Innovazione

SFScon 2021: Intervista a Patrick Ohnewein

16 Novembre 2021

Patrick Ohnewein, direttore dell’Unità Digital del NOI Techpark, è l’organizzatore della South Tyrol Free Software Conference. Si occupa di Smart Tourism, Smart Mobility, Smart Energy e Smart Food e le sue strategie di innovazione si fondano sui concetti di Open Data, Open Standard e di Free Open Source Software. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare l’esperienza del NOI Techpark ma siamo arrivati a parlare anche di Metaverso.

Il vostro nome, NOI, richiama la Natura. In questo momento è un tema molto caldo…
Abbiamo scelto il nome, Nature of Innovation, soprattutto per ispirarci alla Natura: come fa la natura ad essere resiliente e a fare Innovazione? Principalmente trattiamo quattro temi, uno è il Green, e lì si parla molto di sostenibilità ambientale, abbiamo una competenza su green buildings e renewable energies. Il secondo tema che portiamo avanti è il Food, il terzo tema è Automotive & automation, il quarto, di cui sono responsabile io, è il Digital. Sul Digital quello che abbiamo visto e che vorremmo portare avanti è una visione che ormai adottiamo già quasi automaticamente in Alto Adige, cioè creare il presupposto per la “smart green region”. Diciamo che il capitale del nostro territorio è la Natura, è il verde che attira anche ospiti, che ci fa vivere bene. E grazie all’utilizzo dell’IoT nel senso della sensoristica possiamo capire dove la Natura ha bisogno di noi, raccogliere dati…

In che termini?
Nel senso che stiamo andando molto verso il tema della smart agricolture o anche smart mobility. Usiamo la sensoristica per raccogliere dati del territorio, per elaborare questi dati e poter poi prendere decisioni su come dare un supporto alla Natura. Per cui è tutto collegato. Infatti già attualmente con i nostri stakeholder stiamo sviluppando sul territorio una strategia di specializzazione digital e abbiamo identificato tre pilastri. Uno è l’IoT che per noi riguarda tutto il tema della data collection: con IoT noi riusciamo a raccogliere dati del nostro territorio. Il secondo sono le piattaforme aperte, digital open platform, che vuol dire che questi dati li raccogliamo…
Noi in Alto Adige abbiamo un progetto che si chiama Open Data Hub che è fondamentale perché l’abbiamo sviluppato per mettere in connessione più dati di diversi attori sia pubblici che privati che hanno spesso dei dati ma solo i loro dati e con questa visione, ridotta a un solo Data Silos, non riescono a fare molto, invece mettendo insieme più Data Silos attraverso un Data Hub si riescono a creare connessioni. Per esempio connessioni fra mobilità e turismo, e così posso ridurre l’impatto del turismo perché gli do anche un accesso a una mobilità più sostenibile, grazie ai dati. Il turista che viene può usare l’app e può trovare facilmente accesso – adesso lo stiamo sviluppando – a una mobilità sostenibile, per esempio prendere i mezzi pubblici o affittare una bici o anche multi-modal driving: parto con la macchina perché devo, poi prendo il treno e poi l’ultimo miglio lo faccio in bici, e posso unire tutti questi diversi mezzi di trasporto, soprattutto pubblici, però abbiamo nella nostra visione si integrano i mezzi pubblici anche con l’offerta di mezzi privati.
Il terzo pilastro è l’Artificial Intelligence, cioè una volta che ho raccolto i dati devo fare data processing con gli algoritmi, e lì coinvolgiamo ovviamente la facoltà di informatica che ha un’expertise proprio sull’AI, mentre sulla sensoristica coinvolgiamo altri istituti come l’Eurac e l’Università che sviluppano sensori ancora più sostenibili, che hanno bisogno di meno energia e così via. Per cui al Park abbiamo tutti questi attori e con questi tre pilastri riusciamo a unire tutta la catena, dal sensore fino all’algoritmo.

A proposito del multi modal driving, ma non solo: è ben visibile e funziona su un territorio come il vostro, ma riuscite anche a portarlo su un territorio più difficile, come quello di una grande città?
Come Alto Adige abbiamo la fortuna di avere un territorio non troppo grande, per cui è abbastanza semplice attivare gli attori necessari per fare dei progetti e sensibilizzare e coinvolgere i cittadini, ma anche le aziende che hanno i dati. Perché spesso si deve spiegare: se si va a fare una strategia di Open Data e si dice solo “io ho bisogno dei tuoi dati” ti dicono di no. Se invece spieghi, poi c’è più disponibilità. Per esempio avevamo fatto per un prototipo nella città di Merano, dove su un sito web si vede in tempo reale dove si trovano gli autobus in modo che l’ospite possa rimanere d’inverno all’interno del ristorante fino all’ultimo, e questo viene subito capito da tutti questi attori e allora c’è anche un’altra motivazione a partecipare a questi progetti, che sono progetti pilota e che vogliono diventare delle reference implementation dove usiamo soprattutto i concetti di Open Data ma anche di Open Source per cui sviluppiamo tutte queste architetture. Nell’Open Data Hub, che abbiamo dal 2010 e che stiamo sviluppando attualmente, abbiamo circa 60 aziende. E queste aziende, su incarico, sviluppano i moduli dell’Open Data Hub. Per rispondere alla domanda, l’idea è di fare da modello. Per cui è anche un driver per l’innovazione: noi stiamo creando un ecosistema di attori e di sviluppatori che su incarico nostro sviluppano un progetto Open Source.

Con che attori riscontrate più difficoltà? Le grandi aziende come si comportano?
L’importante è trovare uno use case, un esempio, un progetto insieme dove ogni attore vede il proprio ruolo e capisce che si crea valore aggiunto. Fare una strategia di Open Data e Open Source solo perché si vuole fare Open Data, perché magari ci sono dei decreti che lo impongono, è più difficile. Invece così, prototipo dopo prototipo, la cosa cresce e devo dire che attualmente abbiamo l’effetto contrario, abbiamo quasi troppi Data Provider, nel senso che tante aziende hanno capito che pubblicando i propri dati danno visibilità al loro core business. Faccio un esempio: in Alto Adige abbiamo otto aziende che gestiscono colonnine di ricarica per le macchine elettriche; sei di queste hanno un contratto con noi e ci mandano in tempo reale la posizione, se è libera, quanta energia fornisce e così via, perché questi utility providers hanno capito che il loro business non è vendere i dati, è vendere energia elettrica, e più è visibile la colonnina più alta è la probabilità che qualcuno vada a comprare l’energia lì. Questi sono gli use case che noi facciamo vedere ed è il trigger per le aziende a dire “anche io voglio far vedere le mie bici”. Ce n’è una, Papin Sport, che affitta bici, per esempio, e loro si sono collegati con noi perché adesso ogni StarUp che fa un nuovo sito può integrare l’informazione su dove ci sono le bici a noleggio. La cosa bella è che questi Data Provider non sono attivi solo in Alto Adige, per esempio Papin Sport le noleggia anche in Austria e a Monaco e così noi adesso abbiamo dati anche internazionali.

Tutto questo al consumatore arriva sempre via app?
Sì, il concetto è che l’Hub espone questi dati e poi ci sono delle startup o chi fa un sito web che può integrare questi dati. Noi non facciamo direttamente le app ma spingiamo perché le startup diventino “data consumers”, noi li chiamiamo così, e come esempio facciamo dei wget per siti web. Creiamo dei wget, usiamo questa tecnologia che si chiama Web Component, e così un albergatore che sul proprio sito vuole integrare l’informazione di dove ci sono le colonnine di ricarica vicino all’albergo può farlo facilmente. Cerchiamo di dare visibilità ai dati anche per i non tecnici.

Ieri si è conclusa la Cop26: voi siete molto attivi sul Green, in che modo?
Soprattutto dall’ottica dell’innovazione. Il NOI Techpark è stato creato… che poi non è ancora finito, siamo al 20, 25%, è un’area di 12 ettari ed è molto prezioso per l’Alto Adige perché essendoci le montagne in generale non c’è tanto spazio, la valle non è così ampia. Abbiamo ricevuto questi 12 ettari da gestire, l’ex fabbrica di alluminio, e adesso, nei prossimi 10-20 anni costruiremo, edificio dopo edificio. Quello che mi fa piacere è che fra due o tre anni ci sarà qui la facoltà di ingegneria nuova e sarà un edificio da 1000 persone e lì poi tutta la competenza sul digital aumenterà ancora di più. Quindi per noi tutto il tema green è importante e anche la Commissione Europea dice “noi finanziamo green e digital, ma digital in funzione del green”. Per cui cerchiamo di creare un ambiente in cui uno possa trovare anche le competenze dei ricercatori. Abbiamo l’Istituto di Energie Rinnovabili dell’Eurac che è qui, e loro si occupano di fotovoltaico e alte tecnologie. E poi la KlimaHaus, Istituto CasaClima, un istituto che fa certificazioni: se una persona in Alto Adige vuole rifare la casa deve rispettare un certo livello di sostenibilità, e l’Istituto controlla e definisce questi standard perché siano sempre più alti. Per cui qui ci sono tutte queste competenze e cerchiamo di far incontrare e mescolare queste persone, abbiamo circa 700 persone che lavorano qui. E c’è il parco fisico ma anche il Data Hub, che è il connettore di tutti questi attori in internet.

Lei è dentro al Noi fin dall’inizio?
Il NOI è un’organizzazione della provincia di Bolzano. Io ho cominciato ad entrare nel mondo dell’Innovazione qui in Alto Adige nel 2005, dove ho coordinato un primo progetto nel campo dell’Open Source, per dire: ok, come possiamo attivare le competenze del software libero nelle aziende locali? E da questo è nato il NOI Techpark che ha unito diverse competenze che erano sotto di noi. Il NOI Techpark è stato aperto dopo, nel 2017, ma le competenze che avevamo sul territorio sono confluite lì dentro.

Quindi la spinta veniva da prima.
C’erano diverse agenzie pubbliche, una era per lo sviluppo territoriale, un’altra era per l’innovazione, una per il marketing, un’altra per l’export. C’è stata una fusione di queste aziende e poi è stato creato anche il NOI Techpark come infrastruttura. Perché il concetto è che quello che vogliamo raggiungere in Alto Adige è di alzare l’investimento in ricerca e sviluppo, l’obiettivo è il 3% del Pil come a Lisbona, ora purtroppo siamo ancora sotto l’1% e il NOI Techpark vuole essere questo spazio dove è più facile la contaminazione tra ricerca e aziende – startup, ma anche aziende consolidate che mettono il loro ufficio qui al parco.

Collaborate soprattutto con aziende dell’Alto Adige?
Nella natura della cosa è ovviamente più facile avere contatti con le aziende dell’Alto Adige però no, perché se vogliamo fare la differenza su certi temi dobbiamo collaborare con tutto il mondo, è l’esempio di Huawei ma in tutti gli ambiti cerchiamo di avere una rete internazionale.

E con l’Italia?
Collaboriamo molto anche attraverso reti europee di collaborazione fra i parchi, come la European Enterprise Network e così si creano hub in tutta Italia.

In questi giorni alla SFScon, una cosa molto bella che ho notato vedendo le talk è che gli speaker in media sono molto giovani.
È una particolarità dell’informatica, è molto open, condivisione subito, è l’effetto della community libera. E poi l’informatica dà la possibilità di fare cose strane ma bisogna arrivarci, e noi “vecchi” facciamo fatica. Già rispetto al Metaverso noi siamo scettici, diciamo: ah, la second life già non ha funzionato… Ma i giovani possono avere una visione più aperta.

A proposito di Metaverso, cosa ne pensa?
Dovremo capirlo. Può essere un’evoluzione estrema il fatto che il digitale entri ancora di più nella nostra vita e che dipendiamo ancora più dal digitale. E la domanda è: sarà una piattaforma aperta che tutti noi possiamo influenzare e a cui possiamo partecipare o sarà una piattaforma controllata da pochi?

Ma quest’influenza l’avrà solo su una ristretta cerchia di persone, diciamo il mondo – occidentale e non solo – agiato, o sarà un’evoluzione che toccherà anche il resto della popolazione?
È una bella domanda. È interessante pensarci, ma per esempio ora c’è il tema del cambiamento demografico, la popolazione in Europa e Stati Uniti invecchia.

Anche in Cina ora.
Esatto, mentre per esempio in Africa diminuisce la mortalità infantile, quindi ci sono già sempre più ragazzi che diventano quindicenni e poi ventenni e che diventano sviluppatori informatici e lavorano per aziende che non sono in Africa. Può essere una chance, la digitalizzazione. E magari per noi sembra una realtà impensabile, ma in fondo anche per i nostri genitori poteva sembrare impossibile lavorare con gli smartphone, e guarda ora.

Però in effetti più il digitale diventa pervasivo più rimaniamo senza armi nostre. Per fare un esempio, a furia di usare le mappe del telefono diminuisce il senso dell’orientamento e quando poi il telefono si scarica siamo persi.
È vero, è la comfort zone che noi esseri umani abbiamo. Ma magari ci liberiamo da questa necessità per fare altro, non dobbiamo più pensare a come arrivare in un certo posto, non sappiamo magari più nemmeno leggere una cartina, ma possiamo pensare ad altro.

È una dipendenza però.
Sì, è un lock-in, una dipendenza che ci creiamo.

E con Metaverso?
Nessuno sa ancora come sarà, se funzionerà. Però se funzionerà, se ci renderà più facile e agevole la vita, noi lo useremo e più lo useremo più saremo dipendenti da questo. Però ci saranno anche nuove opportunità per nuovi business all’interno di Metaverso. E questi business dipenderanno da questa piattaforma e allora diventa molto importante capire se riusciamo a creare un Metaverso che non dipenda solo da Facebook-Meta.

Per un hacker basterebbe colpire Facebook per far crollare tutto.
Sì, esatto, c’è un tema di stabilità. Ma soprattutto per il controllo e il potere che avrebbero.

E che hanno già adesso.
Esatto. La nostra società viene influenzata sempre di più dagli sviluppi del digitale. Prima, negli anni 90, era una cosa a cui noi giocavamo e nessuno se ne interessava, mentre ora tutti sanno che ha un’implicazione su tutti noi. Servono tecnologie aperte a cui tutti possano partecipare, è la democratizzazione del digitale.

La politica internazionale ha delle influenze sul vostro lavoro?
Sì, ci sono delle implicazioni. Per esempio Trump aveva una strategia molto forte, molto dura, e questo ha motivato di più l’apertura perché si è capito che se si dipende solo dalla tecnologia di un solo singolo Stato quello Stato può influenzare tantissimo e sempre di più, può chiudere il tuo business che magari dipende da certe piattaforme. Per esempio se faccio un business su Facebook e nel mio Stato a un certo punto non viene più dato l’accesso a Facebook, il mio business muore. E questa è diventata un’arma perché le piattaforme digitali ormai sono la base per tante cose nella nostra società.

Con l’Open Source non succede.
Lì c’è sempre la possibilità che altri prendano e diventino attivi. L’Europa per esempio ora vuole avere questa technological sovereignty.

Con Gaia X?
Esatto, Gaia X è una cloud europea, perché ultimamente se si vuole usare una cloud non si ha molta scelta. Questo è sicuramente uno sviluppo verso cui andare: bisogna capire che anche il know how locale è importante, costa magari qualcosa in più investire ed è più complicato che acquistare qualcosa che già funziona. È sempre un trade off: build o buy? Build magari costa, è complicato, non funziona. Buy ti costa un po’ meno, però poi dipendi da loro. E l’Europa adesso ha deciso di aumentare l’investimento in tecnologie europee anche nel digitale, se no dipendiamo completamente dagli altri.

E l’Open Source è la risposta?
L’Open Source è un’opzione. La domanda è: uso tecnologie Open Source oppure uso il Google Docs che mi dà Google già pronto e finito?

C’è anche un problema di alfabetizzazione informatica della popolazione?
Non so, ogni tanto mi sembra che questa venga usata anche come scusa. Col Covid abbiamo tutti imparato a fare video conferenze che prima sembravano impensabili, ora fare riunioni in presenza è quasi strano.

Però è diverso imparare a usare qualcosa e avere invece la consapevolezza per poter scegliere fra un prodotto e l’altro.
Sì, però quello forse non è sempre l’utente finale che deve sceglierlo ma devono essere le organizzazioni che investono in un’opzione o in un’altra. Oggi non c’è molta scelta sul mercato perché se uno dei grandi acquirenti di tecnologie è la pubblica amministrazione e acquista quello che è più facile della tecnologia americana allora quelli che vogliono fare tecnologia in Europa hanno poco mercato. Deve esserci dietro quindi una scelta politica con una strategia e un investimento per arrivare a un certo obiettivo. È veramente una scelta europea e Gaia X è un buon esempio, lì stanno facendo un investimento, per fortuna.

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