“Renzi, fa’ entrare l’Italia nel brevetto unico europeo”
Con il 2016 dovrebbe entrare finalmente in vigore il brevetto unico europeo, un solo brevetto valido su 25 stati. Ma l’Italia rischia, ancora una volta, di perdere il treno con l’innovazione, «di giocare in Serie C e non in Champion come invece potrebbe fare avendo tutte le carte in regola per portare a termine la partita con i campioni di serie», sostiene Benoît Battistelli, presidente del European Patent Office, l’Ufficio europeo dei brevetti, che abbiamo intervistato poco dopo la presentazione dei risultati dell’ultimo esercizio. Il 2014 è stato un anno chiuso con risultati record: 274mila le richieste di registrazione pervenute presso gli uffici di Epo, in crescita del 3,1% rispetto al 2013. In questo quadro l’Italia continua ad avere un peso piuma: 4.684 richieste, pari al 2% complessivo delle richieste pervenute, e solo 59 domande per milione di abitante, lontana anni luce dalla media europea (131). Per il nostro paese uno dei pochi aspetti positivi riscontrati nei dati sull’anno appena chiuso è il ritorno alla crescita (+0,5%) dopo anni di buio.
Presidente Battistelli, di brevetto unico europeo si parla ormai da anni, cosa la rende così fiducioso che questa sia la volta buona?
«Finora hanno aderito sei stati sui 13 richiesti, che devono necessariamente comprendere Germania, Francia e Gran Bretagna. A giugno definiremo finalmente le condizioni economiche e i costi per la richiesta di brevetto unico europeo, e da lì mi attendo un’accelerazione per il completamento del processo, tanto che mi aspetto che il brevetto unico europeo diventi operativo già con il 2016».
L’Italia, così come la Spagna, finora è rimasta fuori per ragioni essenzialmente linguistiche (il deposito dei brevetti avverrà in tedesco, inglese e francese) e di competenza giurisdizionale (manca la previsione di un tribunale competente in materia sul territorio italiano). Cosa ne pensa? Ritiene che possano esserci dei cambiamenti in corsa?
«Contrariamente alla Spagna, so che in Italia ci sono discussioni in corso e che non è ancora definitivamente esclusa l’adesione al brevetto unico europeo. Sono fiducioso a riguardo. Per quanto mi riguarda posso solo dire che mi auguro che l’Italia non resti indietro, il rischio di rimanere ai margini di questo processo di unificazione sul fronte brevettuale è infatti quello di trovarsi a giocare in serie C quando gli altri Stati giocano in Champion, se mi consente un paragone calcistico».
Tuttavia in molti sostengono che il brevetto unico europeo sarebbe troppo oneroso per le Pmi italiane che costituiscono gran pare del tessuto economico del nostro territorio …
«Prima di tutto una precisazione: l’avvio del brevetto unico porterebbe a un risparmio del 70% circa dei costi attualmente necessari per la validazione del brevetto, per venti anni, nei 25 Paesi aderenti al progetto (complessivamente, calcolati in sole commissioni, in circa 50-60mila euro). Da un lato si amplia quindi la protezione ad un territorio più vasto, una condizione sempre più necessaria in un mondo che vira verso la globalizzazione, dall’altro si riducono sensibilmente i costi anche grazie al programma di traduzioni automatiche gestito da Epo. Uno scenario che dovrebbe quindi favorire anche le Pmi e non di certo danneggiare. Ciò non toglie peraltro che io, personalmente, sia favorevole anche a una riduzione delle tariffe per le Pmi che potrebbe portare ad un loro maggiore coinvolgimento. Come avvenuto in Francia dove, quando ero presidente dell’Autorità per i brevetti francese, ho fatto opera di sensibilizzazione intesa tra le Pmi e ridotto loro i costi».
A quanto pare tuttavia le Pmi italiane così come le big non sembrano particolarmente interessate all’argomento brevetti, almeno dando un’occhiata ai dati 2014 pubblicati da Epo. I campioni italiani sono Solvay con 70 richieste di brevetti, seguito da Lyondellbasell con 51 e da Tetra Laval e Pirelli con 34. Difficilmente reggono il paragone con i campioni internazionali come Samsung con 2.541 richieste, seguita da Philips con 2.317 e Siemens con 2.133. Dai numeri emerge un certo disinteresse al tema. A cosa è dovuto?
«Temo che ci sia prima di tutto un fattore culturale che privilegia l’attenzione e la valorizzazione del marchio rispetto alla proprietà intellettuale relativa ai processi di fabbricazione di determinati prodotti. Spesso si dimentica che il successo di un brand è spesso legato a doppio filo al boom di specifici articoli per cui, a loro volta, l’innovazione industriale e tecnologica del processo produttivo è stato letteralmente determinante. (In questi ultimi giorni si è parlato diffusamente, ad esempio, dell’innovativo sistema di produzione della Nutella o di quello dei “Mon Cheri”, ndr). Innovazione che quindi vale la pena di proteggere non solo a livello nazionale visto che ormai, in un mercato mondiale, la concorrenza è su più fronti, non solo e non necessariamente entro i confini del singolo Stato». [La concessione di un brevetto Epo garantisce, su richiesta, la validazione dello stesso nei 41 Paesi aderenti, validazione che tuttavia deve essere effettuata paese per paese, ndr].
Cosa occorre fare in Italia per cambiare questo scenario?
«La parola d’ordine, a mio giudizio, dovrebbe essere la formazione. Andare sul territorio per mostrare, soprattutto alle Pmi, i benefici di un brevetto valido al di là delle Alpi. Più in generale, l’auspicio è che il Governo italiano, all’interno del vasto programma di riforme in corso, decida l’adesione al brevetto unico europeo».
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