I Google glass non sono ancora nati, occhio a darli per morti

22 Novembre 2014

«I Google Glass? Li ho lasciati in macchina». A dirlo non un nerd qualsiasi ma il co-fondatore di Google Sergey Brin, interpellato da un giornalista a margine di un evento nella Silicon Valley. L’affermazione, rilanciata dall’agenzia Reuters, fa notizia perché Brin da un paio d’anni non usciva mai in pubblico senza i suoi Glass, quasi a voler rimarcare l’impegno dell’azienda nello sviluppo degli occhiali smart presentati all’inizio del 2013. La profezia sulla morte dei Google glass, ancora in fasce, è poi esplosa rapidamente sul web. Reuters ha intervistato sedici produttori di app per Glass: nove hanno confermato che abbandoneranno lo sviluppo dei loro software per gli occhiali smart. Il motivo? Duplice. Da una parte mancano i clienti, dall’altra il dispositivo ha ancora troppe limitazioni per poter esplodere a livello commerciale.

«Se ci fossero 200 milioni di Google Glass venduti, ci sarebbe una prospettiva diversa, ma così non c’è mercato», dicono gli sviluppatori. Una logica commerciale condivisibile. Ma non l’unica da prendere in considerazione. Il prezzo dei Glass è alto: 1.500 dollari per una versione demo (Explorer edition) che, come detto, ti dà l’idea di un prodotto del futuro, ma ti riporta subito indietro nel tempo per le tante pecche presenti. La batteria dura troppo poco, l’audio a conduzione ossea è di scarsa qualità, la tenuta globale del dispositivo è scadente. Tanti esemplari sono rientrati alla base per problemi dovuti all’umidità. Per un altro, verso i Google glass diventano una vera e propria estensione del corpo. Dal piccolo schermo in alta definizione è possibile leggere mail, inviare messaggi, guardare il navigatore. Si possono effettuare e ricevere chiamate senza l’utilizzo delle mani. L’arrivo poi delle prime applicazioni che sfruttano la realtà aumentata sta fornendo un’esperienza d’uso mai vista prima.

Il punto fondamentale sul quale interrogarsi è se stia fallendo l’attuale versione dei Google Glass o se le tecnologie indossabili (wearable technology) applicate agli occhiali siano ancora distanti dagli interessi e dalla volontà delle persone comuni. Perché se è vero che i Google Glass attuali sono piuttosto acerbi, è altrettanto vero che il potenziale mostrato è interessante. A dimostrarlo è l’attenzione che anche altri grandi produttori mondiali stanno riservando al settore. Google ovviamente non ha confermato la possibilità che il progetto Glass venga abbandonato. Chris O’Neill, capo dell’unità che si occupa degli smartglass, ha respinto l’idea: «Siamo stimolati dall’opportunità che i Glass possono rappresentare e siamo impegnati per un lancio commerciale. Ovviamente questo non arriverà fin quando il prodotto non sarà assolutamente pronto». Del resto anche l’arrivo a Mountain View di Ivy Ross, un ex dirigente di Calvin Klein, lontana per formazione ed esperienze lavorative dal settore tecnologico, sembra confermare l’intenzione di Big G di lanciare i Glass nel mondo consumer. Le partnership con Luxottica e Diane von Furstenberg vanno nella stessa direzione.

Se il lancio commerciale dei Google glass sembra quindi rimandato al 2015,  l’applicazione degli smartglass al mondo del business sta trovando alcuni riscontri positivi. In ambito medico, per cominciare. Dove i Google Glass sono impiegati per fornire ai futuri medici uno strumento di apprendimento diretto, che li porti in sala operatoria insieme al chirurgo e permetta loro di interagire in tempo reale con chi sta conducendo l’intervento. Oppure per le cartelle cliniche dei pazienti, riprodotte sullo schermo dei Glass, quando il medico li visita in corsia. Non solo sanità, anche l’industria sembra voler sperimentare soluzioni lavorative con gli smartglass. General Motors sta testando in due stabilimenti americani l’utilizzo degli occhiali nelle proprie strutture. Dopo un primo periodo di sperimentazione, la compagnia aerea Virgin ha promosso l’utilizzo dei Glass anche all’interno dell’aeroporto di Heathrow. Qui gli smartglass vengono utilizzati nella fase del check in e per dare informazioni ai passeggeri in partenza dallo scalo di Londra. Non solo grandi realtà, alcune idee innovative per i Google Glass sono nate anche da piccole startup. È il caso di Captions: tre studenti americani di Pittsburgh che stanno cercando di abbattere le barriere linguistiche attraverso una semplice app per occhiali evoluti. Il sistema messo a punto prevede una traduzione in tempo reale di una frase, un discorso o una parola pronunciata da una persona di fronte ai Google Glass in una lingua che non sia la nostra. Captions, a quel punto, traduce istantaneamente le parole nella nostra lingua e ci mostra la traduzione nello schermo dei Glass. I campi di applicazione sono potenzialmente infiniti: dal turismo al soccorso medico passando per l’istruzione, la possibilità di avere una traduzione istantanea sempre a portata di mano contribuirebbe ad abbattere le barriere linguistiche in modo semplice e veloce.

 

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Potenzialità importanti i Glass le hanno mostrate anche nel giornalismo e, più in generale, nella produzione di notizie. «I Google Glass sono un computer sulla tua faccia, ancora non molto potente, ma io credo che in futuro porteranno grandi cambiamenti anche nel giornalismo». A pensarla così è Robert Hernandez, giornalista americano pioniere del web, professore associato  alla USC Annenberg School for Communication and Journalism, l’università della California del sud. Hernandez è stato direttore dello sviluppo del Seattle Times, dove si è occupato anche della creazione di strumenti e applicazioni per la fruizione del giornalismo da parte dei lettori. Oggi è noto negli Stati Uniti per essere stato il primo a  pensare un corso universitario di Glass Journalism. Con la sua classe, in pratica, sta studiando nuovi linguaggi di comunicazione giornalistica attraverso quegli strumenti tecnologici indossabili di cui i Google Glass sono, al momento, la declinazione più conosciuta. Ma i ragazzi del corso fanno anche altro. Studiano, in una sorta di brainstorming permanente, nuovi modelli di business per chi produce informazione. Gli smartwatch e gli smartglass, con l’avvento di giganti come Google e Apple, saranno – dice Hernandez  – “gli smartphone di domani”. E chi oggi fabbrica notizie sta già pensando a come costruirle con nuovi linguaggi e veicolarle attraverso queste piattaforme. Il corso di Hernandez cerca di immaginare l’idea che fra tre o cinque anni giornalisti, editori e lettori avranno dell’informazione.

Hernandez non è un fanatico dei Google Glass. Ne riconosce l’importanza nello sviluppo della wearable technology, ma non manca di criticarne tutti quegli aspetti negativi evidenziati anche dall’articolo di Reuters: «Oggi negli Stati Uniti non tutti hanno una visione positiva di questi strumenti. Molti li considerano gadgets per ricchi o peggio occhiali per spiare le persone. Invertire questo trend non sarà facile. Gli smartglass sono una categoria di prodotto del tutto nuova. Questo è un elemento che chiaramente ne penalizza la diffusione. Però l’accordo di Google con Luxottica per la produzione di modelli più commerciali è una giusta intuizione».

Il giornalismo, quindi, potrebbe diventare un campo di applicazione perfetto per gli smartglass di Google, ma anche di altri produttori. «I vantaggi – sottolinea Hernandez – sono relativi alla narrazione di un fatto e al linguaggio. Nessuno strumento ti consente un punto di vista così personale come una telecamera e un microfono su un paio di occhiali. Anche nell’utilizzo la possibilità di scattare foto e registrare video senza utilizzare le mani è utile per chi produce contenuti giornalistici». Ragionamento che trova una sua applicazione pratica nel lavoro svolto con i Glass da Tim Pool, giornalista di Vice che con gli occhiali di Google ha raccontato la rivolta dei giovani di Istanbul a Gezi Park. Oppure un ottimo strumento per il citizen journalism, come dimostrato da Kenny Zhu nel suo servizio sulla Corea del Nord, caricato sulla piattaforma iReport di CNN. Chiaramente lo sviluppo di un mercato di questo tipo passa per la diffusione di dispositivi come i Google Glass che, secondo Hernandez, potrebbero diventare uno strumento di passaggio tra la ricezione dell’informazione e il suo approfondimento: «Ricevere una notizia sullo schermo dei propri occhiali è la cosa più immediata che ci sia. Poi ognuno di noi potrà decidere se approfondire ciò che ha letto o ascoltato. Magari tirando fuori dalla tasca il proprio smartphone. Sarà compito di chi produce informazioni rendere interessanti quelle poche righe per portare chi riceve la notizia ad approfondire».

Insomma, se l’arrivo sul mercato dei Google Glass sembra destinato a slittare almeno al 2015 e i problemi, privacy su tutti, abbondano, la wearable technology gode di buona salute. I campi di applicazione non mancano, l’interesse dei grandi player mondiali nemmeno. Se dovesse fallire il progetto Glass, altri prenderanno il suo posto. Del resto, l’arrivo imminente del primo smartwatch Apple ha riportato l’attenzione sugli orologi intelligenti, dati anch’essi per morti (prima di nascere) da molti osservatori negli ultimi mesi. Con gli smartglass potrebbe succedere la stessa cosa. Tra quelli che criticano apertamente i Google glass, molti non solo non li hanno mai indossati, ma non li hanno mai nemmeno visti da vicino. Pericoloso, quindi, prendere per oro colato analisi su una tipologia di prodotto del tutto nuova, che fa della sua esperienza d’uso un punto di forza, nonostante tutti i limiti dell’attuale versione proposta da Google. Le profezie servono a poco e valgono altrettanto. Chiedetelo a Lee De Forest, di professione inventore: «Benché la televisione sia forse realizzabile dal punto di vista teorico e tecnico, dal punto di vista commerciale ed economico è impraticabile».

TAG: google glass, luxottica
CAT: Internet delle cose, Tech & Media, Uncategorized, wearable technology

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