Immancabile come l’inverno e come il Festival di Sanremo, la polemica sui luoghi di culto musulmani – veri, falsi, verosimili, regolari o irregolari – irrompe nel dibattito pubblico – dai talk show ai Consigli Comunali di mezza Italia – con il suo strascico di balbettii e violenze verbali.
Il giorno stesso di qualsiasi evento terribile di terrorismo, guerra e violenza qualcuno tuona “chiudiamo tutte le moschee”. Questo malgrado sia acclarato che il radicalismo e lo jihadismo in Europa recluti i suoi macellai prevalentemente via web, che la nostra intelligence – che piaccia o no – monitora e controlla, che chiudere le moschee avrebbe lo stesso effetto del chiudere le Chiese cristiane dopo la strage di Utoya.
Il tema del pluralismo religioso e del rapporto tra dimensioni religiose diverse entra nel discorso pubblico come una clava, utilizzata in modo esornativo per agitare gli spettri degli scontri di civiltà e della perdita di identità culturale.
Il tema della laicità è utilizzato per eludere la domanda di riconoscimento di identità religiose plurime ormai presenti – che piaccia o no – nelle nostre società locali. Soltanto in Italia la chiusura dei luoghi di culto musulmani viene invocata come misura di sicurezza e soltanto qui – tra le democrazie occidentali – la vicenda dei luoghi di culto negati assume un carattere paradossale.
Vi racconto un’esperienza, la mia e quella della mia città, Torino – che di questi temi si occupa da molto tempo.
E’ un viaggio complicato, pieno di ostacoli: da amministratore pubblico confesso che bisogna avere nervi molto saldi, una profonda conoscenza dell’arcipelago islamico locale, una fredda capacità di non farsi spaventare dalle minacce e dagli insulti, una tigna visionaria e testarda.
Io sono stata di volta in volta definita: Assessore all’Islam, amica degli islamici, convertita segretamente all’Islam (mi sono sempre chiesta cosa volesse dire: probabilmente l’unica donna al mondo che gira in casa a capo coperto avvolta nel burqua per poi toglierlo per uscire). Sono finita nella Black List di un sito neonazista in quanto “amica di negri e islamici”. Qualche anno fa litri di sangue di maiale sono stati gettati sul portone della casa dei miei genitori: la Digos ha seguito la pista islamofoba e per molto tempo sono stata “attenzionata”, con sopportabili restrizioni delle libertà personali mie e della mia famiglia.
Questo per raccontare in quale melma si finisce quando si decide di attuare politiche pubbliche semplicemente giuste sul piano del rispetto dei principi costituzionali e dello Stato di Diritto. Non eroiche ne’ straordinarie: pragmatiche, concrete, rispettose della legge e della laicità delle Istituzioni.
E’ un viaggio lungo, vi avverto, che si scontra con la mancanza di leggi per il riconoscimento dei luoghi di culto, con ricorsi al TAR continui (noi l’abbiamo vinto, contro la Lega che usa i Tribunali dopo aver promosso sagre della porchetta e gavettoni di sugna di maiale), con procedure amministrative rigorose per evitare che, per questioni formali di inottemperanza delle molte regole edilizie, i Tribunali annullino le procedure.
Nervi saldi, si diceva, pragmatismo e correttezza amministrativa sono gli ingredienti. Immersione nell’arcipelago di sigle, sensibilità, divisioni politiche, scontri che ci sono anche nel mondo islamico – come in un qualsiasi consorzio umano – in modo da avere sempre presente chi sono i tanti interlocutori con cui parlare. Un buon rapporto con l’intelligence (preparata e competente, vi assicuro) che segnala eventuali rischi di interlocuzione.
Perché il tema della libertà religiosa, quando precipita dai principi ai marciapiedi, assume caratteri concreti e contingenti: si tratta di individuare, a livello locale, strumenti e percorsi che definiscano spazi di libertà e di mutuo-rispetto soprattutto alla luce della presenza di “nuovi cittadini” che diventano portatori – nella pratica della vita quotidiana – di sensibilità, esigenze e bisogni che mettono fortemente in discussione le modalità di organizzazione della vita pubblica (dagli orari dei negozi in periodo di digiuno rituale, alle modalità di occupazione di suolo pubblico in prossimità di alcune ricorrenze, alla necessità di tumulare i propri morti secondo la propria fede, eccetera).[1]
E’ nel governo concreto di un territorio che il tema del pluralismo religioso diventa uno degli elementi che dovrebbero orientare il decisore politico al di là delle sue convinzioni e della sua appartenenza identitaria, politica o religiosa. La laicità si impone, innanzitutto, a chi ha responsabilità di governo.
Questo significa promuovere politiche ragionevoli di attuazione dei principi costituzionali, che riconoscono la libertà di culto all’interno di un quadro condiviso di principi fondamentali (in particolare gli artt. 3,7,8,19 e 20 e, indirettamente gli artt.2,17,18,21 della Costituzione Italiana: i padri costituenti hanno espresso molto chiaramente la volontà di garantire uno dei diritti fondamentali della persona e dei cittadini)[2].
La Costituzione della Repubblica Italiana ci offre il quadro dei principi fondanti del nostro essere comunità nazionale, cittadini capaci di coabitare e coesistere nel rispetto delle differenze e delle libertà.
La nozione di “luogo di culto” intesa come “servizio pubblico” deriva invece dalla disciplina urbanistica e da quella fiscale, norma i luoghi di culto delle confessioni che hanno un’intesa con lo Stato (chiese cattoliche, Sinagoghe, Templi valdesi e protestanti e poco più).
Qui dovremmo aprire un discorso piuttosto complesso sul fatto che si siglano intese con altri culti con il contagocce, malgrado molte richieste dimorino, inevase, nelle stanze del Ministero degli Interni da anni. Ma ne parleremo un’altra volta.
Non esiste invece una disciplina che normi gli altri luoghi di culto, quelli senza intesa con lo Stato.
Però la Costituzione parla chiaro: la libertà di culto è garantita non solo agli individui ma a questi in forma associata, organizzata e pubblica.
Su questo vulnus si inseriscono le polemiche: i templi dei testimoni di Geova non suscitano allarme sociale. Le moschee provocano le sagre delle porchette e il bestiario fascio-leghista con maiale al seguito.
L’esistenza o meno di Centri islamici formali e aperti dipende dalla volontà di chi amministra un territorio e non dall’applicazione di diritti costituzionali.
Per dirla in altri termini: a Treviso si prega nei garage, a Torino si possono fare le pratiche edilizie e si ottiene il permesso a costruire come qualsiasi altro cittadino, impresa o associazione che rispetti le leggi e l’ordinamento edilizio e urbanistico.
TORINO: DALLO STATUTO ALBERTINO ALLA FESTA DI EID-EL-FITR
Torino ha da tempo avviato politiche e progettualità che riconoscono il pluralismo religioso come elemento di dialogo, mutuo riconoscimento, rispetto e relazione tra le diverse comunità religiose presenti in città.
Questi elementi costituiscono un “capitale sociale” importante, che investe risorse intellettuali e disponibilità nel costruire una città aperta, tollerante e plurale.
E’ stato indispensabile, però, affrontare il tema dei luoghi di culto in modo sistematico, legittimo sul piano formale e capace di riconoscere dignità e autorevolezza a tutte le confessioni presenti sul territorio.
Questo, tenendo fermo il principio della laicità dello Stato e delle Istituzioni pubbliche e del fatto che gli enti locali non “costruiscono” luoghi di culto con risorse pubbliche, ma devono non ostacolare ed accompagnare a farlo le comunità che lo desiderino.
L’arcipelago Islamico
Numericamente il più consistente (più di 30.000 potenziali fedeli: non tutti gli arabi sono musulmani, non tutti i musulmani sono arabi), differenziato per origine nazionale (a Torino è preponderante la presenza marocchina ed egiziana), sociale, di prima e seconda generazione. Composto da cittadini italiani e non italiani, immigrati, figli di immigrati o italiani che hanno scelto l’Islam.
L’islam torinese è stato ampiamente analizzato e studiato[3] e anni fa – post 11 settembre – è stato nell’occhio dei riflettori mediatici.
Da allora il processo di maturazione della comunità islamica, i continui rapporti istituzionali e di coordinamento con e tra centri islamici, il lavoro fatto per promuovere occasioni di conoscenza e dialogo tra comunità ha cambiato, strutturato e reso inclusivo ed aperto il dialogo e le occasioni di confronto. Il #notInMyName di oggi è anche il frutto di una capillare, diffusa, quotidiana relazione con i nostri concittadini torinesi di fede musulmana.
Definito “un islam dei praticanti ed una presenza plurale”; sono 12 i centri islamici più frequentati e con attività pubbliche ed associative.
Si tratta di Associazioni culturali (art.39 del C.C – registrate all’Ufficio del Registro) – che hanno stipulato contratti di affitto con proprietari privati.
Si tratta di locali ad uso associativo che hanno posti per pregare, in cui si svolge la preghiera del venerdì con il sermone ed in cui vi sono sale usate per la scuola coranica, come sportelli informativi, vendita di libri e oggetti religiosi. Spesso il sermone del venerdì è in italiano e arabo, perché non tutti i musulmani sono arabi e la lingua in comune tra un pakistano, un marocchino e un somalo è l’italiano.
Non tutti gli spazi sono adeguati, ma sempre di più le comunità si organizzano e “utilizzano” la procedura amministrativa che abbiamo approntato per poterli rendere formali, adeguati, regolari con le norme igienico-edilizie e le destinazioni urbanistiche.
Vengono frequentate quotidianamente da circa il 10% dei musulmani presenti a Torino (non è necessario andare in un luogo di culto per svolgere le 5 preghiere quotidiane che i fedeli musulmani osservano) mentre per le due grandi feste religiose islamiche (Aid Al Fitr e Aid El Kebir) vedono radunarsi un numero superiore di fedeli.
Dalle moschee-Garages a luoghi di culto dignitosi e riconoscibili
E’ bene sapere che non ci sono scorciatoie, e non esistono interlocutori privilegiati sui cui scaricare la responsabilità di “rappresentare il tutto”.
In alcune città , infatti, si è perseguita l’idea della “grande Moschea – una per tutti” che potesse unificare e istituzionalizzare la presenza di un luogo di culto per i musulmani.
A Torino abbiamo fatto anni fa un’altra scelta: quella di far maturare le condizioni nell’arcipelago islamico per dotarsi di luoghi formali ed aperti. Di non pretendere una rappresentanza che poi, nei fatti, esclude e crea ghetti informali.
Nella mia esperienza il tentativo di mettere insieme, unificare e semplificare le relazioni con l’arcipelago islamico presenta delle criticità:
All’idea della Grande-Moschea unificante e rinviabile sine-diem, abbiamo adottato un approccio più pragmatico che tiene conto delle differenze, dei processi di maturazione differenti e delle diverse condizioni di partenza del mondo islamico torinese, senza pretendere di confondere “la parte con il tutto”.
Infatti la legge 383 del 7 dicembre 2000, definisce le caratteristiche delle Associazioni di Promozione Sociale, le cosiddette APS, “riconosce” formalmente l’associazionismo e stabilisce alcuni requisiti statutari fondamentali.
Fra le norme più rilevanti c’è la disciplina delle fonti di finanziamento, la possibilità per le APS di ricevere donazioni ed eredità, di essere proprietarie di beni, pur non avendo personalità giuridica, la capacità di “stare in giudizio”.
La legge garantisce alle APS agevolazioni amministrative e fiscali, facilitazioni nei rapporti con le Pubbliche Amministrazioni che riguardano – tra l’altro – la gestione di servizi in convenzione o la possibilità di avere sedi in uso a titolo gratuito e così via.
Quindi è stato suggerito ai Centri Islamici di costituire un soggetto giuridico ad hoc o di modificare il proprio statuto associativo, ai sensi della Legge 383, per rispondere all’esigenza di:
Il percorso delineato è stato analizzato e studiato per :
La scelta della Città di Torino è stata quella di non concedere un diritto, ma di applicare rigorosamente le norme previste dall’ordinamento italiano per consentire l’esercizio di un diritto. Perché crediamo che la legge valga a Torino come a Treviso o a Adro. E, sia chiaro, questa procedura vale per tutti ed è stata applicata a tutti, dal tempio buddista alle moschee.
E’ stata una storia lunga, anche da raccontare – vi avevo avvertito – che ha attraversato campagne elettorali feroci, scontri epici, tentativi continui di strumentalizzazione.
Questo non annulla il rischio di radicalismo nascosto, ma sottrae un humus di risentimento e esclusione che rischia di essere il brodo di coltura del radicalismo.
Noi, oggi, diciamo #notInOurName e chi non ci crede viene isolato, da una parte e dall’altra.
[1] si veda a questo proposito l’esperienza di negoziazione dell’uso dello spazio avviata da qualche anno a Porta Palazzo dal Comune di Torino durante il periodo di Ramadam, la concessione di spazi pubblici dignitosi e accoglienti per i momenti importanti di celebrazione religiosa: dall’Eid-el-Fitr alla festa del Sacrificio, le tavolate organizzate dai Centri islamici di San salvario o di Barriera per rompere il digiuno insieme ai vicini di casa.
[2] E’ evidente che l’approvazione e l’attuazione della Legge Nazionale sul tema della Libertà Religiosa renderebbe più agevole l’azione amministrativa locale.
[3] Si vedano a questo proposito i recenti:
Marinella Belluati (a cura), L’Islam Locale – domanda di rappresentanza e problemi di rappresentazione, Franco Angeli 2007
Angela Lano, Islam d’Italia, Inchiesta su una realtà in crescita, Ed.Paoline 2005
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