo capire che si tratta di un gioco.

Questo ‘segnale di resa’ è pericoloso perché segnala la nostra totale subalternità rispetto a due tipi di meccanismi.

Da un lato, il più classico dei ‘rapporti di forza’. Qualcuno ha il potere di agire su di te sull’onda emotiva e sul fraintendimento (l’architettura del pensiero umano è spesso più complessa di 140 caratteri). Dall’altro, la dipendenza dalle logiche della comunicazione istantanea. Twitter e Facebook sono scivolosissimi e hanno le loro crudelissime regole. Sono uno spazio considerato privato che in realtà è la più grande ‘tribuna politica’ della storia dell’umanità. Ogni gesto deve essere non immediato, non onesto, pensato, riflettuto, meditato.

Questo ci rende meno ‘onesti’? Credo di no, ma è indubbio che quando Claudia scrive: «[…] ho perso qualcosa» esprime il rammarico di chi non si sente più libero di scrivere un pensiero senza la possibilità di argomentare. E il segnale di resa è dire che si tratti di un gioco. Questo non è un gioco, ma un campo completamente nuovo, che tutti stiamo usando secondo le nostre personali sensibilità empiriche. Perché nel giardino dei social media vincono comunque le logiche della tribù, non ancora quelle della comunità. E se il tuo capo-tribù abusa del suo potere – soprattutto quando la tua opinione non è nemmeno vincolata all’opinione del corpo complessivo cui fai riferimento (nessuno qui viene pagato a sufficienza per essere diretta emanazione di un giornale o di qualcos’altro, a meno che non ci sia un contratto che lo dice) – non è un problema tuo, che hai perso qualcosa, ma è un problema suo.

La «responsabilità» delle nostre parole sono questo. Claudia scrivendo quel Tweet non pensava di fare un atto politico, ma ne ha subito le conseguenze. Tutti noi, quando scriviamo un Tweet o uno status su Facebook compiamo un atto politico di cui siamo ‘proprietari’ (se non altro morali). La logica della conseguenza, invece, è ancora tutta da verificare in un paese e in un ecosistema in cui la libertà/responsabilità di parola, critica e di espressione effettivamente la accettiamo solo quando non fa altro che accettare il sistema per quello che è.

@hamiltonsantia

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