Di occasioni e paure. I migranti visti da vicino
Ballo ha 20 anni, ma ne dimostra 35 . Viene dalla Costa d’Avorio, è rimasto orfano da piccolissimo e non è mai andato a scuola: nessuno ce lo mandava. Adesso ha una moglie e una bambina di 2 anni che sono rimaste là. È grande, grosso e nero, ma mentre mi racconta di sé nel rauco francese africano le sue lacrime sono incontenibili. Non singhiozza, non fa rumore, ma il viso è tutto bagnato. Glady invece viene dal Congo Kinshasa («mi raccomando, Congo Kinshasa, non quell’altro Congo»), è alto e sottile, ha 22 anni e si occupava di marketing. Lui ha studiato e si veste che ci tiene, con le collane d’oro (o dorate) e strane fantasie sulla giacca bianconerooroargento. Poi ci sono Ali Junior, Congo Kinshasa anche lui, 25 anni, maestro di taekwondo, che mi mostra le foto di lui con la corazza, fierissimo, e Justin Didier, 35 anni del Camerun, che ha tre figli laggiù, la prima l’ha avuta a 14 anni perché a quell’età non lo fermava nessuno. Mi spiega il complicato meccanismo africano dei cognomi, che fa sì che lui e i suoi sei fratelli e sorelle li abbiano tutti doppi e tutti diversi. E poi ci sono Bamba, Youssuf, Yaya, Amara, che arrivano dal Mali, dalla Guinea Conakry («mi raccomando, Conakry, non quell’altra»), dal Senegal. Li incontro tutti una mattina alla settimana per far loro lezione di italiano, che almeno abbiano una chance in più qui, nel vedersi riconoscere un diritto d’asilo che è il sogno di tutti, ma che pochissimi otterranno.
Vivono nell’ex Cie di via Corelli a Milano, trasformato in Centro di accoglienza temporaneo, dove da qualche tempo, con il sostegno del direttore della struttura, si dà un gran da fare Angela, di nome e di fatto, ristoratrice milanese che si è messa in testa di cavare sorrisi dagli altri, specie da chi non ha molti motivi per sfoggiarli. E quindi, con altre volontarie provenienti per lo più dall’esperienza di Soserm, l’Associazione nata più di un anno fa su progetto di Susi Iovieno per portare soccorso ai migranti di passaggio al mezzanino nella stazione di Milano, Angela sta mettendo insieme una scuola di italiano, una squadra di calcio, un corso di coro e un altro di percussioni. Il punto è che questi ragazzi sono lasciati mesi, o anni, ad aspettare una risposta alla loro richiesta di asilo, un tempo di abbandono dove non possono fare niente, meno che mai lavorare, e che li chiude in un limbo d’inattività deleterio per la loro percezione di sé.
Entrare in Corelli è come fare un viaggio antropologico AfroAsiatico, ma tutto contenuto dentro un recinto nascosto dietro l’aeroporto di Linate. Qui incontri gli africani – eritrei, somali, nigeriani e tutti gli altri-, ma anche i Pakistani e gli Afghani, che ti inchiodano con profondi occhi chiari dentro lineamenti mediorientali. Incontri siriani e ghanesi, iracheni e maliani, tutti uniti dietro un pallone da mandare in rete. Le facce sono così diverse, i nasi – larghi, puntuti, schiacciati, corti, arcuati, minuti, protagonisti-, le corporature, le labbra, i denti, la forma degli occhi, che chi se lo immaginava che ci potessero essere così tante varianti di tutto quanto. Ascolti le loro lingue strane e vedi che in qualche modo riescono a parlarsi e capita che un uomo del Camerun si sforzi di ricordare il poco arabo che sa per spiegare a furbissimi ragazzetti siriani che cosa devono fare per compilare il test che dirà loro in che classe dovranno andare: su 144, 51 sono da alfabetizzare del tutto, 61 conoscono l’alfabeto latino ma non parlano affatto italiano, 27 capiscono frasi molto semplici e con 5 ci si può abbandonare a conversazioni vere e proprie, molto spesso rivelatrici di mondi.
Sono mondi che possono spiazzare, è vero, e che ora più che mai si vogliono tenere nell’altrove, oltre confini spostati sempre più in là, ben al di là delle frontiere della sacra Europa. Oppure li si vuole rinchiudere dentro campi dove siano resi innocui o, al contrario, ancora più spaventosi, per poter poi costruire altri muri, stendere nuovi fili spinati, tra gli applausi di chi tra noi si abbandona alla paura. Senza voler capire che l’umanità, noi compresi, si è sempre spostata, ovunque e dappertutto, e non potrà mai smettere di farlo. Che il movimento, la contaminazione, l’ibrido è occasione e vitalità. E che niente è più sterile della purezza, lo dice la biologia, lo dice la nostra stessa storia, che non sarebbe stata la stessa se, per esempio, la fuga di Giuseppe e Maria, per stare in tema natalizio, fosse stata fermata da un muro di cemento.
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