“Adelina poteva e doveva essere salvata. Una donna che denuncia da una diretta Facebook che intende suicidarsi per la disperazione a seguito degli abusi di potere subiti sta chiedendo aiuto. Appena ho visto il video ho chiamato immediatamente il 113 in prima persona, per denunciare che c’era una donna in stato di shock che stava dichiarando di volersi suicidare. Non hanno fatto niente per salvarla, e non hanno prestato alcun ascolto al mio allarme.”
Daniel Schiano, ex carabiniere, è uno dei più cari amici di Adelina/Alma Sejdini, la donna di 47 anni nata in Albania, ex vittima di tratta a scopo sessuale, trovata senza vita dopo la caduta da un ponte di Roma, sabato 6 novembre. Adelina112, questo il nome di battaglia che si era scelta, era una grande amica delle forze dell’ordine italiane. Aveva dato un contributo decisivo a sgominare una banda di criminali albanese che faceva profitto con il racket della prostituzione, e questo le era valso la stima e l’affetto di tanti componenti delle forze dell’ordine, affetto che lei ricambiava. Adelina, come hanno raccontato tanti media, era stata rapita e trasportata nel nord Italia per prostituirsi quando aveva 17 anni, insieme ad altre ragazze, alcune delle quali appena quattordicenni. Oltre vent’anni fa grazie alle sue denunce furono arrestate 38 persone, 33 albanesi e 5 italiane, e a quell’operazione fecero seguito diverse altre. Il suo coraggio le valsero grande stima presso le forze dell’ordine, con le quali in seguito continuò a collaborare anche in qualità di interprete. “Considerava poliziotti e carabinieri come la sua famiglia”, conferma Chiara, una delle sue compagne attiviste nel gruppo Resistenza Femminista, con il quale dal 2014 aveva cominciato a impegnarsi a favore dell’abolizione della prostituzione. Schiano lo conferma: “Adelina e io ci siamo conosciuti proprio grazie alle pagine Facebook che entrambi gestivamo sui carabinieri, pagine con decine di migliaia di follower”, racconta. “Questa passione ci univa e se non si comprende quanto forte fosse il suo amore per la famiglia delle forze dell’ordine, non si può capire neanche la profondità della sua sofferenza nei giorni scorsi, dopo essersi vista trattata come una criminale proprio da coloro che stimava di più.”
Il 5 novembre, il giorno prima di morire, Adelina viene fermata da una pattuglia di polizia durante una protesta solitaria al Viminale. Viene sottoposta a indagine per resistenza a pubblico ufficiale e le viene rilasciato un DASPO urbano della durata di un anno, in ossequio alla stretta repressiva sulla libertà di manifestare voluta dall’ex ministro dell’Interno Marco Minniti per primo, con i decreti del 2017, e successivamente ribadita tanto da Salvini quanto da Lamorgese.
Che cosa stava facendo di male Adelina, da sola davanti al Viminale, e che pericolo poteva rappresentare per la pubblica sicurezza? Aveva bisogno di attirare l’attenzione delle istituzioni, come lei stessa aveva dichiarato persino in TV, perché riteneva di aver subito un abuso di potere dall’Ufficio immigrazione di Pavia. L’ultimo rinnovo del permesso di soggiorno rilasciatole riportava infatti due dati falsi, entrambi con conseguenze possibilmente devastanti sulla sua vita. Il primo dato falso era l’indicazione sulla cittadinanza: c’era scritto “cittadinanza albanese”. Ma Adelina non era albanese, era apolide già da molti anni. Sul permesso c’era riportata una informazione non vera, “e per lei, che aveva rifiutato la cittadinanza albanese proprio per la sua storia di schiavitù da cui con tanta forza si era riscattata, ma che all’epoca le era valsa il ripudio da parte della sua famiglia d’origine come raccontava nel suo libro, quella scritta sul suo documento era un dolore immenso”, racconta Chiara. Al dolore si era aggiunta la preoccupazione: se sei considerata di cittadinanza albanese, in caso di irregolarità sul tuo permesso di soggiorno le autorità hanno diritto di rimpatriarti. E come Adelina stessa ha spiegato in TV, “se mi rimpatriassero in Albania sarei una donna morta”, per via delle sue denunce e delle condanne cui avevano portato.
Il secondo dato falso riportato sui documenti è che il permesso di soggiorno le veniva concesso per motivi di lavoro. Il permesso invece le era stato conferito per motivi umanitari. Adelina non lavorava, era anzi stata riconosciuta al 100% invalida, dopo che un violento cancro al seno l’aveva costretta a una mastectomia bilaterale e a diverse altre operazioni. “Aveva paura che, a causa di quella dicitura sbagliata, le potessero togliere la pensione d’invalidità, per quanto misera, cui aveva diritto, e l’accesso alle case popolari che aveva finalmente conquistato”.
Un documento sbagliato dalle conseguenze potenzialmente gravi, per rettificare il quale “a Pavia le avevano chiesto di rivolgersi a un avvocato, non riconoscendo gli errori commessi”, è stata la ragione per la quale Adelina, che aveva avuto anche un infarto a settembre scorso, si era decisa a una protesta visibile ed estrema per attirare l’attenzione delle istituzioni, affinché le concedessero i pieni diritti di cittadinanza, che non aveva mai ottenuto nonostante vivesse in Italia da 25 anni e nonostante i meriti che le erano stati riconosciuti.
“Invece non soltanto non è riuscita ad attirare l’attenzione delle istituzioni, bensì moltissime delle istituzioni dello Stato che avrebbero avuto il dovere di garantire la sua incolumità l’hanno trattata con un’incuria spaventosa e con atteggiamento punitivo. Com’è possibile che, ricoverata in ospedale per aver cercato di darsi fuoco, sia stata fatta uscire dopo appena pochi giorni? Com’è possibile che i poliziotti che l’hanno fermata davanti al Viminale l’abbiano trattata come una criminale, rilasciandole un foglio di via, invece che farle un TSO? E com’è possibile che il 113 non abbia agito tempestivamente dopo la mia chiamata, in presenza addirittura di un video che annunciava un’intenzione suicida?”. Sono le domande su cui Schiano non si dà pace dopo la morte della sua amica, per questo è intenzionato a sporgere denuncia sulla vicenda e si è autoconvocato presso il Commissariato che al momento segue le indagini – il commissariato di Polizia Ferroviaria di Roma Termini – affinché si indaghi e si faccia luce su eventuali abusi di potere subiti da Adelina/Alma nelle ore subito prima della morte. Anche Resistenza Femminista ha dato mandato a un’avvocata per indagare su eventuali responsabilità per la decisione che ha preso Adelina e su cosa l’abbia spinta a suicidarsi. E lanciano un appello “a tutte le associazioni desiderose di partecipare ad unirsi a noi, perché quello che è successo ad Adelina non deve succedere ad altre donne e chissà quante altre donne sono nella sua stessa situazione”. Al momento, spiega Chiara, “troppe cose sono oscure rispetto alle circostanze in cui ha trascorso l’ultimo giorno della sua vita e anche rispetto alla sua morte. Non è chiaro neanche da quale ponte si sia eventualmente gettata. Alcune ricostruzioni giornalistiche dicono sia il Ponte Garibaldi a Roma, altre parlano di un cavalcavia ferroviario”. Al commissariato si sono rifiutati di confermare questo semplice dato, dicendo che non possono rilasciare dichiarazioni. “Ma per noi rimane una certezza: quale che sia il luogo da cui è volata giù, Adelina poteva essere salvata. Sarebbe bastato ascoltare l’allarme di Daniel al 113, se non trattarla umanamente e con rispetto in tutte le circostanze precedenti in cui ha avuto a che fare con forze dell’ordine e personale dello Stato nei giorni in cui era a Roma. Senza parlare del fatto che in un Paese più attento alle condizioni di vita delle donne, Adelina come ex donna prostituita avrebbe dovuto godere di tutele ben maggiori rispetto a quelle oggi garantite dall’Articolo 18 del Testo Unico sull’immigrazione, che offre alle vittime di tratta un permesso di soggiorno rinnovabile, non permanente, e forme di tutela per un periodo di tempo di appena sei mesi. Adelina – spiega Chiara – si era unita a Resistenza Femminista perché come noi era una fervente abolizionista della prostituzione: aveva piena consapevolezza, per l’esperienza vissuta sulla sua pelle e su quella delle altre donne a lei vicine, che i clienti della prostituzione sono più che consapevoli di star pagando per ottenere il diritto a stuprare le donne prostituite, e che a loro sta benissimo così. La prostituzione è un abuso di potere da parte del cliente nei confronti delle donne prostituite; la legge abolizionista, quella in vigore in Francia, Israele, Irlanda o nei Paesi del Nord Europa, riconosce questo assunto di base, cioè che ogni donna prostituita è vittima di abuso e come tale deve poter ricevere sostegno, se lo richiede. Ciò significa, nei Paesi che hanno perfezionato questa legge, accesso a un programma d’uscita dalla prostituzione, un permesso di soggiorno, poter vivere in un luogo protetto, avviamento al lavoro e assistenza psicologica gratuita.”
Adelina Sejdini aveva difeso queste posizioni sempre a testa alta, polemizzando anche in modo trasparente con il movimento Non una di meno per l’uso a suo dire mistificatorio, da parte delle loro attiviste, del termine “sex work” per definire la prostituzione. Nel 2017, durante una difficile assemblea nazionale del movimento “Non una di meno” che sarebbe dovuta servire alla preparazione di un Piano antiviolenza da presentare alle istituzioni, fu accusata di “negare il diritto all’autodeterminazione” alle Sex Worker, proprio lei che aveva aiutato centinaia di donne ad affermare il proprio diritto a non prostituirsi. In seguito rilasciò un comunicato in cui disse: “In tutta la mia vita, non ho mai assistito ad un piano anti violenza basato sull’ apologia della prostituzione e che proponga la prostituzione come autodeterminazione della donna e suo percorso di emancipazione.” L’intervento di Adelina e la risposta piccata dei collettivi di Sex Worker, cui le reggenti della pagina di Non una di meno decisero di dare ufficialità di posizione formale, segnarono una divaricazione definitiva fra due femminismi, che da allora non si è mai più ricomposta: da una parte il femminismo abolizionista, convinto che la prostituzione insieme alla pornografia siano un esercizio di abuso sui corpi delle donne da parte degli uomini e che lo Stato debba tutelare le donne dalla violenza subita dai clienti oltre che dagli sfruttatori; e dall’altra il transfemminismo, che invece considera il lavoro sessuale un lavoro come un altro, una forma di autodeterminazione, e che propugna una regolamentazione del commercio del sesso simile a qualsiasi altro business.
Nel corso del tempo, queste divergenze sono sfociate anche in attacchi da parte delle attiviste transfemministe, come quelli nei confronti dell’ex prostituta Rachel Moran, autrice di un libro in cui racconta la sua storia di donna prostituita riflettendo sulla violenza insita in questa condizione, duramente contestata da gruppi mascherati che cercarono di disturbarne la presentazione a Roma. O più di recente, a Firenze, dove alcune attiviste si sono viste strappare i cartelli da un gruppo di attivisti transfemministi. Nonostante le divergenze profonde con Adelina e le sue compagne, e senza farvi cenno, il movimento Non una di Meno di Pavia ha indetto per il 25 novembre una manifestazione in suo nome, con un comunicato in cui denuncia la sua morte come “un femminicidio a opera delle istituzioni”.
Su questo femminicidio, Daniel e le attiviste di Resistenza Femminista hanno deciso di chiedere verità e giustizia.
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.