Letteratura
Primo Levi per un giorno della memoria che sfidi tutti i pregiudizi
Il Giorno della memoria di quest’anno è decisamente significativo, per una ricorrenza deputata a celebrare un anniversario: nel 2015 ricorrono i settant’anni dal giorno in cui le truppe sovietiche aprirono i cancelli di Auschwitz, dando inizio al lungo processo che avrebbe portato alla formazione di una coscienza collettiva dell’orrore dello sterminio.
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Io, però, sono sempre stato piuttosto scettico sull’adeguatezza di un’iniziativa come questa. In primo luogo, su un piano generale trovo sempre piuttosto artificioso “calendarizzare” il ricordo e la riflessione, esperienze tanto più efficaci quanto più sorgono spontaneamente dalle esperienze culturali. Del resto, per quanto riguarda il nostro specifico caso nazionale, la promozione delle iniziative della giornata da parte di un’amministrazione pubblica e di una classe dirigente che a causa della continua riduzione di risorse per le istituzioni culturali hanno ridotto al minimo la possibilità di proporre momenti di coinvolgimento del pubblico nelle attività di aggiornamento e discussione sul passato suona davvero come una foglia di fico per lavarsi la coscienza dello stato in cui versa la nostra cultura diffusa. Peggio ancora, poi, se la memoria pubblica viene ritualizzata con parole e azioni sempre più spesso uguali a se stesse, finendo per stimolare nel pubblico una crescente freddezza nei confronti di un’abitudine annuale, che se maldigerita potrebbe anche portare qualcuno a disamorarsi verso la “verità” veicolata dal “potere” e a prestar fede per reazione a strampalate letture alternative.
La questione si complica ulteriormente se si pensa al fatto che gli obiettivi del Giorno della memoria non devono esaurirsi alla semplice condanna del genocidio perpetrato dai nazisti e, al limite, di altri orrori di simile gravità che hanno costellato il passato (specie recente) della storia umana. Il problema posto dalle commemorazioni dovrebbe invece quello di stimolare il senso critico di ognuno alla scoperta delle origini profonde di certi sentimenti, di certi comportamenti e della loro più o meno esplicita condivisione.
L’aspetto fondamentale che oggi gli studi dovrebbero passare alla coscienza diffusa in queste occasioni di riflessione collettiva, per evitare che diventino semplici cronache e testimonianze di fatti già più volte ripetute (e ormai in modo sempre meno accurato, visto che la scomparsa di diversi testimoni sta portando, ad esempio, a presenziare nelle scuole i loro figli, in una sorta di legittimazione istituzionale di “testimonianze di secondo livello” pericolosissime sul piano della distorsione della realtà e dell'”imbalsamazione” di un racconto sempre più distante dalle sue fonti vive), è infatti quello relativo al complesso intreccio di convinzioni, stereotipi, immagini, discorsi, pregiudizi che hanno attraversato la cultura occidentale, senza essere intaccati dallo sviluppo scientifico e intellettuale ma anzi finendo per “ibridarsi” in esso assumendo forme nuove e sempre più difficili da arginare, fino a costituire una base, se non di pieno consenso, quantomeno di assuefazione e di accettazione del crescendo di discriminazioni e violenze giunto fino allo sterminio. Attraverso il confronto con questa “normalità” dell’odio e dell’esclusione che alligna nelle coscienze passando quasi inosservata potrebbe infatti spingere ciascuno di noi a fare i conti in forma meno retorica con fantasmi assai meno lontani dalla società che ci circonda di quanto possa sembrare.
In effetti è questo un problema che sento emergere tra i miei amici che, insegnando Storia al liceo, sono in prima linea nel tentativo di rendere effettivamente utili sul piano didattico le iniziative del Giorno della memoria. In classe, mi si riferisce, solitamente non si incontrano difficoltà a ispirare sentimenti di simpatia e di partecipazione nei confronti dei perseguitati degli anni Trenta e Quaranta (se si eccettuano, ovviamente, sporadici casi di studenti rumorosamente iconoclasti per un evidente bisogno di attirare l’attenzione). Per fortuna, dopo una una circolazione straordinariamente duratura da cui l’Italia non è risultata affatto estranea, sembrano ormai distanti dalle coscienze dei ragazzi le accuse pregiudiziali e gli stereotipi etnici veicolati negli ultimi secoli dal discorso antiebraico, e la forza che essi hanno dimostrato fino a tempi relativamente brevi appare ai loro occhi difficile finanche da comprendere come possibile. Però, se qualche docente cerca di ampliare il discorso mettendo in gioco idee e convinzioni che ai suoi interlocutori dall’altra parte della cattedra suonano appena meno astratte, il gioco si fa più difficile. Chi inorridisce di fronte al racconto dei pogrom ottocenteschi o delle violente opposizioni alle legislazioni emancipatrici degli ebrei europei spesso, troppo spesso, riversa sugli “zingari”, sui “clandestini”, sui “rumeni”, o su qualunque categoria dei persone abbia imparato a disprezzare nel proprio ambiente sociale una ostilità preconcetta e totalizzante di cui non riesce neppure a cogliere la somiglianza, quantomeno nella sostanziale infondatezza logica dell’attribuzione a un gruppo comportamenti e tendenze di natura strettamente individuale, con la marea di pregiudizio che ha accompagnato il montare dell’odio antisemita. Non riesce perché quest’ultimo, essendogli estraneo, è falso, mentre le giustificazioni della sua intolleranza, appartenendogli e rendendogli più facile vivere gli atteggiamenti discriminatori di cui sente di aver bisogno, sono “vere”.
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A questo punto, quel che servirebbe sarebbe mettere questi giovani a contatto con i tanti studi che rivelano la “tecnologia” dei pregiudizi, il loro farsi attraverso la manipolazione della realtà sotto gli occhi dell’opinione pubblica fino ad assimilarne l’aspetto alla condanna collettiva che si intende veicolare. Il punto di partenza per questo accidentato percorso, a mio avviso, non può non essere I sommersi e i salvati, il saggio con cui nel 1986, l’anno prima di morire, Primo Levi cercò di confrontarsi nella propria esperienza di sopravvissuto all’Olocausto coi rappresentanti di un’opinione pubblica che faticava ad accettare il fatto-sterminio come elemento appartenente al divenire storico del genere umano, e a rielaborarne in forma il più possibile “inoffensiva” e autoassolutoria la memoria, dopo che magari aveva cercato, negli anni del nazismo, di rimuovere o sminuire i fatti in presa diretta.
Significativo, in particolare, è il passaggio (in Opere, Torino, Einaudi, 1987, pp. 740-741) in cui l’autore narra della propria deportazione dall’Italia verso Auschwitz, nel febbraio del 1944. Il viaggio si svolse in un convoglio ferroviario che nessuno aveva pensato
a munire […] di un recipiente che fungesse da latrina […]. Nel mio vagone c’erano parecchi anziani, uomini e donne […]. Per tutti, ma specialmente per questi, evacuare in pubblico era angoscioso o impossibile: un trauma a cui la nostra civiltà non ci prepara, una ferita profonda inferta alla dignità umana, un attentato osceno o pieno di presagio; ma anche il segnale di una malignità deliberata e gratuita. Per nostra paradossale fortuna (ma esito a scrivere questa parola in questo contesto), nel nostro vagone c’erano anche due giovani madri con i loro bambini di pochi mesi, e una di loro aveva portato con sé un vaso da notte: uno solo, e dovette servire per una cinquantina di persone. Dopo due giorni di viaggio trovammo chiodi confitti nelle pareti di legno, ne ripiantammo due in un angolo, e con uno spago e una coperta improvvisammo un riparo, sostanzialmente simbolico: non siamo ancora bestie, non lo saremo finché cercheremo di resistere.
Che cosa sia avvenuto negli altri vagoni, privi di questa minima attrezzatura, è difficile da immaginare. Il convoglio venne fermato due o tre volte in aperta campagna, le portiere dei vagoni furono aperte ed ai prigionieri fu concesso di scendere: ma non di allontanarsi dalla ferrovia né di appartarsi. Un’altra volta le portiere furono aperte, ma durante una fermata in una stazione austriaca di transito. Le SS di scorta non nascondevano il loro divertimento a vedere uomini e donne accovacciarsi dove potevano, sulle banchine, in mezzo ai binari; ed i passeggeri tedeschi esprimevano apertamente il loro disgusto: gente come questa merita il suo destino, basta vedere come si comportano. Non sono Menshcen, esseri umani, ma bestie, porci; è evidente alla luce del sole.
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In questa immagine, volutamente cruda seppur contrassegnata da un velo di pudore, sembrano quasi riflettersi le condizioni di tanti diseredati le cui condizioni troppo facilmente correlate dal pregiudizio alla loro “natura” sono consapevolmente o inconsapevolmente imposte, quando non apertamente costruite. E la nostra coscienza, se sveglia, dovrebbe schiodarci dal comodo scranno di osservatori estranei di una tragedia passata per farci sedere, almeno per un attimo, sul banco degli imputati.
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