Non chiamateci cervelli in fuga
Sono stati pubblicati da poco i dati Istat che certificano un crollo degli immigrati che giungono in Italia (307mila, -43mila dal 2012) e un aumento degli italiani che invece vanno all’estero (82mila, +14mila rispetto al 2012) [1]. L’occhio frettoloso mette insieme le due cifre e le raffigura come una fabbrica, dove l’input diminuisce e gli scarti aumentano. Aggiungici che il profilo di maggior consistenza tra gli emigranti è quello di laureati ed ecco che si arriva al giudizio sommario: l’economia va male, ma cosí male, che non solo perdiamo attrattività nei confronti della manodopera semplice (gli extracomunitari), ma perdiamo persino pezzi della nostra elite, i cosiddetti cervelli in fuga.
Quando sento o leggo questa locuzione e penso alla mia storia personale (vivo fuori dall’Italia dal 2010), a quella dei miei colleghi italiani, e a quella degli immigrati dalle zone svantaggiate del mondo, il mio sangue ribolle di rabbia, perché parlare di fuga, come se frotte di italiani con una laurea in valigia scappassero dalla fame e dalla povertà, è palesemente errato. E’ soprattutto ingiusto nei confronti di chi invece davvero attraversa mari e deserti nella speranza di una vita migliore. Si tratta di gente ambiziosa, che sarebbe volentieri rimasta in Italia se non avesse avuto particolari aspirazioni nella vita; dopotutto, i laureati trovano ancora lavoro piú facilmente dei non laureati, nonostante la disoccupazione giovanile dilagante [2].
Negare l’evidenza della situazione economica non favorevole sarebbe ipocrita da parte mia, ma altrettanto ipocrita è la descrizione di questi fantomatici “cervelli in fuga”, spesso visti in chiave utilitaristica da chi la fuga non l’ha voluta fare e però si è andato a calcolare la perdita in milioni di euro in formazione scolastica e universitaria. Noto poi un altro media bias, ossia la tendenza a vedere chiunque se ne vada dal Belpaese come il soggetto di una famosa canzone di Claudio Villa [3], che DEVE tornare in virtú dei legami familiari e nazional-protezionistici che impongono che il genio italiano (qualora di genio si trattasse) vada espresso nel Paese migliore che c’è, ossia il nostro.
La verità, a mio avviso, è un’altra. La verità è che se l’Italia è conciata come è conciata è perché la classe dirigente e imprenditoriale non solo è autoreferenziale e familistica, ma soprattutto ha
1. poche qualifiche (terzultimi tra i paesi OCSE per educazione terziaria [4])
2. bassa attitudine al problem solving (leggi analfabetismo funzionale [5])
3. poca propensione a investire in ricerca e sviluppo [6]
Insomma, un certo giornalismo piagnucolone vede ancora i laureati con valigia come una perdita e non come un investimento che queste persone stanno facendo sul proprio futuro. Ancor peggio, si fa finta di non vedere i 140.000 tedeschi che ogni anno se ne vanno dalla Germania [7], probabilmente per ragioni affini a quelle dei loro omologhi italiani, ossia studio, lavoro e formazione avanzata. Perché uno scienziato o un imprenditore che non è disposto a passare una parte della propria vita all’estero dimostra la stessa cognizione di quello che il proprio lavoro sottintende di un ginecologo obiettore. Per sciovinismo (?), per abitudine (?), per sentito dire (?) invece è piú facile applicare la stessa chiave di lettura usata per i migranti che mandavano le rimesse dall’estero o che venivano scambiati per un equivalente di quintali di carbone. Il livello d’analisi quindi non è piú profondo del testo mammone della canzone di Claudio Villa.
La narrativa dei “cervelli in fuga” fa molto comodo ai giornalisti, tanto che esiste una categoria omonima sul Fatto Quotidiano che riporta storie di ricercatori di alto profilo strappati alle amate campagne d’origine, dove sicuramente avrebbero portato a conclusione le proprie ricerche in neurobiologia o robotica.
Chi se ne va all’estero ora non va a fare i lavori cosiddetti umili come quarant’anni fa, va a valorizzare ed accrescere la propria professionalità. Si loda tanto l’apertura delle frontiere e poi ci si lamenta se qualcuno si azzarda a oltrepassarle nel senso non desiderato e si sottrae dall’analisi il fatto che i tedeschi, i francesi e gli inglesi da noi non ci vengono a lavorare, forse anche per lo spiccato provincialismo delle nostre università e aziende. Le migliaia di emigranti di questi decenni sono api che cercano il miglior nettare da riportare all’alveare. Torneranno, torneremo, anche per il bene dei piagnucoloni. Però nel frattempo piantatela di chiamarci cervelli in fuga.
[1] http://www.istat.it/en/archive/141477
[2] http://www.scuola24.ilsole24ore.com/art/universita-e-ricerca/2014-10-10/foto-gruppo-cinque-anni-laurea-ecco-chi-guadagnadi-piu-e-chi-ha-lavoro-stabile-163213.php?uuid=ABzvy01B
[3] https://www.youtube.com/watch?v=slUvEe_IJvA
[4] http://www.oecd.org/education/skills-beyond-school/48630299.pdf
[5] http://skills.oecd.org/documents/OECD_Skills_Outlook_2013.pdf
[6] http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/science_technology_innovation/introduction
[7] https://www.destatis.de/DE/ZahlenFakten/GesellschaftStaat/Bevoelkerung/Wanderungen/Tabellen/WanderungenDeutsche.html
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