Immigrazione
Immigrazione. Per tornare a parlarne in maniera realistica
Negli ultimi giorni il dramma dell’immigrazione ha, purtroppo, avuto ampio risalto su tutti i media. A chi, come me, ha l’opportunità di avere un doppio punto di osservazione – quello inglese e quello italiano – è parso del tutto evidente come la classe politica – e con questo intendo dire le forze di governo così come quelle di opposizione – di entrambi i paesi abbia utilizzato spregiudicatamente fatti drammatici quali la tragedia di Cutro, gli ulteriori avvistamenti delle ultime ore nel mar Ionio, gli affondamenti di fronte alle coste della Libia, l’incremento esponenziale degli sbarchi illegali sulle coste della Manica, con un obiettivo esclusivamente politico di breve termine e non per un’analisi, a mio parere possibile, del problema anche come opportunità.
Premetto che a livello personale, umano ed anche etico, considero che le motivazioni umane ed economiche della maggioranza dei migranti non possano essere passate in secondo piano e che, solo leggendo le (ahimè poche) notizie che ci arrivano dai diversi fronti di crisi – Afganistan, Siria, Iran, Africa sub-sahariana solo per citarne alcune – dovremmo porci la domanda, in alcuni casi anche a livello utilitaristico, di quali dovrebbero/potrebbero i nostri atteggiamenti in merito al riconoscimento di diritti di asilo che vanno al di là di quelli oggi previsti dalle regole in vigore.
Cerco dunque di mettere insieme alcuni dati di fatto e alcuni elementi storici per arrivare poi a proporre qualche soluzione pratica (certamente non sufficientemente approfondita), forse utile a mitigare, se non a risolvere, un problema gigantesco che comunque riguarda tutti i paesi cosiddetti sviluppati.
Quasi tutti i nostri paesi – forse con l’unica eccezione degli USA, proprio grazie all’immigrazione – soffrono di una crisi demografica tale da mettere a repentaglio non solo la tenuta dei conti – con l’allungamento della vita media chi pagherà le pensioni nel futuro? – ma rendono particolarmente difficile il reperimento della manodopera richiesta dalle rispettive economie.
Allo stesso tempo, il combinato disposto di guerre, crisi climatica, competizione per le materie prime scarse – petrolio, terre rare ma, anche e forse ancor più, acqua – e curva demografica in crescita nella maggioranza dei paesi “poveri”, porta un sempre maggior numero di persone a cercare rifugio nei paesi “sviluppati”, anche a causa della diffusione dell’informazione via internet e social media che rende fin troppo evidente la differenza tra gli standard di vita tra i paesi cosiddetti ricchi e quelli che soffrono di carenza di risorse e di sviluppo, rendendo quindi molto più appetibile la vita “da noi” anche a chi magari solo qualche anno fa nemmeno sapeva di quale fosse la qualità della vita altrove.
Da tempo sui media, italiani e non, leggiamo comunque delle difficoltà delle aziende a soddisfare le proprie esigenze di risorse umane adeguate, dai lavoratori agricoli fino agli ingegneri specializzati. In Inghilterra, ad esempio, si calcolano in migliaia le mancanze di medici e infermieri (questi ultimi storicamente in buona parte provenienti dall’estero) – all’interno di un sistema sanitario già di per sé in crisi per mancanza di finanziamenti. Parimenti mancano gli autisti per il trasporto merci (qualche mese fa è dovuto intervenire l’esercito per distribuire il carburante nel paese), i muratori o i famosi idraulici polacchi che, negli slogan pro-Brexit, “rubavano il posto agli inglesi”. Il risultato è quindi che il National Health Service non riesce a soddisfare la domanda di prestazioni mediche di una popolazione che invecchia, mentre i tempi di attesa e i prezzi di una semplice riparazione in casa aumentano esponenzialmente. In Italia sentiamo quasi quotidianamente le diverse filiere lamentarsi dell’impossibilità di reperire la forza lavoro necessaria a soddisfare le esigenze di mercato – che si tratti di braccianti agricoli, di badanti, di personale sanitario, di operai né da formare né già specializzati, di personale per i servizi turistici (a cominciare dai camerieri in particolari soggetti alle distorsioni create dal reddito di cittadinanza).
Se, invece di ricercare consenso facile con i proclami più o meno singolari (e realizzabili) di Salvini, di Trump e dei suoi seguaci, o di Rishi Sunak, che minaccia respingimenti a vita anche per chi avrebbe diritto all’asilo se dovesse cercare di entrare illegalmente in UK, per una volta guardassimo alla storia, ci renderemmo conto che un’accorta gestione dell’immigrazione – in senso di apertura e non di restrizione come molti dei partiti sovranisti europei hanno tentato e continuano a fare – ha portato importanti benefici sia agli immigrati che ai paesi che li hanno accolti. Alcuni esempi più o meno lontani: Alla fine dell’Ottocento, a New York, è stato costruito e gestito come punto di entrata degli immigrati (europei) il centro di Ellis Island e da lì sono passati in migliaia – tra cui molti italiani – alla ricerca di un lavoro e di una nuova patria. Lo stesso ha fatto il Regno Unito con la selezione degli immigrati ai tempi dell’impero – lo stesso primo ministro e il sindaco di Londra sono di famiglie non inglesi. La Germania, dopo la caduta del muro di Berlino e la conseguente riunificazione, ha organizzato un’accurata selezione dell’offerta di manodopera qualificata e a buon mercato, bilanciando tale vantaggio con ampi sussidi agli stati della ex-DDR. Angela Merkel ha poi aperto le frontiere a oltre un milione di siriani (quasi tutti qualificati) ai tempi della crisi in quel paese (consiglio, tra l’altro, il bellissimo film intitolato “Le nuotatrici”) ottenendo notevoli benefici a favore del proprio paese.
Ognuno di questi casi ha certamente portato a forzature, strumentalizzazioni e probabilmente anche a ingiustizie, ma se oggi i paesi sviluppati si accordassero per la creazione di centri di selezione e smistamento – non nei paesi di origine, in quanto sappiamo come in tali paesi si creerebbero discriminazioni, segnalazioni, denunce e possibili corruttele o ritorsioni – di coloro che cercano di emigrare per qualsivoglia ragione, si potrebbero forse risolvere molti dei problemi dei paesi di accoglienza già menzionati.
Immaginiamo dunque per un istante – si tratta ovviamente di sogni irrealizzabili anche solo per problemi di spazio fisico – che a Lampedusa o a Gibilterra, a Dover o a Samos, a Lesbo o in qualsiasi altro dei numerosi punti di attracco dell’immigrazione clandestina ci siano delle rappresentanze diplomatiche di ognuno dei paesi “sviluppati”, che possano in modo rapido e informato, oltre che aggiornato, confrontare i richiedenti asilo con la domanda di lavori e servizi, con una situazione aggiornata delle richieste dei lavori necessari nei diversi paesi, quanti problemi si potrebbero risolvere.
In parallelo sono certo che si dovrebbero affrontare mille altri temi, a me non esperto, del tutto sconosciuti – cito solo per senso comune i ricongiungimenti familiari, i minori non accompagnati, l’offerta di servizi sociali necessari a sostenere i nuovi arrivati – ma se questi stessi problemi sono stati affrontati con successo secoli fa da molti dei paesi che sono stati meta dell’immigrazione, non credo che prendendo spunto da quanto già fatto sia impossibile trovare soluzioni ragionevoli (e utili anche per i paesi ospitanti) per un problema che resterà altrimenti irrisolto, che andrà verosimilmente crescendo e di cui è inutile negare l’evidenza.
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