Moschee: le istruzioni per l’uso di un amministratore pubblico

25 Novembre 2015

Immancabile come l’inverno e come il Festival di Sanremo, la polemica sui luoghi di culto musulmani – veri, falsi, verosimili, regolari o irregolari – irrompe nel dibattito pubblico – dai talk show ai Consigli Comunali di mezza Italia – con il suo strascico di balbettii e violenze verbali.

Il giorno stesso di qualsiasi evento terribile di terrorismo, guerra e violenza qualcuno tuona “chiudiamo tutte le moschee”. Questo malgrado sia acclarato che il radicalismo e lo jihadismo  in Europa recluti i suoi macellai prevalentemente via web, che la nostra intelligence – che piaccia o no – monitora e controlla, che chiudere le moschee avrebbe lo stesso effetto del chiudere le Chiese cristiane dopo la strage di Utoya.

Il tema del pluralismo religioso e del rapporto tra dimensioni religiose diverse  entra nel discorso pubblico come una clava, utilizzata in modo esornativo per agitare gli spettri degli scontri di civiltà e della  perdita di identità culturale.

Il tema della laicità è utilizzato per eludere la domanda di riconoscimento di identità religiose plurime ormai presenti – che piaccia o no –  nelle nostre società locali. Soltanto in Italia la chiusura dei luoghi di culto musulmani viene invocata come misura di sicurezza e soltanto qui – tra le democrazie occidentali – la vicenda dei luoghi di culto negati assume un carattere paradossale.

Vi racconto un’esperienza, la mia e quella della mia città, Torino – che di questi temi si occupa da molto tempo.

E’ un viaggio complicato, pieno di ostacoli: da amministratore pubblico confesso che bisogna avere nervi molto saldi, una profonda conoscenza dell’arcipelago islamico locale, una fredda capacità di non farsi spaventare dalle minacce e dagli insulti, una tigna visionaria e testarda.

Io sono stata di volta in volta definita: Assessore all’Islam, amica degli islamici, convertita segretamente all’Islam (mi sono sempre chiesta cosa volesse dire: probabilmente l’unica donna al mondo che gira in casa a capo coperto avvolta nel burqua per poi toglierlo per uscire). Sono finita nella Black List di un sito neonazista in quanto “amica di negri e islamici”. Qualche anno fa litri di sangue di maiale sono stati gettati sul portone della casa dei miei genitori: la Digos ha seguito la pista islamofoba e per molto tempo sono stata “attenzionata”, con sopportabili restrizioni delle libertà personali mie e della mia famiglia.

Questo per raccontare in quale melma si finisce quando si decide di attuare politiche pubbliche semplicemente giuste sul piano del rispetto dei principi costituzionali e dello Stato di Diritto. Non eroiche ne’ straordinarie: pragmatiche, concrete, rispettose della legge e della laicità delle Istituzioni.

E’ un viaggio lungo, vi avverto, che si scontra con la mancanza di leggi per il riconoscimento dei luoghi di culto, con ricorsi al TAR continui (noi l’abbiamo vinto, contro la Lega che usa i Tribunali dopo aver promosso sagre della porchetta e gavettoni di sugna di maiale), con procedure amministrative rigorose per evitare che, per questioni formali di inottemperanza delle molte regole edilizie, i Tribunali annullino le procedure.

Nervi saldi, si diceva, pragmatismo e correttezza amministrativa sono gli ingredienti. Immersione nell’arcipelago di sigle, sensibilità, divisioni politiche, scontri che ci sono anche nel mondo islamico – come in un qualsiasi consorzio umano – in modo da avere sempre presente chi sono i tanti interlocutori con cui parlare. Un buon rapporto con l’intelligence (preparata e competente, vi assicuro) che segnala eventuali rischi di interlocuzione.

Perché il tema della libertà religiosa, quando precipita dai principi ai marciapiedi, assume caratteri concreti e contingenti:  si tratta di individuare, a livello locale, strumenti e percorsi che definiscano spazi di libertà e di mutuo-rispetto soprattutto alla luce della presenza di “nuovi cittadini” che diventano portatori – nella pratica della vita quotidiana – di sensibilità, esigenze e bisogni che mettono fortemente in discussione le modalità di organizzazione della vita pubblica (dagli orari dei negozi in periodo di digiuno rituale, alle modalità di occupazione di suolo pubblico in prossimità di alcune ricorrenze, alla necessità di tumulare i propri morti secondo la propria fede, eccetera).[1]

E’ nel governo concreto di un territorio che il tema del pluralismo religioso diventa uno degli elementi che dovrebbero orientare il decisore politico al di là delle sue convinzioni e della sua appartenenza identitaria, politica o religiosa. La laicità si impone, innanzitutto, a chi ha responsabilità di governo.

Questo significa promuovere politiche ragionevoli di attuazione dei principi costituzionali, che riconoscono la libertà di culto all’interno di un quadro condiviso di principi fondamentali (in particolare gli artt. 3,7,8,19 e 20 e, indirettamente gli artt.2,17,18,21 della Costituzione Italiana: i padri costituenti hanno espresso molto chiaramente la volontà di garantire uno dei diritti fondamentali della persona e dei cittadini)[2].

La Costituzione della Repubblica Italiana ci offre il quadro dei principi fondanti del nostro essere comunità nazionale, cittadini capaci di coabitare e coesistere nel rispetto delle differenze e delle libertà.

La nozione di “luogo di culto” intesa come “servizio pubblicoderiva invece dalla disciplina urbanistica e da quella fiscale, norma i luoghi di culto delle confessioni che hanno un’intesa con lo Stato (chiese cattoliche, Sinagoghe, Templi valdesi e protestanti e poco più).

Qui dovremmo aprire un discorso piuttosto complesso sul fatto che si siglano intese con altri culti con il contagocce, malgrado molte richieste dimorino, inevase, nelle stanze del Ministero degli Interni da anni. Ma ne parleremo un’altra volta.

Non esiste invece una disciplina che normi gli altri luoghi di culto, quelli senza intesa con lo Stato.

Però la Costituzione parla chiaro: la libertà di culto è garantita non solo agli individui ma a questi in forma associata, organizzata e pubblica.

Su questo vulnus si inseriscono le polemiche: i  templi dei testimoni di Geova non suscitano allarme sociale. Le moschee provocano le sagre delle porchette e il bestiario fascio-leghista con maiale al seguito.

L’esistenza o meno di Centri islamici formali e aperti dipende dalla volontà di chi amministra un territorio e non dall’applicazione di diritti costituzionali.

Per dirla in altri termini: a Treviso si prega nei garage, a Torino si possono fare le pratiche edilizie e si ottiene il permesso a costruire come qualsiasi altro cittadino, impresa o associazione che rispetti le leggi e l’ordinamento edilizio e urbanistico.

TORINO: DALLO STATUTO ALBERTINO ALLA FESTA DI EID-EL-FITR

Torino ha da tempo avviato politiche e progettualità che riconoscono il pluralismo religioso come elemento di dialogo, mutuo riconoscimento, rispetto e relazione tra le diverse comunità religiose presenti in città.

  • Dal 2006 è attivo il Comitato Interfedi che, avviato in occasione delle Olimpiadi invernali, raccoglie i rappresentanti delle principali fedi presenti a livello locale ed è una sede significativa di confronto
  • Da oltre 20 anni nelle scuole pubbliche è riconosciuta la possibilità di avvalersi di regimi alimentari specifici per gli alunni di fedi diverse.  Inoltre sono molte le opportunità offerte alle scuole sul tema dell’educazione interculturale e del pluralismo religioso.
  • Dalla metà degli anni ’90 esiste un macello pubblico che consente la macellazione rituale controllata
  • Nelle Carceri prima e negli ospedali adesso è riconosciuta la presenza di ministri di culto di altre religioni oltre a quella Cattolica
  • Recentemente l’Aeroporto Sandro Pertini di Caselle  ha inaugurato una sala per la preghiera dei fedeli musulmani, al pari di altre sale presenti per altri culti compresa la religione Cattolica
  • In seguito alla modifica, nel 2013, del regolamento cimiteriale è possibile la tumulazione rituale per tutte le confessioni – oltre a quelle che hanno l’intesa con lo Stato – che ne facciano richiesta: dai romeni ortodossi ai Bahà’i, dai musulmani ai copti.
  • Sono numerose le occasioni di dialogo interreligioso, iniziative comuni, momenti culturali legati alle particolari festività religiose, che coinvolgono le diverse fedi ivi compresa quella cattolica maggioritaria, impegnata a diverso titolo nell’accompagnamento al dialogo interreligioso.
  • La festa di Eid-Al-Fitr, che celebra la fine del Ramadan, alla presenza di circa 30.000 cittadini di fede musulmana da 8 anni è aperta dai saluti (laici e civili) del Sindaco o suo rappresentante (io ci sono sempre andata, con la fascia tricolore e a capo scoperto) e quelli delle altre principali fedi religiose cittadine: il rappresentante del Vescovo, la Comunità ebraica, le chiese protestanti
  • Le minoranze religiose autoctone (in particolare la comunità ebraica, valdese e protestante e quella degli italiani di fede islamica) sono impegnate nel promuovere dialogo e iniziative comuni e in molti casi sono e sono state capaci di accompagnare processi di crescita di altre comunità religiose.

Questi elementi costituiscono un “capitale sociale” importante, che investe risorse intellettuali e disponibilità nel costruire una città aperta, tollerante e plurale.

 E’ stato indispensabile, però, affrontare il tema dei luoghi di culto in modo sistematico, legittimo sul piano formale e capace di riconoscere dignità e autorevolezza a tutte le confessioni presenti sul territorio.

Questo, tenendo fermo il principio della laicità dello Stato e delle Istituzioni pubbliche e del fatto che gli enti locali non “costruiscono” luoghi di culto con risorse pubbliche, ma devono non ostacolare ed accompagnare a farlo le comunità che lo desiderino.

L’arcipelago Islamico

Numericamente il più consistente (più di  30.000 potenziali fedeli: non tutti gli arabi sono musulmani, non tutti i musulmani sono arabi), differenziato per origine nazionale (a Torino è preponderante la presenza marocchina ed egiziana), sociale, di prima e seconda generazione. Composto da cittadini italiani e non italiani, immigrati, figli di immigrati o italiani che hanno scelto l’Islam.

L’islam torinese è stato ampiamente analizzato e studiato[3] e anni fa – post 11 settembre –  è stato nell’occhio dei riflettori mediatici.

Da allora il processo di maturazione della comunità islamica, i continui rapporti istituzionali e di coordinamento con e tra centri islamici, il lavoro fatto per promuovere occasioni di conoscenza e dialogo tra comunità ha cambiato, strutturato e reso inclusivo ed aperto il dialogo e le occasioni di confronto. Il #notInMyName di oggi è anche il frutto di una capillare, diffusa, quotidiana relazione con i nostri concittadini torinesi di fede musulmana.

Definito “un islam dei praticanti ed una presenza plurale”; sono 12 i centri islamici più frequentati e con attività pubbliche ed associative.

Si tratta di Associazioni culturali (art.39 del C.C – registrate all’Ufficio del Registro) – che hanno stipulato contratti di affitto con proprietari privati.

Si tratta di locali  ad uso associativo che hanno posti per pregare, in cui si svolge la preghiera del venerdì con il sermone ed in cui vi sono sale usate per la scuola coranica, come sportelli informativi, vendita di libri e oggetti religiosi. Spesso il sermone del venerdì è in italiano e arabo, perché non tutti i musulmani sono arabi e la lingua in comune tra un pakistano, un marocchino e un somalo è l’italiano.

Non tutti gli spazi sono adeguati, ma sempre di più le comunità si organizzano e “utilizzano” la procedura amministrativa che abbiamo approntato per poterli rendere formali, adeguati, regolari con le norme igienico-edilizie e le destinazioni urbanistiche.

Vengono frequentate quotidianamente  da  circa il  10% dei musulmani presenti a Torino (non è necessario andare in un luogo di culto per svolgere le 5 preghiere quotidiane che i fedeli musulmani osservano) mentre per le due grandi feste religiose islamiche (Aid Al Fitr e Aid El Kebir) vedono radunarsi un numero superiore di fedeli.

 Dalle moschee-Garages a luoghi di culto dignitosi e riconoscibili

E’ bene sapere che non ci sono scorciatoie, e non esistono interlocutori privilegiati sui cui scaricare la responsabilità di “rappresentare il tutto”.

In alcune città , infatti, si è perseguita l’idea della “grande Moschea – una per tutti” che potesse unificare e istituzionalizzare la presenza di un luogo di culto per i musulmani.

A Torino abbiamo fatto anni fa un’altra scelta: quella di far maturare le condizioni nell’arcipelago islamico per dotarsi di luoghi formali ed aperti. Di non pretendere una rappresentanza che poi, nei fatti, esclude e crea ghetti informali.

Nella mia esperienza il tentativo di mettere insieme, unificare e semplificare le relazioni con l’arcipelago islamico presenta delle criticità:

  • la sottovalutazione delle differenze nazionali, religiose, politiche, culturali e sociali.
  • l’assenza di gerarchia religiosa presente nell’Islam – accompagnato in Italia anche da una presenza recente di un numero consistente di fedeli musulmani senza la cittadinanza italiana – disorienta e impedisce di identificare  interlocutori autorizzati a rappresentarne i bisogni
  • La confusione tra rappresentanza e partecipazione, la necessità delle istituzioni di individuare il “leader”, di far coincidere l’Imam con il sacerdote cattolico induce ed enfatizza un conflitto per la conquista di leadership politica e  di rappresentanza da parte del mondo islamico. L’enorme conflittualità che si genera è lo spazio all’interno del quale entra la politica per dire “non si fa niente, finché voi non sarete capaci di mettervi d’accordo!”.
  • Infine l’idea – tutta istituzionale e politica – che debba esistere un unico luogo in città che accoglie tutti indistintamente (possibilmente Not in my Backyard) non tiene conto del numero dei fedeli e della loro territorialità. Anche il culto, come altri servizi, ha bisogno di prossimità e non necessariamente si è disponibili ad attraversare la città  per raggiungerlo se non in occasioni particolari. Il rischio sarebbe semplicemente di avere comunque moschee-garages diffuse nei territori, un po’  più celate e in apnea di quanto non siano oggi.

All’idea della Grande-Moschea unificante e rinviabile sine-diem, abbiamo adottato un approccio più pragmatico che tiene conto delle differenze, dei processi di maturazione differenti e delle diverse condizioni di partenza del mondo islamico torinese, senza pretendere di confondere “la parte con il tutto”.

  •  I Centri islamici hanno acquistato o affittato dei luoghi: il primo passo è la verifica della destinazione d’uso prevista dal  Piano Regolatore (servizi pubblici, etc.) da parte dei loro professionisti, con la disponibilità che vale per tutti di un’istruttoria da parte dei servizi tecnici della Città
  • secondo la norma urbanistica, rientrano tra i servizi pubblici quelli propri (scuole, anagrafi etc.) oppure i luoghi di culto (senza però che ne sia definita la giurisprudenza se non per le religioni concordatarie), oppure le sedi ed attività delle ONLUS e delle Associazioni di Promozione Sociale (ai sensi della Legge 383/2000)
  • nel caso delle OnLUS/APS è possibile, attraverso una presa d’atto amministrativa e la presentazione di un progetto di manutenzione straordinaria, non incorrere nella necessità di varianti al Piano regolatore. Nella fattispecie, quindi, la presa d’atto ai sensi dell’art.34 della  Legge 383/2000 è un atto d’obbligo della Pubblica Amministrazione, non soggetto a decisione politica e legittimo sul piano amministrativo.

 

Infatti la  legge 383 del 7 dicembre 2000,  definisce le caratteristiche delle Associazioni di Promozione Sociale, le cosiddette APS,  “riconosce” formalmente l’associazionismo e stabilisce alcuni requisiti statutari fondamentali.

Fra le norme più rilevanti c’è la disciplina delle fonti di finanziamento, la possibilità per le APS di ricevere donazioni ed eredità, di essere proprietarie di beni, pur non avendo personalità giuridica, la capacità di “stare in giudizio”.

La legge garantisce alle APS agevolazioni amministrative e fiscali, facilitazioni nei rapporti con le Pubbliche Amministrazioni che riguardano – tra l’altro – la gestione di servizi in convenzione o la possibilità di avere sedi in uso a titolo gratuito e così via.

Quindi è stato suggerito ai Centri Islamici di costituire un soggetto giuridico ad hoc o di modificare il proprio statuto associativo, ai sensi della Legge 383, per rispondere  all’esigenza di:

  • dichiarare nelle finalità l’aspetto religioso in modo esplicito, senza occultarlo o  sfumarlo  in vaghe “attività socio-culturali”. La Costituzione lo riconosce come un diritto e non c’è bisogno di nasconderlo
  • rispettare alla lettera i requisiti previsti dalla Legge 383/2000 e l’ordinamento civile italiano
  • offrire trasparenza e tracciabilità sugli organismi dirigenti e sui finanziamenti
  • predisporre un atto notarile che consenta all’Amministrazione di prendere atto dell’esistenza di un servizio pubblico ai sensi dell’art.34 della Legge 383, consistente nelle attività dell’associazione stessa tra cui il culto, dichiarato nelle finalità

Il percorso delineato è stato analizzato e studiato per :

  • evitare falle amministrative che avrebbero bloccato l’iniziativa (come è successo ovunque in Italia si sia tentato in questi ultimi anni di costruire una Moschea con l’appoggio dell’Ente Locale). I ricorsi al TAR sono stati vinti dall’Amministrazione sia nel merito sia per insufficienza di motivazioni da parte dei ricorrenti (la Lega Nord)
  • rispondere a due esigenze che vengono spesso usate come condizione per bloccare le iniziative: chi sono i promotori e da dove vengono i soldi

La scelta della Città di Torino è stata quella di non concedere un diritto, ma di applicare rigorosamente le norme previste dall’ordinamento italiano per consentire l’esercizio di un diritto. Perché crediamo che la legge valga a Torino come a Treviso o a Adro. E, sia chiaro, questa procedura vale per tutti ed è stata applicata a tutti, dal tempio buddista alle moschee.

E’ stata una storia lunga, anche da raccontare – vi avevo avvertito – che ha attraversato campagne elettorali feroci, scontri epici, tentativi continui di strumentalizzazione.

Questo non annulla il rischio di radicalismo nascosto, ma sottrae un humus di risentimento e esclusione che rischia di essere il brodo di coltura del radicalismo.

Noi, oggi, diciamo #notInOurName e chi non ci crede viene isolato, da una parte e dall’altra.

 

 

[1] si veda a questo proposito l’esperienza di negoziazione dell’uso dello spazio avviata da qualche anno a Porta Palazzo dal Comune di Torino durante il periodo di Ramadam, la concessione di spazi pubblici dignitosi e accoglienti per i momenti importanti di celebrazione religiosa: dall’Eid-el-Fitr alla festa del Sacrificio, le tavolate organizzate dai Centri islamici di San salvario o di Barriera per rompere il digiuno insieme ai vicini di casa.
[2]  E’ evidente che l’approvazione e l’attuazione della Legge Nazionale sul tema della Libertà Religiosa renderebbe più agevole l’azione amministrativa locale.
[3] Si vedano a questo proposito i recenti:

Marinella Belluati (a cura), L’Islam Locale – domanda di rappresentanza e problemi di rappresentazione, Franco Angeli 2007

Angela Lano, Islam d’Italia, Inchiesta su una realtà in crescita, Ed.Paoline 2005

TAG: arcipelago islamico, centri islamici, Costituzione Italiana, dialogo, laicità, moschee, pluralismo religioso
CAT: Integrazione

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