Infrastrutture

Se l’Italia fosse un paese civile

1 Settembre 2018

Mi ha colpito una frase di Luigi Prestinenza Puglisi, che, in una recentissima riflessione sulla decisione di Renzo Piano di regalare una idea progettuale per sostituire il ponte Morandi, scrive: Se l’Italia fosse stata un Paese civile, una settimana dopo la tragedia del crollo del ponte Morandi a Genova, una delegazione di ministri, sottosegretari e onorevoli si sarebbe recata alla sede del Renzo Piano Building Workshop, a Vesima, per chiedere all’illustre architetto di preparare nel più breve tempo possibile gli esecutivi per la costruzione di un nuovo ponte. Per due motivi. Primo: la scelta obbligata dell’affidamento diretto per l’impraticabilità di un concorso in tempi ristretti. Secondo: la chiara fama. Nessun osservatorio degli appalti avrebbe mai messo in dubbio che si trattava del più importante architetto italiano, e oltretutto genovese, quindi in grado di risolvere nel migliore dei modi il problema postogli. Renzo Piano, in questo colloquio immaginario, avrebbe dovuto rispondere dicendo che avrebbe accettato con piacere nella sua veste di architetto, ma, per convincerlo nella sua veste di senatore, il Governo si sarebbe dovuto impegnare a emanare in tempi altrettanto brevi una Legge per l’architettura composta di soli due articoli. Il primo, secondo il quale tutti gli incarichi pubblici, tranne, appunto, quelli di somma urgenza, da quel momento in poi sarebbero stati assegnati attraverso un concorso in due fasi, alla francese. Il secondo, in base al quale chi fa il progetto è anche il direttore lavori che lo realizza, assumendone gli onori e, soprattutto, le responsabilità.

Ho pensato (in maniera sparsa e poco sistemica):

  • se l’Italia fosse un paese civile, i ponti non crollerebbero;
  • se l’Italia fosse un paese civile, una Legge per l’architettura già ci sarebbe;
  • se l’Italia fosse un paese civile, nessuna delegazione col cappello in mano sarebbe andata ad elemosinare un progetto ad un architetto di chiara fama;
  • se l’Italia fosse un paese civile, su 150.000 architetti, qualcuno di chiara fama in più ci sarebbe;
  • se l’Italia fosse un paese civile, una delegazione di ministri, sottosegretari e onorevoli avrebbe quel poco di cultura per conoscere il nome e le opere di altri architetti, oltre a quelli di Piano;
  • se l’Italia fosse un paese civile, eviterebbe di trasformare ogni singola tragedia nell’occasione per evitare di seguire l’iter progettuale espresso dalla legge attuale;
  • se l’Italia fosse un paese civile e considerasse questo iter troppo lungo ed inefficiente, lo avrebbe cambiato da decenni;
  • se l’Italia fosse un paese civile, si attiverebbe con solerzia per costruire una nuova opera che riesca, come il ponte Morandi, ad essere luogo e simbolo di modernità e innovazione;
  • se l’Italia fosse un paese civile, non vedremmo nostri compatrioti condividere foto di ponti romani o, peggio, costruiti durante il fascismo (e conseguente apologia), che non sono ancora crollati (tra l’altro ponti ormai pedonali, che superano luci ridottissime);
  • se l’Italia fosse un paese civile, non verrebbe sfruttata, a fini di propaganda politica, la tragedia;
  • se l’Italia fosse un paese civile, sfrutterebbe invece la vicenda Piano per far emergere che l’architettura, in Italia, versa in uno stato di debolezza assoluto, senza ambizione, con pochissime possibilità di costruire opere di qualità (da un numero ristrettissimo, ma ricorrente, di architetti), con un reddito imponibile medio degli architetti di 19.000 euro;
  • se l’Italia fosse un paese civile, la vicenda Piano potrebbe dare il via ad un ripensamento generale di cosa voglia dire fare architettura in Italia e si capirebbe che, prima di tutto, va cambiato radicalmente l’insegnamento dell’arte fin dalla scuola, affinché si crei una base culturale minima nei cittadini per poter apprezzare la cultura contemporanea (e quindi, di riflesso, l’architettura);
  • se l’Italia fosse un paese civile, partirebbe da questa tragedia per verificare ogni opera infrastrutturale, cogliendo l’occasione per far partire un grande piano di nuove opere, a grande e piccola scala, con il metodo descritto da Prestinenza: tutti gli incarichi pubblici, […] sarebbero stati assegnati attraverso un concorso in due fasi, alla francese. […] chi fa il progetto è anche il direttore lavori che lo realizza, assumendone gli onori e, soprattutto, le responsabilità.

A lato di tutto questo, una breve considerazione; l’urgenza è un concetto che non esiste, in architettura: o si risolvono le questioni “domani”, con prodotti esistenti sul mercato, studiati per queste situazioni, ma veramente temporanei (si può fare un discorso architettonico anche in questi casi, comunque, vedasi l’esperienza di Shigeru Ban per le calamità naturali in Giappone, per esempio), oppure tutto ciò che deve seguire un minimo iter progettuale per costruire un’opera duratura ha necessità di tempi, ristretti ma adeguati.

Chi si trincera dietro la troppa burocrazia è qualcuno che sulla burocrazia ci vive: nella nostra esperienza di studio di architettura, ogni singolo processo è rallentato non dalla burocrazia, ma dalle persone che fanno inerzia. Spesso si trovano negli uffici pubblici e sfruttano la complicanza (spesso inutile, certo) del processo per evitare di assumersi delle responsabilità e, in ultima analisi, per lavorare meno.

Decidiamo, allora, una cosa: o ogni singola opera in Italia diventa urgente, e quindi sorpassiamo le lungaggini burocratiche, o cerchiamo di snellire il processo (anche eliminando molte leggi), ma controllando -sistematicamente- chi questo processo deve far applicare.

Se l’Italia fosse un paese civile, capirebbe che è già un paese civile, il quale necessita, come tutti i paesi, di migliorarsi ed evolvere e non di continuare a piangere addosso alle proprie miserie (che hanno, in misura più o meno maggiore, tutti i paesi del mondo).

 

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