Innovazione
Avvocati: alle porte di un pericoloso conflitto generazionale
Nel 1960 l’età media, in Italia, era calcolata dall’Istat in circa 69 anni, nel 1980 raggiungeva i 74 anni, nel 2000 i 79 anni, oggi sfiora gli 84 anni. Grazie ai progressi della scienza medica, in definitiva, nell’arco di sessant’anni ne abbiamo guadagnati all’incirca quindici.
In questo contesto, l’età pensionabile ha provato ad inseguire l’aspettativa di vita, e le diverse riforme previdenziali hanno sensibilmente allungato l’arco temporale che divide la fine degli studi dalla pensione, vale a dire il periodo che ciascuno di noi, nella normalità, dovrebbe dedicare al lavoro.
Lavorare per più anni rispetto al passato significa, insieme a molte altre cose, anche che più lavoratori sono destinati a trovarsi contemporaneamente in attività.
In ambito forense, questa è solo una delle ragioni, sicuramente non la principale, in grado di spiegare l’incredibile aumento degli iscritti all’Albo, più che raddoppiati in un ventennio scarso.
Ve ne sono molte altre, più o meno note, che forse poco rilevano, perché più dei singoli fattori che compongono l’equazione è il risultato che merita attenzione: come mi faceva notare un collega non molto tempo fa, assomigliamo sempre di più al bestiame utilizzato come metafora da Garrett Hardin nel celebre saggio “The Tragedy of The Commons”.
Garrett Hardin era un ecologo, non un avvocato, e si poneva problemi ben diversi da quelli di cui discutiamo: si interrogava sulla crescita della popolazione in proporzione all’uso delle risorse – ovviamente limitate – offerte dalla natura.
Hardin arrivò, per questa via, ad enunciare la sua “tragedia dei beni comuni”, che provò a spiegare prendendo in prestito dall’economista inglese William Forster Lloyd, come poc’anzi accennato, una fortunata e semplice metafora bovina.
Immaginate di poter disporre di un ricco terreno da adibire al pascolo e di condurvi un quantitativo sempre crescente di capi di bestiame. Vi renderete conto che esiste una soglia critica, entro la quale i vostri animali cresceranno in salute, rendendovi sempre più ricchi, ma il cui superamento condurrà ad una pericolosa crisi di sistema, che coinvolgerà l’intero allevamento.
Perché con il pascolo funziona così: la saturazione della domanda esaurisce l’offerta, e ne escono progressivamente mortificati i bisogni dell’intera collettività che vi si affida.
Purtroppo, il numero degli avvocati iscritti in attività ha di gran lunga superato quella soglia critica, ed è a rischio, sarebbe miope non vederlo, la sostenibilità dell’intero sistema.
Per evitare un punto di non ritorno dovremmo, in primo luogo, interrogarci su come ampliare il nostro “pascolo”. Alcune soluzioni esistono ed ho provato a suggerirle, sempre su questa testata, con il “Gattopardo digitale” (qui). Dobbiamo però essere lucidi: un Paese che non ha raddoppiato la propria popolazione, né la propria economia, non può garantire che vi sia lavoro per il doppio degli avvocati.
Da questo punto di vista si può solo rimanere allibiti di fronte alle proposte di chi vorrebbe abolire l’esame di abilitazione, all’inseguimento di una incontrollata apertura del mercato forense, o di vorrebbe rivedere le prove d’ingresso introducendo test a “crocette”.
Si tratta di proposte semplicemente intollerabili: una revisione del meccanismo di accesso alla professione sarebbe indispensabile, ma nell’ottica di una migliore formazione e selezione degli aspiranti avvocati, non certo nella prospettiva di creare dei commercianti del diritto, liberi di accaparrarsi quote di “pascolo” nell’ottica del libero (e selvaggio) mercato.
Se il numero degli avvocati in attività e i dati anagrafici fin qui considerati suggeriscono, anche da soli, le ragioni del conflitto crescente tra giovani e sempre più anziani professionisti, altre anomalie ne alimentano la pericolosità.
Una di queste, forse la più antipatica, ha matrice culturale: siamo un paese che non ama e non favorisce in alcun modo i passaggi generazionali.
In un giovane di buone speranze sono presenti pregi e difetti: un misto di forza e inesperienza, elasticità mentale unita ad ingenuità, impreparazione ma anche buona volontà.
Eppure, è sui soli difetti che troppo spesso gli anziani tendono a concentrarsi per giustificare i testimoni mai passati, ed il risultato è che i pregi, non coltivati, restano tristi promesse non mantenute.
Gli stucchevoli proclami che riconoscono ai giovani il potere – e la responsabilità – di guidare il futuro, provengono da una colpevole generazione “tappo”, che accentra le risorse, non investe e anzi spesso ostacola i processi di crescita, e che a dispetto dell’età che avanza, semplicemente non molla mai.
Per carità, in questo scenario si distinguono tante eccezioni, che consentono di guardare con un certo ottimismo al domani. Penso a Gregorio Consoli, socio quarantaduenne dello studio Chiomenti; oppure a Michele Briamonte, 43 anni, managing partner di Grande Stevens; per non parlare di Claudia Parzani, 49 anni, managing partner per l’area Western Europe e global business developement & marketing partner di Linklaters, nonché presidente di Allianz Spa.
A questi esempi di altissimo livello, di recente inseriti nella classifica dei 50 migliori avvocati italiani, se ne potrebbero aggiungere molti altri, ma resta il fatto che si tratterebbe comunque di eccezioni, in un contesto che vive dell’antipatica regola del “tappo” generazionale, di cui parlavo prima.
Non si tratta certo di un male che affligge solo la professione forense.
Ricordo l’esperienza di un caro amico, medico chirurgo trentasettenne, che stanco di non riuscire a fare esperienza perché il suo primario effettuava di persona quasi ogni intervento, decise di trasferirsi all’estero. Mi raccontò il dialogo surreale intrattenuto con il primario di una clinica di Lione, dalla quale sperava di essere assunto. Il primario in questione era un suo coetaneo. I due, chiaramente in sintonia fin da subito, continuarono tuttavia a scrutarsi a vicenda con circospezione, finché il primario gli chiese espressamente come mai, pur sembrandogli preparato e in gamba, alla sua età non avesse ancora “fatto carriera”. Il mio amico, con altrettanta franchezza, gli chiese come avesse fatto lui, neanche compiuti quarant’anni, a dirigere una struttura così prestigiosa. Fu l’occasione per confrontare i modelli dei rispettivi paesi di provenienza e, per fortuna, fu anche l’inizio di una proficua collaborazione.
Tornando ai temi della professione forense, l’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione di Covid-19 ha reso ancor più impellente la necessità che certi schemi cambino. Imponendo una massiccia e repentina digitalizzazione dell’attività legale, l’odioso virus ha anche impresso una straordinaria accelerazione allo sviluppo del legal tech, patrimonio pressoché esclusivo della nuova generazione forense.
La generazione “anziana” ha una grande responsabilità: deve raccogliere i frutti della propria esperienza e offrirli a quella più giovane, mettendosi al suo fianco per accompagnarla verso il domani. Oppure, se necessario, deve porsi alle sue spalle, per darle forza e spingerla quando ne ha bisogno. Non può continuare, però, a starle sempre davanti, rivendicando un ruolo di guida, che se anche servisse, semplicemente ha smesso di esercitare.
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