Industria
Oltre i capannoni, per il Nordest è tempo di Industria 4.0
Se negli anni ‘60 la locomotiva dell’economia italiana era il “triangolo industriale” tra Milano, Torino e Genova, oggi il motore della seconda potenza industriale d’Europa si colloca tra Padova, Bologna e Milano. È il “nuovo triangolo industriale”, più orientato al mar Adriatico e alle Dolomiti che al mar Tirreno e alle Alpi occidentali. Ne parlano i media, ne parlano gli analisti economici, ne parlano pure gli imprenditori: basti pensare che la recentissima fusione tra Confindustria Padova e Unindustria Treviso (da cui è nata Assindustria VenetoCentro, una specie di Assolombarda del Nordest) è avvenuta proprio in nome del motto “costruire il nuovo triangolo industriale”.
Cuore pulsante di questo “nuovo triangolo industriale” è il Veneto, che nel 2017 è cresciuto dell’1,7%, e quest’anno dovrebbe replicare la performance. Per Giancarlo Corò, direttore del Centro inter-dipartimentale SELISI della Ca’ Foscari di Venezia, «il principale punto di forza dell’economia veneta è la varietà delle specializzazioni. Non dovremo mai perdere di vista lo straordinario valore di questo patrimonio di conoscenze, competenze, esperienze produttive che si è accumulato nel tempo e la cui continua ricombinazione da parte delle imprese fornisce la materia base per le innovazioni di mercato».
Certo, non mancano le debolezze. A partire dalla «componente scientifica dell’innovazione, per la quale manca sia un’adeguata cultura imprenditoriale, sia la volontà di un investimento collettivo in grado di trattenere e attrarre sul territorio talenti di classe mondiale – spiega Corò – Un’altra debolezza è nel sistema finanziario, troppo dipendente da banche tradizionali, per altro sempre meno collegate e interessate a questo territorio».
Difficile dare torto allo studioso. Dopo le bastonate della crisi, il Veneto “cinese” degli anni ’90, ad altissima intensità di lavoro ma debole quanto a capacità di innovazione, è un ricordo alquanto sbiadito. Finita l’era dei capannoni ubiqui, oggi le aziende che brillano sono quelle che puntano sull’Industria 4.0, sui brevetti, sul design, sulla creatività; non a caso l’epicentro della trasformazione è il padovano, con le sue startup innovative (240 in tutto), le sue PMI specializzate nella logistica e nella refrigerazione industriale, il suo ateneo di eccellenza.
È vero, dice Carlo Valerio, presidente di Confapi Padova: la provincia patavina è un polo del manifatturiero innovativo italiano. Un polo, è bene precisarlo, che marcia con una propria, incalzante tabella. «Qui ci si sta organizzando da soli. Le aziende, che comunque a volte sono piccole, ma sempre tese al miglioramento e al confronto con i mercati nazionali e anche esteri, operano in via autonoma; si informano sulle opportunità di finanziamento, ma poi provvedono da sole alla ricerca dei partner con cui sviluppare i vari programmi. Questa è una caratteristica abbastanza veneta e nordestina, e molto padovana. Forse è un limite, ma se non altro si arriva presto all’obbiettivo».
Padova, spiega Corò, «è la provincia veneta che ha risentito meno della crisi, e che oggi ha i maggiori potenziali di crescita, grazie alla sua economia differenziata, in particolare per la combinazione di industria e servizi avanzati, compresa l’università. Ben posizionata è anche Treviso, per la presenza di imprese e distretti di classe mondiale. Meno bene sembrano andare Rovigo e Venezia, anche se per quest’ultima bisognerebbe distinguere alcune aree, come la Riviera del Brenta, che ha mantenuto un buon tasso di sviluppo anche nei momenti più acuti della crisi».
In effetti la Riviera del Brenta, “cuore della produzione globale delle scarpe di lusso” secondo un recente articolo del Sole 24 Ore, esporta quasi tutto ciò che produce. Ma anche in quel di Fiesso d’Artico, dove il colosso francese Lvmh vanta uno stabilimento all’avanguardia, i calzolai, i formisti e gli orlatori – maestri di un sapere artigiano antico e ultralocale – sono affiancati da tecnici e persino dai robot. E del resto a Cittadella come a Bassano, a Mestre come a Belluno, gli imprenditori manifatturieri con i bilanci migliori non parlano altro che di Industria 4.0, e citano positivamente il “piano Calenda” (alias Piano nazionale Industria – poi Impresa – 4.0).
Presentato nel settembre 2016, il piano si pone l’ambizioso obiettivo di sostenere in Italia, nel periodo 2017-2020, la Quarta rivoluzione industriale. Incentivando gli investimenti privati in innovazione (sia in beni tangibili come macchinari e strumentazioni, sia in beni immateriali come software e sistemi IT) e R&S; promuovendo la cultura dell’Industria 4.0 attraverso lo sviluppo delle competenze tecniche necessarie a renderla possibile; finanziando la ricerca legata al settore; sostenendo i grandi investimenti innovativi e abilitanti.
Tra le misure previste dal piano, l’iper-ammortamento al 250% degli investimenti in beni materiali nuovi, dispositivi e tecnologie abilitanti la trasformazione in chiave 4.0 – acquistati o in leasing per il 2018; credito d’imposta per la “formazione 4.0” del personale; e credito d’imposta per stimolare la spesa privata in R&S volta a innovare processi e prodotti.
Tra gli imprenditori c’è chi segnala qualche problema. Secondo i dati della Fondazione Nord Est, ad esempio, circa il 13% delle aziende nordestine con meno di 50 addetti ha ritenuto troppo complicata la legge. Il manager di una PMI ad alta innovazione confida, a registratore spento, a Gli Stati Generali: «Io non ho ben capito a chi si rivolgesse questo piano Calenda. Certo non alle piccole e piccolissime imprese, dato che per fruire degli incentivi erano necessari requisiti da fantascienza. Si poteva fare richiesta solo per comprare tecnologia molto avanzata, dai costi significativi, escludendo tutti gli altri, compreso chi la roba se la fa in-house». La sua però è una voce davvero fuori dal coro. In generale gli imprenditori veneti sembrano apprezzare l’Industria 4.0.
A luglio 2017 quasi la metà delle imprese nordestine (per la precisione il 46,3%) aveva approfittato degli incentivi del Piano Impresa 4.0 o intendeva farlo entro la scadenza; un dato che raggiungeva il 62% nel caso delle imprese con più di 50 addetti. Lo scorso dicembre, l’Ucimu stimava in circa 2,7 miliardi di euro il valore delle consegne di macchine utensili, automazione e robotica sul mercato italiano per il 2017, un aumento del 16% rispetto all’anno precedente.
«Il Veneto è caratterizzato da un tasso di aziende manifatturiere molto alto, e dal fatto che riunisce praticamente tutti i tipi di industria manifatturiera – dice Stefano Miotto, direttore di Confindustria Veneto SIAV – Si va dall’agrifood allo smart manifacturing, dalle industrie creative al living. E per affrontare la sfida dell’industria 4.0, le aziende venete stanno adottando soluzioni molto trasversali e diverse. Indubbiamente siamo penalizzati dalla dimensione media dell’impresa: un elemento che riguarda tutta l’Italia, ma il Veneto in particolare, dato che la regione ha un imprenditore ogni dieci abitanti… un tasso molto alto, che però significa una dimensione d’impresa piccola o molto piccola; e d’altra parte non esistono, né qui né nel resto d’Italia, centri organizzati di trasferimento della conoscenza, alla Fraunhofer per intenderci».
E questo significa una sola cosa: che «non essendoci dei grandi player in nessuno dei due campi, tutto il tema della ricerca e innovazione – 4.0 incluso – è sottodimensionato – continua Miotto –, e questo non rende neanche giustizia alla regione, perché all’interno di molte aziende venete, in realtà, si sta facendo tanta attività di innovazione e c’è una grande sensibilità verso questo tema». È il caso di Longarone, ad esempio, paese in provincia di Belluno, territorio alpino famoso per l’industria degli occhiali.
A Longarone ha sede Sinteco, azienda leader negli impianti per l’automazione industriale ed ospedaliera, dal sito in dodici lingue, turco e portoghesi inclusi. «Abbiamo molti brevetti. Dato che la ditta realizza macchine customizzate deve per forza investire moltissimo in ricerca e sviluppo, che da noi è all’ordine del giorno – spiega Stefano Giacomelli, direttore generale della Sinteco –. In pratica partiamo dall’oggetto che il cliente ha bisogno di industrializzare, e ragioniamo sulla possibilità di realizzare dei sistemi per poterlo assemblare e collaudare in maniera più automatica possibile. Da queste situazioni nascono sempre idee nuove: alcune le brevettiamo, altre per motivi industriali le gestiamo con il cliente o non le brevettiamo. Nel complesso, investiamo il 20-25% del fatturato in R&D».
Passando dalla robotica all’alimentare, a Vestenanova, nella bella campagna veronese, c’è il caseificio Elda, specializzato in prodotti a base di ricotta, che si è convertito con successo all’Industria 4.0. «Siamo cresciuti con il concetto di Industria 4.0 – ricorda Eleonora Zerbato, direttrice generale del caseificio –, per noi è stata una necessità per sopravvivere e crescere in una fase in cui era molto raro sentir parlare di automazione e integrazione. Nel ’90 abbiamo iniziato a produrre la ricotta, e nel ’98 abbiamo avviato una crescita verso un’automazione e un’integrazione tra i processi sempre più spinte. Non è stata soltanto una necessità, ma uno strumento col quale abbiamo visto di poter avere maggior controllo, sia sui processi produttivi sia sull’azienda, per diventare efficienti. Perché questo ci consentiva di monitorare tutti quegli elementi che costituivano la possibilità di crescita dell’azienda».
Insomma, è un nordest evoluto, anzi evolutissimo, in grado di stare al passo con le aree più avanzate d’Europa. Una macro-regione che sogna di saldarsi con il polmone industriale della Baviera (grazie all’arteria del Brennero), un po’ come ha già fatto la Cechia. «Ma la Baviera può contare sul peso politico della repubblica federale, la Cechia no – dice a Gli Stati Generali un imprenditore veneto molto attivo in Baviera –. I tedeschi fanno gli interessi dei tedeschi, e a Bruxelles si fanno valere. In Europa serve il sistema-paese, serve l’Italia, con i suoi sessanta milioni di abitanti, perché se no si finisce come ungheresi e cechi, che hanno bisogno delle commesse tedesche ma litigano in continuazione con i politici di Berlino, senza possibilità di spuntarla, dato che sia l’Ungheria che la Cechia sono nazioni piccoline, con poco leverage. E se si esce fuori dall’Europa, è peggio: il Qinghai, che è una delle province più desolate della Cina, ha più abitanti del Veneto».
Riflessioni politiche a parte, nel concreto Industria 4.0 significa robot e cobot, macchine utensili a controllo numerico computerizzato, magazzini automatizzati, banchi e postazioni di lavoro in grado di adattarsi alle specifiche fisiche dei lavoratori, e altre mirabilie che l’ormai leggendaria circolare congiunta n.4/E del 30-3-2017 dell’Agenzia delle Entrate e del MISE elenca nel dettaglio. Ma se il Veneto corre, le due regioni “minori” del nordest, ossia il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino-Alto Adige, non stanno certo a guardare. Anzi, in qualche modo, grazie al loro peso demografico ed economico più limitato, possono quasi fungere da avanguardie.
La provincia autonoma di Bolzano, ad esempio, sta cercando di specializzarsi in “tecnologie intelligenti”, che combinano automazione, ICT e computazione; a trascinare l’ecosistema locale, una galassia di PMI manifatturiere innovative e di nicchia, come quelle che realizzano impianti a fune o turbine eoliche. Dice Josef Negri, direttore di Assoimprenditori Alto Adige: «Noi vediamo che in questo momento, sul tema dell’Industria 4.0, c’è grande interesse in Alto Adige; ci sono molte imprese che o hanno già investito, oppure stanno pensando di investire in questo campo. Si tratta di una sfida che chiaramente coinvolge tutte le imprese, soprattutto quelle del manifatturiero ma anche le altre, e che non si ferma di certo alle porte delle aziende, ma coinvolge tutta la società».
In Friuli-Venezia Giulia (economia a cui questo giornale ha dedicato un approfondimento) operano realtà come il Carnia Industrial Park, che vanta tra le aziende insediate anche colossi internazionali. L’approccio qui è sistemico. Dice il direttore del parco, Danilo Farinelli: «Le principali istituzioni regionali della ricerca, dell’innovazione e del manifatturiero stanno lavorando da mesi alla costituzione di una piattaforma comune, denominata IP4FVG (Industry Platform for FVG), finalizzata alla costituzione di un Digital Innovation Hub regionale articolato in quattro nodi territoriali e tematici. Una piattaforma regionale, aperta e inclusiva, di supporto alla trasformazione digitale delle imprese del territorio».
BeanTech è un’impresa friulana specializzata in integrazione di soluzioni informatiche e in ricerca connessa allo sviluppo software. Ha sede a Reana del Rojale, tranquillo comune udinese sulla strada per l’Austria. L’azienda, che investe il 20% del suo fatturato in R&D, quest’anno dovrebbe fatturare dieci milioni di euro, e costituisce un osservatorio privilegiato per avere il polso della sensibilità digitale delle PMI nordestine. «C’è una grandissima consapevolezza, nel tessuto produttivo, del fatto che bisogna digitalizzarsi, una consapevolezza che in venti anni di lavoro nel settore non avevo mai visto a questi livelli – spiega Fabiano Benedetti, AD e presidente dell’azienda –. Si figuri: anche nei piani alti delle aziende la digitalizzazione è un tema molto discusso, mentre fino a qualche anno fa non se ne discuteva neanche, anzi: spesso se ne parlava come qualcosa di secondario. Oggi invece è al centro di ogni discussione, quindi la consapevolezza c’è».
Oltre a dare nuova competitività a PMI intelligenti, il passaggio all’Industria 4.0 ha un’altra dimensione degna di nota: la capacità di generare un’occupazione di qualità, facendo tornare nel vicentino, nel pordenonese, nel goriziano, posti di lavoro migrati in Cina, in Polonia o in Slovacchia. Spiega Paola Savi, economista dell’Università degli Studi di Verona: «le nuove tecniche di fabbricazione, essendo a bassa intensità di lavoro e a ridotto impatto ambientale, potrebbero contribuire a cambiare le convenienze localizzative delle imprese, riducendo i vantaggi legati alla delocalizzazione in paesi a basso costo del lavoro e favorendo il reshoring, ossia il rientro delle produzioni, tendenza già in atto in Italia e in altri paesi economicamente avanzati». Un altro motivo per puntare sull’Industria 4.0.
Immagine in copertina: Pixabay
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