Innovazione

Uno Stato protagonista per affrontare la crisi che verrà

15 Marzo 2020

Contrasto alle disuguaglianze, politiche industriali e Stato come datore di lavoro di ultima istanza.

“Puoi resistere all’invasione di un esercito, ma non puoi resistere ad un’idea quando il suo tempo è arrivato” (Victor Hugo)

Quando ho iniziato a leggere Lavorare tutti? Crisi, diseguaglianze e lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza”, ultimo libro di Martino Mazzonis, ancora non erano chiari i contorni di questa emergenza sanitaria in cui ci troviamo immersi. Non sono chiari nemmeno oggi in realtà, ma è sempre più evidente che gli impatti sociali ed economici collegati alla diffusione del Corona Virus saranno molto rilevanti. Tutte le energie sono ora giustamente concentrate sull’affrontare una emergenza sanitaria globale, organizzando risorse e macchinari, reperendo nuovi generi di prima necessità come le mascherine e cercando di minimizzare il numero delle vittime. Già oggi però in tanti iniziano a chiedersi che forma avrà il mondo in cui vivremo quando potremo uscire da questo periodo di quarantena forzata, la cui durata è difficile stimare.

C’è chi spera che tutto possa riprendere come prima, chi intravede in questa crisi una finestra di opportunità per correggere alcune distorsioni strutturali del capitalismo per come oggi lo conosciamo, chi teme per la tenuta dei nostri sistemi democratici e chi pensa che in realtà tutto sia già cambiato e non ci resta che metterci a riprogettare un mondo nuovo.

In realtà nessuno sa quel che succederà davvero, saranno anche i nostri comportamenti ed atteggiamenti a determinarlo. È altamente probabile però che le sfide saranno molte per una economia fragile come quella italiana, storicamente basata su imprese piccole e piccolissime, caratterizzata da tassi di partecipazione al mercato del lavoro relativamente bassi e da un crescente protagonismo del settore terziario. In mancanza di interventi di sostegno la crisi si scaricherà sulle componenti più fragili del mercato del lavoro (giovani, donne, over 55, lavoratori autonomi e lavoratori a tempo parziale), sulle imprese più giovani o deboli, quelle poco capitalizzate e scarsamente produttive, e su chi già oggi si trova fuori dal mercato del lavoro (NEET e disoccupati di lungo corso), che vedrà allontanarsi la possibilità di trovarlo, un lavoro.

Per contenere una possibile impennata del tasso di disoccupazione e sostenere redditi e consumi, serviranno misure straordinarie per stimolare una nuova stagione di investimenti pubblici e privati.

E se in Europa pare si stia formando un nuovo consenso attorno all’idea di allargare i cordoni della borsa, mettendo temporaneamente da parte il rigoroso mantra dell’austerità finanziaria e consentendo agli Stati di spendere in deficit, ancora non è chiaro dove e come avrà più senso spendere, con quali obiettivi.

È in questo dibattito che si inserisce il saggio di Mazzonis sulle politiche di creazione del lavoro, con una tempistica che ne anche il più previdente degli editori avrebbe potuto azzeccare. “Lavorare tutti?” rende conto di un acceso dibattito che attraversa la politica americana rispetto ad una riedizione delle misure straordinarie introdotte dal Presidente Roosevelt con il New Deal per portare gli USA fuori dalla grande crisi del 1929, investendo nell’ampliamento della sfera dei diritti sociali ed economici, anche reinventando le funzioni dello Stato federale, e in politiche governative che avevano l’esplicito obiettivo di creare occupazione, sia in maniera indiretta (investendo in progetti infrastrutturali di grande portata attraverso la Public Works Administration) che in maniera diretta (attraverso una altra agenzia federale, la Work Progress Administration, che mise al lavoro quasi 10 milioni di persone negli 8 anni della sua esistenza finanziando progetti di edilizia e cura del territorio promossi da comunità locali, e programmi come i Civilian Conservation Camps, che coinvolsero 3 milioni di giovani tra i 17 e i 28 anni in esperienze di avviamento al lavoro, partecipazione e formazione collegate alla tutela e promozione dell’ambiente, con esiti significativi, come la creazione della rete dei grandi parchi americani).

Quando tra non molto ci troveremo a discutere di come meglio utilizzare risorse pubbliche per ridurre le disuguaglianze e stimolare l’economia sarà bene ricordarsi di questo libro per prendere in considerazione ricette diverse da quelle parzialmente efficaci che abbiamo visto all’opera, anche in Italia, negli ultimi anni, a partire dagli incentivi alle imprese per investire in produttività (Piano Calenda e Impresa 4.0, per semplificare, che ha giovato solo quella parte di imprese già più strutturate), passando per le riforme del mercato del lavoro (nell’idea che bastassero meno vincoli per creare nuovi posti di lavoro, finendo semplicemente per generare lavoro di peggiore qualità), il sostegno ai consumi (gli 80 euro di Renzi, che hanno generato un aumento una tantum della domanda aggregata composta da una platea di lavoratori già attivi, dandogli una boccata d’ossigeno ma senza mettere in moto meccanismi più virtuosi) sono ad arrivare alle diverse forme di sostegno al reddito (in questo senso il Reddito di Cittadinanza si rivela molto simile – e se vogliamo anche meno efficiente – rispetto al Reddito di Inclusione, vista la scarsa consistenza degli strumenti di accompagnamento alla ricerca di un lavoro).

Piuttosto che limitarsi a riproporre ricette del passato, sostiene Mazzonis, è forse il caso di ampliare lo spettro delle soluzioni da prendere in considerazione, rispolverando concetti come lo Stato datore di lavoro di ultima istanza e obiettivi come la piena e buona occupazione, messi da parte forse troppo frettolosamente negli ultimi 30 anni di egemonia del pensiero neoliberista.

Rimettere sul tavolo opzioni politiche e teoriche è però una condizione necessaria ma non sufficiente per avanzare proposte concrete. Non basta invocare la necessità di uno Stato maggiormente protagonista. Quello che serve è studiare opzioni di intervento circostanziate, come stanno da tempo facendo diversi think tank progressisti. Nel suo saggio Mazzonis passa in rassegna le principali ipotesi di Job Guarantee che stanno influenzando il dibattito politico ed economico a stelle e strisce, anche sfruttando la ribalta delle primarie dem: il  Piano Marshall per l’America del Center for American Progress (Blueprint for the 21st Century: A Plan for Better Jobs and Stronger Communities), le proposte del Center on Budget e Policy Priorities (The Federal Job Guarantee – A Policy to Achieve Permanent Full Employment), il Piano per il lavoro pubblico del Levy Institute (Public Service Employment: A Path to Full Employment) e la proposta di legge depositata dal senatore del New Jersey Cory Booker, contenente una bozza di programma pilota (Federal Jobs Guarantee Development Act), a cui si aggiunge, ovviamente, il Green New Deal sostenuto da Alexandria Ocasio Cortez (Recognizing the duty of the Federal Government to create a Green New Deal).

E in Italia? Chi è pronto a raccogliere questo testimone? Chi avrà la capacità di sviluppare un corpus di proposte coerenti attorno a cui generare consenso? Sino ad ora ci ha provato la CGIL con il suo Piano del Lavoro, senza però riuscire particolarmente ad incidere sul dibattito politico. Qualche esito in più lo ha raccolto il rapporto della Commissione Indipendente sull’Uguaglianza Sostenibile, commissionata dal gruppo dei Socialisti e Democratici del Parlamento Europeo, di cui facevano parte Fabrizio Barca ed Enrico Giovannini, che parla di “diritto europeo di attività”.

Nella versione statunitense la Job Guarantee prevede contratti di lavoro a termine, con paga superiore al salario minimo e forme di protezione accessorie, per sostenere creazione di lavoro in settori come i lavori pubblici (riparazione e manutenzione infrastrutture locali), la cura del verde e del territorio, l’efficienza energetica e la produzione di energie rinnovabili, il welfare tradizionale (servizi di cura e servizi educativi) e i progetti di sviluppo della comunità.

Cosa accadrebbe se in Italia di questa proposta se ne appropriassero, per esempio, soggetti economici e sociali più propositivi di quelli sopra elencati, magari quei “broker di comunità” di cui da tempo discutiamo con Innovare per Includere? Se a disegnare una nuova stagione di politiche per il lavoro fossero anche imprese ad alto tasso di conoscenza, artigiani digitali, negozi di quartiere, imprese sociali che sfidano la povertà educativa nei quartieri più difficili o quella rete di spazi rigenerati, community hub e nuove istituzioni culturali che l’associazione Che Fare mappa da tempo e diverse fondazioni si impegnano a sostenere? Cosa succederebbe se una proposta del genere fosse fatta propria da chi si occupa di diseguaglianze territoriali e fatta propria dal Ministro Provenzano ed il Piano per il Sud?

Probabilmente ci troveremmo di fronte ad una proposta più in linea con le caratteristiche del nostro Paese e con lo spirito del tempo, meno incentrata sull’esclusivo ruolo dello Stato come committente di opere e datore di lavoro in settori dove si rilevano fallimenti mercato ma discuteremmo anche di come una platea più variegata di attori potrebbe giocare un ruolo importante nel creare lavoro in filiere strategiche per lo sviluppo del Paese (conoscenza, creatività, cultura, manifattura, rigenerazione urbana, investimenti in capitale umano, turismo), agendo a cavallo tra Stato e Mercato, profit e non profit, economia civile, politiche industriali e politiche di sostegno al reddito.

Potremmo parlare non solo di “lavoro garantito”. Ma di un lavoro o di un servizio di comunità, una forma di avviamento al lavoro capace di sommare all’esperienza del servizio civile un investimento in competenze ed apprendimento in situazione più simile a quella del contratto di apprendistato.

E la partita diventerebbe molto più interessante.

 

 

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